Il mondo ha bisogno di Wes Anderson, ed in questo periodo di crisi e negatività ancora di più. Abbiamo bisogno del suo cinema, delle sua carrellate, dei suoi rallenty, dei movimenti di macchina precisi e "rotanti" e delle sue inquadrature sempre geometricamente perfette e simmetriche; abbiamo bisogno delle sue musiche, dei suoi capitoli, della cura per particolari forse insignificanti e dei suoi colori pastello; abbiamo bisogno delle sue storie strampalate, dei suoi personaggi eccentrici e delle sue storie d'amore tra fumetto e feuilleton. Abbiamo infine bisogno di perderci per un paio d'ore nel suo mondo, che esso sia un grande hotel una volta lussuoso e rinomato e oggi in declino, la tana di una volpe, un treno che viaggia per l'India, un isolotto al largo del New England, una casa borghese a Manhattan, un liceo dell'East Coast o infine un sottomarino in mezzo all'atlantico. Set ricostruiti a puntino frutto dell'immaginario fantastico di Anderson, a metà tra quadri o illustrazioni tecniche, un videogioco a scorrimento e una casa di bambole dove si può aprire la facciata e scivolare tra un piano e l'altro con immensa facilità, spiando queste piccole formichine all'opera nelle loro stanze, tutte indaffarate e mai ferme.
Dopo aver visto un suo film, rimane come un aura attorno ai nostri occhi e alla nostra visione del quotidiano, tutto sembra un film di Wes e ci muoviamo al rallenty, con una canzone indie pop come sottofondo.
Per questo che il suo ritorno con The Grand Budapest Hotel è un sollievo per l'anima e una vera gioia. C'è chi dice che Anderson si limita a fare e rifare lo stesso film utilizzando i suoi amichetti. Si potrebbe rispondere che decine di talentuosi e celeberrimi registi fanno e hanno fatto la stessa cosa, quindi non capisco dove sia il problema, ma una risposta migliore sarebbe, va benissimo così!
La sua ultima fatica racconta il particolare legame tra un piccolo garzoncello di origine nordafricana, Zero, e il fascinoso ed elegante concierge, M. Gustave H., di un hotel situato nella repubblica di Zebrowka (nome inventato) attorno al 1932. La loro amicizia passerà in mezzo a un conflitto mondiale, un omicidio misterioso, vari tentativi di assassinio, innumerevoli fughe ed evasioni dal carcere ed un quadro trafugato. A portare alla luce questa incredibile storia è uno scrittore, giunto al Grand Budapest Hotel decenni dopo.
Un caper quindi dal ritmo sostenutissimo, che strizza l'occhio alle commedie sofisticate e prettamente svitate degli anni 40, Hitchcock incontra Lubitsch in uno dei film più "violenti" di Anderson, un tornado di emozioni, un'enorme scatola con tanti piccoli cassettini, un'eterna corsa in cui si rimane piacevolmente disorientati.
Ricorda molto "Le avventure acquatiche di Steve Zissou", ma all'interno compare tutto il cinema e tutti i film di W.A. (il treno, l'animazione a passo uno in una delle scene più esilaranti, l'apparizione di Bill Murray).
Zero Moustafa è il tipico personaggio andersiano, un giovane orfano alla ricerca di un padre (Gustave) che lo prenda sotto l'ala protettiva, cosa che avviene puntualmente ma in seguito a un burrascoso inizio. Giovani che vivono un avventura indimenticabile, è questo il suo cinema e la grande molla che scatta dentro di noi e ce lo fa amare (e aggiungo, ecco forse perchè Darjeeling mi era piaciuto molto meno).
Un mondo dove esiste il dramma, le persone a cui teniamo muoiono, si fanno del male, c'è una guerra in corso e persino gli animali ne pagano le conseguenze -Wes se la prende sempre coi cani, ma non qui. Sono favole dal retrogusto amaro, melanconico, ma ricche di speranza e amore.
Zero trova un mentore e trova anche una compagna di vita in questo bildungsroman fuori dal comune. Trova Agatha (la dolce, bella, profumata e chi più ne ha più ne mette Saoirse Ronan), la bella ragazzina della pasticceria Mendls con una voglia sulla guancia destra a forma di Messico, altro personaggio andersiano doc.
Film di personaggi e di facce. Nell'interminabile sequela di star, amiche di vecchia data o al loro primo assaggio, spiccano su tutti una Tilda Swinton irriconoscibile (ma quando mai lo è? Attrice che vive di trucchi e maschere) e un inquietante Willem Dafoe, personaggio violento -povero gatto- e divertentissimo dal look draculiano con tanto di canini in bella vista. Ma in mezzo c'è anche un Harvey Keitel con un fisico mostruoso (75 anni!?!?) e un Adrian Brody dall'aspetto luciferino.
Particolare ma azzeccatissima la scelta di alternare l'aspect radio (che termine poco poetico) del frame, tra il 16:9 del racconto di Moustafa anziano, e il 4:3 anacronistico ma meraviglioso della storia datata 1932.
Scenografie da favola -l'hotel è ricavato da un vecchio centro commerciale dismesso- immerse in colori che farebbero impazzire i web designer e designer in generale del Fuori Salone di Milano e di tutto il mondo. Il rosa delle mura dell'hotel, l'azzurro delle divise della pasticceria Mendls, il porpora dei valletti. Colori tenui, pastello che si stagliano sugli acquarelli degli sfondi finti. Il trio Stockhausen (scenografia) Canonero (costumi) e Yeoman (fotografia) compie un miracolo, è uno dei lavori di Anderson più immersivi e d'impatto visivo e parlando di un regista che ha fatto Darjeeling e Mr. Fox, è davvero impressionante.
E poi c'è Desplat, che te lo dico a fà! con una colonna sonora, iper velocizzata anch'essa, che scandisce come un metronomo i movimenti dei personaggi, pizzicando le corde di uno strumento che ricorda il bouzouki del sirtaki.
The Grand Budapest Hotel è uno dei film migliori dell'anno, una commedia surreale e accelerata, cartoonesca e retrò, lascia senza fiato questa una summa del cinema andersiano che farà impazzire i suoi fans e che potrà essere amato alla follia dai neofiti, forse solo ad una seconda visione. Avevamo bisogno di Anderson e oggi il mondo ci sembra un posto migliore. Grazie di nuovo.
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