Il mondo ha bisogno di Wes Anderson, ed in questo periodo di crisi e negatività ancora di più. Abbiamo bisogno del suo cinema, delle sua carrellate, dei suoi rallenty, dei movimenti di macchina precisi e "rotanti" e delle sue inquadrature sempre geometricamente perfette e simmetriche; abbiamo bisogno delle sue musiche, dei suoi capitoli, della cura per particolari forse insignificanti e dei suoi colori pastello; abbiamo bisogno delle sue storie strampalate, dei suoi personaggi eccentrici e delle sue storie d'amore tra fumetto e feuilleton. Abbiamo infine bisogno di perderci per un paio d'ore nel suo mondo, che esso sia un grande hotel una volta lussuoso e rinomato e oggi in declino, la tana di una volpe, un treno che viaggia per l'India, un isolotto al largo del New England, una casa borghese a Manhattan, un liceo dell'East Coast o infine un sottomarino in mezzo all'atlantico. Set ricostruiti a puntino frutto dell'immaginario fantastico di Anderson, a metà tra quadri o illustrazioni tecniche, un videogioco a scorrimento e una casa di bambole dove si può aprire la facciata e scivolare tra un piano e l'altro con immensa facilità, spiando queste piccole formichine all'opera nelle loro stanze, tutte indaffarate e mai ferme.
Dopo aver visto un suo film, rimane come un aura attorno ai nostri occhi e alla nostra visione del quotidiano, tutto sembra un film di Wes e ci muoviamo al rallenty, con una canzone indie pop come sottofondo.
Per questo che il suo ritorno con The Grand Budapest Hotel è un sollievo per l'anima e una vera gioia. C'è chi dice che Anderson si limita a fare e rifare lo stesso film utilizzando i suoi amichetti. Si potrebbe rispondere che decine di talentuosi e celeberrimi registi fanno e hanno fatto la stessa cosa, quindi non capisco dove sia il problema, ma una risposta migliore sarebbe, va benissimo così!