giovedì 31 gennaio 2013

Les Misérables di Tom Hooper

Nelle sale dal 31 gennaio

Da quando ho letto il romanzo qualche anno fa, ho sempre fantasticato su un adattamento cinematografico dei Miserabili in mano ad un regista di talento, qualcuno in grado di sfruttare l'enorme potenziale scenografico di un'opera così imponente. Basta pensare alle pagine sulla battaglia di Waterloo, o la descrizione della Parigi di inizio '800, sconvolta dalle sommosse e percorsa dalle barricate.
Quindi quando hanno annunciato l'adattamento diretto da Tom Hooper, che non è certo uno sprovveduto, il sogno si è avverato, almeno per qualche minuto, perché purtroppo (per me) subito dopo hanno anche specificato che si sarebbe trattato di un musical, forse l'unico genere che mi crea ancora qualche problema.
Ma passiamo alla lezione di letteratura. I Miserabili di Victor Hugo viene pubblicato nel 1862 dopo una genesi di quasi vent'anni. Ad oggi è uno dei romanzi più celebri e letti della storia, e naturalmente è stato soggetto, o più spesso vittima, di vari adattamenti cinematografici, ben dodici dal 1925 a oggi, senza contare la mini serie televisiva con Gérard Depardieu.
Il musical invece è tutta un'altra storia: la sua prima incarnazione nasce a Parigi nel 1980 con musiche di Claude-Michel Schonberg e testi di Alain Boublil. Fiutato l'affare, Cameron Mackintosh ne produce subito una versione inglese che va in scena nel West End di Londra con testi di Herbert Kretzmer. Dopo un successo enorme, lo spettacolo sbarca anche a Broadway e nel resto del mondo, portando a casa una tonnellata di Tony Awards e diventando uno dei musical più rappresentati di sempre. Lo stesso Mackintosh comincia subito a pensare ad una versione cinematografica, che dopo quasi vent'anni diventa finalmente realtà.

mercoledì 30 gennaio 2013

Looper di Rian Johnson



In sala dal 31 gennaio.

A dispetto di quanto lasci pensare il gran numero di pellicole sull'argomento, i viaggi del tempo sono una materia difficile da trattare al cinema. Sia che li si affronti con fare scanzonato come in Ritorno al Futuro che con toni più seriosi, come in Terminator, il rischio di incombere in paradossi e incoerenze assortite è sempre altissimo, ma ancor più alto è il rischio di scontentare il saputello in sala con il ditino pronto ad alzarsi alla benché minima sensazione di buchi di sceneggiatura.
Il plot di Looper è molto semplice: nel 2074 verrà scoperto e immediatamente dichiarato fuorilegge il viaggio del tempo; tuttavia, le associazioni criminali troveranno il modo di utilizzarlo per compiere omicidi altrimenti impossibilitati dai moderni strumenti di indagine, mandando indietro di 30 anni la vittima che sarà giustiziata da killer detti Looper, così chiamati perché, dopo un certo numero di omicidi si vedono recapitare il proprio io dal futuro insieme a una cospicua quantità di lingotti d'oro per vivere 30 anni da nababbi. Qualcosa va storto quando Joe lascia scappare il suo doppio invecchiato, intenzionato a uccidere il bambino che da grande diventerà lo spietato boss Rainmaker.
Il regista e sceneggiatore Rian Johnson, già autore del drammatico Brick e del caper movie inedito in italia The Brothers Bloom sapeva che, perché il giocattolo funzionasse a dovere, era fondamentale che almeno un paio di componenti fossero oliati alla perfezione: innanzitutto, le “ristrettezze economiche” imposte dal budget di produzione (30 milioni di dollari) non permettevano lo sfoggio di sfarzosi effetti speciali. Inevitabile dunque la scelta di ambientare quasi per intero il film nel “presente”, un 2044 sporco, distopico, dove il divario tra ricchezza e povertà è netto e c'è giusto qualche elemento, una moto avveniristica o un nuovo grattacielo qua e là, a suggerirci la distanza con i nostri tempi.
In tale contesto, Johnson ha la saggezza di realizzare un film d'azione ben ritmato e coinvolgente che fa il verso alla grande fantascienza, quella intelligente, che sapeva porre quesiti morali sulla realtà umana e che è andata diluendosi nel mare magnum di pellicole tutte identiche che si fregiano, senza criterio né rispetto, dell'appartenenza a un genere così nobile, mettendo in mostra mirabolanti e trasbordanti sequenze in computer grafica totalmente prive di contenuto. L'autore zittisce i sapientoni citati in apertura tramite un suggestivo espediente narrativo, che garantisce la persistenza della sospensione dell'incredulità, e sposta il focus della vicenda su questioni come il libero arbitrio e la possibilità di forgiare il proprio futuro senza condizionamenti o ancora sul fatto che gli intenti più nobili, mossi dai sentimenti più genuini e positivi come l'amore, possano tradursi in reiterate mostruosità.
Semmai vanno denunciate una certa freddezza di Nolaniana memoria, quella mancanza di trasporto e di empatia con cui il tutto viene gestito, e un didascalismo fin troppo evidente, che raggiunge il picco in una sequenza al tavolino di un bar che doveva essere una scena madre e che invece si risolve in uno spiegone lento e prolisso che fa precipitare il ritmo.
Non per colpa dei due attori protagonisti, sia chiaro: l'ottimo casting, altro elemento che doveva funzionare alla perfezione, è frutto della scelta della produzione di non mirare alla somiglianza somatica quanto piuttosto di costruirne una, reclutando due grandi attori e servendosi delle moderne tecniche di trucco prostetico. Joseph Gordon Levitt interpreta il Bruce Willis cinematografico, quello che abbiamo imparato ad amare in anni e anni di onorata carriera, senza scimmiottarlo ma mettendoci anche del proprio e rispolverando la serafica indifferenza caratteristica del personaggio interpretato in Inception. Buonissimi anche gli interpreti dei personaggi di contorno, in primis un trasandato e cattivissimo Jeff Daniels e il piccolo inquietante Pierce Gagnon, già visto nel remake de La Città verrà disturtta all'alba.

Looper è un film divertente e ben orchestrato, per merito di una regia certosina, di una sceneggiatura intelligente, che ha il coraggio di osare e che tratteggia personaggi ambigui e privi di scrupoli, e di un cast in stato di grazia. Una pellicola, basata su un'idea semplice, ben lontana dalla faciloneria della fantascienza odierna, che non lascia spazio allo sfruttamento seriale essendo perfettamente autoconclusiva, ma che soffre di momenti didascalici troppo consistenti per essere trascurabili, e che aveva fortemente bisogno di essere realizzata leggermente più di pancia che di testa. Senza dubbio sentiremo ancora parlare di Rian Johnson, un autore che ha dimostrato ampiamente di avere il talento e la poliedricità necessarie per sfondare.

lunedì 28 gennaio 2013

The impossible di Juan Antonio Bayona

Nelle sale dal 31 gennaio.
Devo ammetterlo, partivo coi peggiori pregiudizi riguardo questo Lo imposible (titolo originale). Leggendo la trama pare evidente l'intento del film: fare piangere il più possibile, con una storia umana che ci ha toccato e sconvolto tutti, non meno di circa 9 anni fà. E di solito questi film, così trasparenti e così caricati falliscono miseramente nella loro impresa ancora prima di iniziare. Questa volta però è andata nel verso opposto ed è impossibile non commuoversi (molto o poco dipende dalla sensibilità dello spettatore) di fronte a The impossible -tiè pure il gioco di parole.
Trattasi di storia vera, natale del 2004, Thailandia. Una classica famigliola, genitori più tre figli piccoli, ha deciso di passare le vacanze invernali in un resort immerso in un vero e proprio paradiso in terra. Mare cristallino, sole cocente, bella gente e buon cibo. La sera della vigilia di natale si fanno volare delle lanterne e la mattina dopo si scartano i regali e si corre subito a provarli o a sfoggiarli. Cosa potrebbe andare male? Ti punge una medusa? Perdi la chiave della tua camera? Tuo figlio si ammala? No, molto peggio, arriva uno tsunami (ma non era nella brochure!) che rade al suolo tutto e si porta via circa 4000 persone. La nostra famigliola iniziale si trova sommersa, presa in pieno dalla potenza delle onde. Chi riuscirà a sopravvivere e quanti riusciranno a ritrovarsi dopo quell'inferno?
Il film parte come uno spot della Valtour o di una qualsiasi compagnia di viaggi. Da un momento all'altro ti aspetti che venga fuori il logo e il motto. La fotografia è pubblicitaria come anche tutto il resto. La famiglia bella e sorridente, con gli adulti che sono due pezzi della migliore produzione della razza umana. 
Poi entra in gioco la catastrofe, ed è gestita e costruita in maniera molto lodevole. Prima di tutto dal lato visivo. Vi ricordate il buono ma non eccelso tsunami digitale di Hereafter di Eastwood? Ecco, non che sia una gara, ma questo è dieci volte meglio. E' letteralmente impressionante, sia nella parte computerizzata sia in quella più reale con la ricreazione di un vero e proprio fiume in piena. In secondo luogo come viene suddivisa la storia della famiglia -niente di trascendentale ma efficace- ed ancora di più come apre una delle due, con quella formidabile sequenza di madre e figlio che si rincorrono nel bel mezzo dei mulinelli d'acqua e dei detriti trasportati, urlando.

The impossible funziona come le stesse onde che si abbatterono quel giorno, l'andamento del film segue un ciclo molto simile. Dopo la parte iniziale, comincia a piazzare una scena drammatica e molto intensa, una dietro l'altra e a distanza di una decina di minuti o meno. Ti distrugge con, ad esempio, Lucas che cerca i dispersi nell'ospedale e prende i nomi dai parenti, e poi si placa un pò, ti riattacca con la chiamata al cellulare a casa e poi ti da il tempo di asciugarti le lacrime che ancora sgorgano copiose. E fa così ancora per un paio di volte. Picco, quiete, picco, quiete.
La cosa rimarchevole è che riesce ad ogni tentativo, va a colpo sicuro. Con cose molto semplici e senza pigiare sul facile sentimentalismo o sul grido isterico o sull'eccessiva recitazione esasperata degli attori, ottiene quello che vuole.
Persino nel finale, dove si lascia andare al melenso -ma ricordatevi che è una storia vera e magari la conoscerete pure già- non crolla mai nel patetico. Unica pecca è quel rewind-ralenty-metafora, anche piuttosto lungo che viene piazzato a tradimento. Evitabile anche se d'effetto.
Certo, si storce un pò il naso a constatare che le vittime del film siano solo esseri umani di pelle bianca, ricchi e in vacanza. La tragedia è che la loro permanenza profumatamente pagata è stata messa gambe all'aria. Non c'è traccia dei thailandesi a parte nella breve scena dove la Watts è aiutata da un gruppetto di un villaggio. Loro sembrano passarsela bene. Stavano nella fanga e in casa di paglia prima, ci stanno ora. Che ce frega?  Certo ma se fai  in altro modo perdi tutta l'empatia del pubblico occidentale e addio guadagni.
In ogni caso è un'altra produzione spagnola riuscita (e questa volta pure al botteghino, complice una distribuzione world wide completa) con Bayona (conosciuto da noi per The orpahanage) a tirare le redini, capace di gestire al meglio una storia facile ma allo stesso tempo da prendere con le molle, in un tripudio di effetti speciali ottimi e con un cast internazionale di tutto rispetto. E ancora una volta viene da chiedersi perchè l'Italia non sia in grado di fare una cosa simile. Mah...certo la famiglia era spagnola ma non esistono proprio storie simili vissute da italiani? Eh ma il cinema spagnolo sta molto meglio economicamente, facile. Mica tanto, perchè gli studios dove è stata girata questa pellicola (Ciudad de la Luz), hanno chiuso poco dopo, dichiarando fallimento. Se la passano quindi bene o male come noi, ma fanno buon cinema e soprattutto lo vanno a vedere.
Essendo un film corale, gli attori adulti, e non, si spartiscono la scena equamente. Grande prova di tutti e tre i baby, tra cui spicca chiaramente Tom Holland. Ewan McGregor da il meglio di se nella scena alla stazione, per il resto è nella norma. Naomi Watts, sempre brava e coraggiosa nella scelta dei film, si porta a casa una nomination agli Oscar ma sinceramente fa poco e si vede poco, anche solo in viso. La sofferente la fa bene, ah su quello non discuto.
In definitiva The impossible/Lo imposible è un film che colpisce in pieno come un onda. Struggente e potente, emozionante e misurato (nei limiti ovvio), capace di far crollare anche la roccia più dura che si mette a visionarlo. Sorprende e riesce nonostante i suoi limpidi intenti. Se siete dalla lacrima facile, portatevi uno scatolone di clinex o propendete per altro, magari una commediola. 

giovedì 24 gennaio 2013

Filmbuster(d)s - Episodio #21

Ci scusiamo in anticipo con tutti coloro che si sentiranno offesi per l'elogio funebre peggio riuscito della storia degli elogi funebri. Per chi avrà la forza di andare avanti, tanta roba tra cui l'annuncio dei vincitori dei Filmbuster(d)s Movie Awards 2012 e i dibattiti sui due film del momento: Django Unchained di Quentin Tarantino e Frankenweenie di Tim Burton.

Nel 21° episodio di Filmbuster(d)s:

[00:02:45]L' elogio funebre peggiore di tutti i tempi
[00:05:50]Filmbuster(d)s Movie Awards 2012

[00:20:40]Frankenweenie
[00:44:00]Django Unchained






Potete ascoltare l'episodio al link diretto al file MP3 (per scaricarlo basta cliccare col destro e poi "Salva link con nome"): Clicca qui

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mercoledì 23 gennaio 2013

Lincoln di Steven Spielberg


Nelle sale dal 24 gennaio.
Una decade e due anni orsono, due uomini hanno portato avanti un'idea semplice, concepita in libertà e dedicata all'idea che tutti gli uomini sono creati per vedere il miglior film possibile su Abraham Lincoln. Colta la citazione? Bene, particolare la storia dietro all'ultima fatica di Spielberg. Tutto è nato ben dodici anni fà quando in comunione con  Tony Kushner (suo sceneggiatore anche per Munich) cercò di portare su schermo uno dei suoi più grandi eroi, il 16esimo presidente della storia degli Stati Uniti.
Per diverse ragioni il progetto è stato via via accontonato e solo pochi mesi fa ha visto la luce. Il caso vuole che il 2012 appena passato sia stato l'anno di Lincoln, al cinema e non. C'è chi l'ha fatto diventare uno spietato killer di zombie o di vampiri, e chi, come Obama (democratico, mentre l'onesto Abe era repubblicano), ha citato diversi suoi celebri discorsi per portarsi a casa la rielezione. Senza dimenticare il fortunato The conspirator di Robert Redford (2011) che trattava del processo seguente all'assassinio per mano di John Wilkies Booth.
Spielberg si affida quindi a Kushner che predilige la via del biopic non completo, tanto di moda ultimamente ed effettivamente la miglior maniera per trattare una figura storica. Usando come base -una parte- del librone  Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln (del premio Pulitzer Doris Kearns) racconta dei quattro mesi tra la rielezione di Abe, i suoi vincenti tentativi di promulgare il 13esimo emendamento, quello sull'abolizione della schiavitù, la conclusione della guerra civile e la sua nefasta dipartita al Ford Theatre di Washington. Quattro mesi, i più importanti della vita e della carriera politica dell'ex avvocato del Illinois, che usò il suo grande potere, derivato anche dalla vittoria della guerra, per porre fine alla schiavitù, causa della divisione. La sua grande sfida non era solo quella di far passare un emendamento che rendeva uguali cittadini di diversa razza -diversa da quella bianca-, ma di farlo passare entro la fine del conflitto, ovvero prima che i sudisti tornassero nei loro seggi e bloccasero tutto.

L'inizio di Lincoln è il più traviante possibile. Ci ritroviamo di colpo nel bel mezzo di una battaglia. 1865, gennaio, la guerra civile americana è quasi giunta al termine, il sud è stremato e al nord basta conquistare poche singole roccaforti per chiudere la partita. Spielberg apre con un frammento di una battaglia. Il fango, lo scontro corpo a corpo fatto di coltelli e baionette che si conficcano nella carne. Lo schermo è totalmente coperto da una coreografia impregnata di morte e violenza. 
Ma il regista di Salvate il soldato Ryan la chiude qua. Per lui la guerra finisce con quella scena, perchè il tipo di battaglia centrale nel film è di tipo verbale. Nella piena tradizione delle più acclamate e premiate serie americane -da West Wing a il nuovo Newsroom- Lincoln vive di parole, di attori, di dialoghi e di una sceneggiatura poderosa, più vicina a un libro di testo universitario che a un prodotto commerciale.
Eliminati -dalla scena- i soldati, prendono la parola i politici che dibattono inferociti seduti ad un tavolo coinvolgendo lo spettatore in un turbinio capace di far girare la testa. E' un vero uragano a cui si fa fatica stare dietro ma una volta passato quell'inizio complicato, il film prende slancio e appassiona sempre più -nei limiti di un soggetto politico.
Almeno dal mio punto di vista, è parecchio interessante vedere come funzionava il teatrino della politica a quell'epoca, come i repubblicani erano più progressisti e i democratici più retrogradi -mentre ora è l'esatto contrario, si vede che qualcuno si è evoluto e qualcun'altro no- o come Lincoln ottenne quei voti tanto importanti -corruppe pesantemente alcuni deputati, ma Spielberg non lo nega di certo, dopotutto il fine giustifica i mezzi e il fine questa volta era di una certa importanza- o ancora la divertente corsa dei segretari del presidente dal senato fino alla Casa Bianca (ah, la politica prima dei social network!). Un viaggio frastornante all'interno della politica degno del Tempesta su Washington di Otto Premingher.
Protagonista è chiaramente il presidente che tuttavia rimane su schermo per un terzo della durata del film. Tempo necessario per mostrare approfonditamente il politico e soprattutto l'uomo, il padre e il marito, attraverso i suoi discorsi ma anche i suoi interminabili aneddoti e racconti; metafore per spiegare qualcosa di più grande ma molto spesso evitate e demonizzate dai suoi collaboratori ("Oh no! Sta raccontando un altra storia! Non ne posso più, me ne vado!" grida il suo ministro della difesa). Viene fuori il ritratto di un uomo fuori da ogni epoca, testardo, abile e inflessibile.  
A proposito di questa lunghissima recensione mi viene da citare un "suo" aforisma, "Avrei potuto scrivere dei sermoni piu' corti, ma, una volta iniziato, sono troppo pigro per fermarmi".

Quello che ti aspetti da un film su un grande statista americano, progressista, che ha parzialmente pulito quella terribile macchia con cui gli americani convivono tutt'oggi, e  con Spielberg dietro la macchina da presa è che si riveli un fiume di retorica e di patriottismo grondante stelle e striscie, eppure il vecchio Steven si trattiene più che può, fino a un certo punto. Certo c'è la scenetta con i soldati multirazziali che si radunano attorno a lui -in posizione simil monumento che gli verrà poi dedicato-  e che recitano a memoria il suo discorso di Gettysburgh, certo c'è l'immagine di Lincoln papà che mette a letto il figlio con le figurine degli schiavi e certo ce ne sono tante altre simili, ma mai oltre il limite. Poi, ma glielo si perdona, si lascia andare con quel finale, e con quella camminata dinoccolata di Abe verso il suo destino e tutti gli occhi dei suoi collaboratori umidi quanto preveggenti. Spielberg si lascia andare come un fiume in piena e benchè sia commovente è anche fin troppo prevedibile.

Non posso chiudere senza un breve discorso su attori e sugli Oscar prossimi. Sebbene Daniel Day Lewis sia uno degli attori più bravi della nostra generazione e seppure interpreti un Lincoln impressionante per caratura e somiglianza, non riesco in primis a essere così colpito dalla sua performance -50% lo fa il trucco ma è un discorso che si può fare a mille ruoli, quasi sempre vincenti agli Oscar- e in secondo luogo a non pensare al suo lavoro in Gangs of New York di Scorsese. Ruoli per molti versi diversi e per tanti altri molto simili. Inoltre, se visto in italiano, Favino realizza un vero massacro con quella vocina. Per favore, fate come me e guardatelo almeno una volta in lingua originale.
Si ditinguono poi un Tommy Lee Jones imparruccato, molto buffo ma non per questo non spaventoso, Sally Fields nella parte della lunatica Mary Tood Lincoln e il sempre lodevole David Strathairn. Senza dimenticare il trio capitanato da James Spader che offre l'unica componente leggera dell'intera pellicola.
E quindi Oscar. Lincoln è il classico prodotto da Oscar sia per contenuto che per forma, ma mi sento di escluderlo da possibili larghe vittorie (12 nomination), sia perchè gli preferisco diversi dei film in lizza e sia perchè penso che l'America potrebbe credere nel piccolo Beasts of the southern wild, nel poetico La vita di Pi o nel guerreggiante Zero Dark Thirty, tanto scomodo e tanto coraggioso, che l'Academy potrebbe premiarlo.
Infine spero in Phoenix e molto meno in D.D. Lewis.

In definitiva -finalmente- Lincoln è certamente un prodotto di ottima fattura, coinvolgente sia dal punto di vista del contenuto -e qui la sceneggiatura meriterebbe un Oscar- che da quello visivo. Tuttavia l'argomento non facile, una regia buona ma non trascendentale o originale, un gruppo di attori buoni e attenti a rispecchiare i propri reali personaggi ma non così buoni da emozionare più di tanto lo spettatore, rendono il film meritevole di una visione ma non oltre quella. Rimane comunque uno dei lavori -non diretti all'enterteinment- migliori di Spielberg.

lunedì 21 gennaio 2013

Flight di Robert Zemeckis


Nelle sale dal 24 gennaio.

Durante la fase di atterraggio del volo di linea 227 tra Orlando e Atlanta, un'avaria meccanica fa precipitare l'aereo; il comandante William “Whip” Whitaker salva la vita di 96 dei 102 passeggeri grazie a una manovra impossibile. Tuttavia, in seguito alle analisi di routine, gli vengono trovate nel sangue tracce di alcool e droga ben al di sopra di limiti imposti dalla legge. Nonostante le indagini sull'aeroplano rivelino che non ci sia correlazione tra lo stato di salute di Withaker e l'incidente, provocato piuttosto da un usura eccessiva di un componente e negligenze di manutenzione, la necessità di trovare un colpevole trascina il comandante in una lotta legale per dimostrare la propria innocenza.
Robert Zemeckis torna al cinema live action dopo la sfortunata esperienza della sua casa di produzione, la Image Movers, nel campo dell'animazione digitale; molti addetti ai lavori considerano il regista di Forrest Gump un grande innovatore, specie per quanto riguarda la sperimentazione nel campo della tecnica della Performance Capture. Dispiace constatare però che tale spirito pionieristico non si sia mai tradotto in pellicole di qualità: personalmente dei tre film in questione salvo giusto Beowulf che ho rivalutato di recente; gli altri due, A Christmas Carol e Polar Express sono noiose demo tecniche prive di mordente. Il flop disastroso di Milo su Marte ha costretto l'azienda a tornare sui propri passi e ad accantonare momentaneamente i progetti d'animazione.
Chi scrive da sempre subisce la fascinazione della maniera di narrare una storia a là Spielberg, ed è innegabile che Zemeckis abbia costruito il suo stile su queste basi, lo si può constatare su più livelli: tuttavia, è proprio da ammiratore che dopo 40 anni e passa di storie raccontare in questo modo, inizio a sentire scricchiolare qualcosa. Sia chiaro, Flight è un buon film e di solito giudico una pellicola per quello che è, non per quello che poteva essere, ma quando il potenziale dello script è così soverchiante rispetto all'esito finale non posso che immaginare quale sarebbe stato il risultato se dietro la macchina da presa ci fosse stato un regista più ardito e meno diplomatico, sia sul piano formale che su quello contenutistico.
Flight è un film neutrale che fa l'errore di mettere tutte le carte in tavola sin dalle prime battute (a voler essere cattivi, si potrebbe dire sin dal trailer...) e di non prendere in maniera decisa una posizione se non nelle battute di un finale, questo si duro e privo di melensi pietismi. Ed è un vero peccato perchè di carne al fuoco ce n'è tanta: l'intera sequenza del volo, sulla bocca di tutti, è cinema d'intrattenimento d'alta scuola, il protagonista è un interessantissimo personaggio pieno di ombre squarciate da pochi raggi di luce, le questioni morali poste sono notevoli ma l'elemento chiave, la critica alla fame  di scandali della società e alla conseguente caccia ossessiva al colpevole, è sommesso e poco efficace.
Al netto di ciò, Flight ha il pregio di non essere solo una scena spettacolare con parti noiose annesse, le abilità di grande narratore di Zemeckis si fanno sentire, specie dopo la grande abbuffata dell'incidente aereo, senza mai annoiare o deludere salvo che in un paio di sequenze legate al personaggio femminile interpretato dalla scialbissima Kelly Reilly: è evidente come il materiale politically uncorrect non sia nelle corde del regista e, sebbene non lo dia mai a vedere nel rappresentare Withaker, nel tentativo di dare un background a un personaggio secondario inutile nell'economia del film come l'eroinomane Nicole scimmiotta il Danny Boyle di Trainspotting generando sgradevoli disarmonie.
Bravo Denzel Washington, ormai abituato a personaggi del genere, bravi gli attori di supporto come Don Cheadle e il caratterista Bruce Greenwood, eccezionale al solito John Goodman negli insoliti panni di uno spacciatore new age dai modi schietti.
In definitiva Flight è un film coinvolgente e appassionante che vale il prezzo del biglietto, ma dal quale, viste le premesse, era lecito aspettarsi di più. A voler guardare il bicchiere mezzo pieno, ci si può quantomeno accontentare del ritorno di un buon narratore a un cinema, magari meno ambizioso, ma senza dubbio di qualità.

domenica 20 gennaio 2013

Django Unchained di Quentin Tarantino

Nelle sale dal 17 gennaio

Dopo Bastardi senza gloria, credo siano rimasti pochissimi spettatori che ancora non hanno imparato a conoscere e capire il cinema di Quentin Tarantino. Amarlo certo è un altro discorso, ma è diventato sempre più raro sentire qualcuno che scambia omaggi per plagi e si indigna davanti a scambi di battute così poco convenzionali. Certo c'è ancora qualcuno che magari a fasi alterne cede e sprofonda nella poltrona, ma sono pochi e spesso non lo ammettono. Insomma con il meritatissimo successo di Bastardi senza gloria Tarantino è stato finalmente metabolizzato dal grande pubblico, quindi non perdo tempo a ricordarvi l'importanza degli spaghetti western nella sua formazione di spettatore prima e regista poi, la conoscete già, e chi ormai lo conosce sa che quando Tarantino mette le mani su un genere cinematografico, in realtà sta facendo tutt'altro; di conseguenza saprete anche che il suo omaggio agli spaghetti western lo ha già girato, disseminato lungo tutta la sua filmografia. E Django Unchained naturalmente non costituisce l'eccezione, perché del western all'italiana veste solo gli abiti, o forse nemmeno quelli. 
L'irresistibile Christoph Waltz interpreta il Dottor King Shultz, che come tutte le leggende del far west ha un passato avvolto nel più fitto mistero. Immigrato tedesco, ex artista circense, ex dentista e ora temibilissimo cacciatore di taglie finito nel profondo sud a dare la caccia ai fratelli Brittle. Purtroppo non ha mai visto in faccia i ricercati in questione, così si rivolge allo schiavo Django (un Jamie Foxx che in quanto a glacialità non ha nulla da invidiare a Franco Nero) per poterli identificare. Oltre alla libertà, Schulz gli promette di aiutarlo a liberare sua moglie Broomhilda dalle grinfie del negriero Calvin Candie (un esplosivo Leonardo di Caprio). Così, riscosse le taglie, questo eroico e incazzatissimo Sigfrido parte alla volta di Candieland.

Lo speciale. Django: uno, nessuno e centomila.

"Django!/ Django, now your love has gone away. /Once you loved her, whoa-oh... /Now you've lost her, whoa-oh-oh-oh.../But you've lost her for-ever, Django". Louis Bacalov featuring Rocky Roberts.

Gli inglesi hanno James Bond, i giapponesi Godzilla, gli americani ...bè loro ne hanno anche troppi, i francesi hanno Angelica e molti altri, gli italiani hanno Django. Numericamente -ovvero per numero di capitoli dedicatigli- non ha rivali. Qualunque pessimo regista ci ha provato, qualunque pessimo attore o macchietta ce lo ritroverete dentro, qualsiasi pessimo sceneggiatore ha voluto dire la sua. E così Django è cresciuto e ha varcato i confini italiani per finire persino nell'estremo oriente ed oggi nell'America di Tarantino.
Quanti Django esistono? Difficile dirlo, sono come la muffa, ma in questo speciale tenteremo di ritrovarli tutti, persino i suoi cugini di terzo grado e persino quelli in cui non c'è Django.

"-E in principio fu Corbucci".
1966, in Italia è scoppiata una moda, un caso, un genere. Da ormai due anni Sergio Leone ha dato il la allo spaghetti western -facendo subito uscire i suoi film da questa denominazione-, termine dato dagli americani, ovvero il western all'italiana. E' un genere semplice; non servono molti soldi, non servono grandi attori e la sceneggiatura si può scrivere in poche ore. Eppure il pubblico ne va pazzo e ne chiede sempre più. 
Il western all'italiana è molto diverso da quello americano d'epoca, ormai antico. Effettivamente è più brutto e più sporco, meno fine ma è proprio questo il suo fascino. Però appunto, dovete dimenticare Leone e la sua trilogia del dollaro perchè dobbiamo scendere in un universo sconosciuto e tetro da cui non è facile fare ritorno, fatto di registi svogliati, paesaggi spagnoli e parecchi litigi oltre che mille versioni diverse riguardo qualsiasi scena. Ognuno ha il suo ricordo e guai dire il contrario.

A Royal Weekend di Roger Michell

Nelle sale dal 10 gennaio.

Uno dei miei buoni propositi per l'anno nuovo era quello di essere meno indulgente con i film che più prestano il fianco a critiche. Non cercare di salvare (o almeno non affossare un'intera pellicola per una singola scena o una buona prestazione di uno dei personaggi o una musica azzeccata. Tuttavia con A Royal Weekend non c'è stato nessun bisogno di sforzarsi, è stato facile scriverne male.
1939, parte alta dello stato di New York, residenza estiva del presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano Roosevelt (quello con la polio, citando Juno). Stanno per arrivare in visita i reali inglesi, Re Giorgio VI e consorte, Elizabeth, per discutere di un possibile aiuto in guerra, ormai prossima, degli americani al popolo inglese. A parte questo, FDR è molto annoiato e chiama la cugina Daisy ad allietare le sue giornate. Dopo una veloce sega in un bel campo fiorito -quale romantica e toccante storia d'amore non inizia così?- i due diventano amanti, al diavolo il sangue comune, tanto sono di quinto o sesto grado e lui è il presidente degli Stati Uniti, per dio!
Solitamente questo genere di film è molto gradevole; piccole storie private, sconosciuto, di grandi personalità della storia, di modo da conoscerle meglio, da più vicino. Ecco, solitamente, perchè spesso si incappa anche in un film di questo genere, con poche cose da dire e ancora meno voglia di renderlo più appetibile. O ancora, ci si dimentica d dare un quadro più caratteristico del personaggio storico preso in considerazione e limitarsi a dire le solite banalità che tutit sanno (ogni riferimento a Marilyn è voluto).
A Royal Weekend si conclude con la frase "Dopo la morte di Daisy, a 101 anni e rotti, furono trovate sotto il suo letto diari e lettere che descrivevano il suo rapporto sentimentale on FDR", al che dici: e da tuto quel materiale avete tirato fuori solo questo? Daisy aveva scritto poco perchè pigra o perchè non c'era molto da dire? O forse semplicemente non eravate così convinti di fare una storia intera solo su loro due? Andando più a fondo si può capire come Daisy sia un personaggio davvero debole, anche a volerlo approfondire di più.
In ogni caso, dell'amore tra Daisy e il presidente rimane poco e soprattutto è condito da una fastidiosa e petulante (ammetto potrebbe essere colpa dle doppiaggio italiano) voce fuori campo che ripercorre alcuni eventi significativi. Chi è il vero protagonista del film, o meglio chi sono? I due regnanti inglesi, sia per spazio concesso loro e sia per qualità delle sequenze loro rigaurdanti.
I pezzi più divertenti -ricordiamoci, come fece il trailer, che dovrebbe essere una commedia- riguardano Giorgio VI. Idem vale per le parti dove uno dei personaggi dell'opera viene più approfondito, ed è sempre il re inglese. Infatti una delle scene meglio riuscite è il dialogo notturno tra i due capi di stato in cui il re balbuziente si lascia andare, si scioglie e ne vediamo un interessante ritratto, addirittura alla pari, se non migliore, di quello che si vede ne Il discorso del re. Però adesso basta con film su Bertie-Giorgio VI, siamo al terzo (W.E. di Madonna è l'altro).
Senza dimenticare che fa pesare tutti i suoi 95 minuti, diventando parecchio indigesto, soprattutto se paragonato a molti film di questo periodo che durano tra le due e le tre ore ma che scivolano via facilmente. Insomma caro Michell, non ne hai presa una, hai perso il tocco.
Solo per un motivo il film esce momentaneamente dall'anonimato quando tra mesi -o solo settimane- dopo la visione qualcuno ve lo nominerà: "Ma quel film con Bill Murray?". Ecco, lui è un piccolo raggio di sole in una giornata altrimenti buia (nonostante non assomigli a FDR manco da dietro). Siamo abituati a vedere Murray fare Murray, sempre, ma stavolta no. Si sofrza di fare un ruolo, di non essere il solito cinico, stronzo e svogliato uomo sui 30-40-50. Questa volta è il presidente Roosevelt, sorride, fa battute classiche e non sarcastiche. Oh, mai visto Murray non essere Murray. E poi c'è Laura Linney che detesto. Buonanotte.

sabato 12 gennaio 2013

Filmbuster(d)s - Episodio #20

Se siete tra i pochi eletti che sono riusciti a vedere il nuovo film di Paul Thomas Anderson, The Master, apprezzerete il dibattito in apertura di episodio. Per tutti gli altri che, come me (alexdiro), stanno rosicando è tempo di classifiche e di bilanci sul 2012 cinematografico. Benvenuti ai primi Filmbuster(d)s Movie Awards: abbiamo selezionato, categoria per categoria, i film migliori che abbiamo visto l'anno scorso nei cinema e nei festival, i vincitori però li determinerete voi rispondendo al sondaggio presente sulle pagine del nostro blog all'indirizzo  http://filmbusterds.blogspot.it/2013/01/filmbusterds-awards-vote-or-die.html








Nel 20° episodio di Filmbuster(d)s:

[00:04:20]Cloud Atlas
[00:09:35]The Master
[00:37:40]Commento sul 2012
[00:56:40]Nominations
[01:09:00]Animazione
[01:19:20]Colonna Sonora
[01:26:00]Fotografia
[01:32:00]Sceneggiatura
[01:39:35]Attore Protagonista
[01:51:20]Attrice Protagonista
[01:59:32]Regia
[02:10:48]FLOP 5
[02:29:00]TOP 5


Potete ascoltare l'episodio al link diretto al file MP3 (per scaricarlo basta cliccare col destro e poi "Salva link con nome"): Clicca qui

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Oppure ascoltate il podcast mediante il player Podtrac:

venerdì 11 gennaio 2013

Filmbusterds Awards! Vote or die

Il 2012 è finito, viva il 2012. Siamo passati indenni attraverso le profezie Maya, i mille blockbusters targati USA e i nuovi cinepanettoni camuffati da 'non-cinepanettoni'. Per fortuna c'è stata anche molta robba bella, meritevole, in alcuni casi film da annoverare tra i migliori dell'era post 2000. Ebbene, noi Filmbusterds, per festeggiare i nostri primi sei mesi e onorare l'anno appena conclusosi, abbiamo deciso di fare la classica classificona del meglio e del peggio, ma al contrario di tutti gli altri, abbiamo deciso di fare scegliere a VOI il miglior film, regista, attore etc... Noi abbiamo deciso i nominati, voi i vincitori. Let's go!
Per un approfondimento delle categorie (perchè abbiamo messo X e perchè non abbiamo messo Y, perchè questo e perchè quello)  l'ascolto della Puntata numero 20 (http://filmbusterds.blogspot.it/2013/01/filmbusterds-episodio-20.html) registrata l'8 gennaio, è propedeutico e obbligatorio.
Sarebbe molto gradito un commento o una discussione qua sotto, nello spazio Commenti. Grazie.

Breve Regolamento.
-Il sondaggio non richiede iscrizione, è del tutto anonimo, ma sarebbe gradito un Mi piace alla pagina http://www.facebook.com/Filmbusterds o un follow su Twitter https://twitter.com/Filmbusterds.
-Potete votare un elemento per ogni categoria, non più di uno. 
-Potete votare tutte le volte che vorrete, da qui alla chiusura del sondaggio. Anche più volte consecutivamente, basta aggiornare la pagina.  
-Potete votare anche solo una parte delle categorie, non tutte. Se non avete visto alcuni film o siete indecisi, potete saltare. Ma su dai, votate anche per simpatia.
-I film in questione sono tutti usciti nelle sale italiane nel 2012, salvo rari casi, tuttavia di facile reperimento. 
-Durata del sondaggio: fino al giorno 22 gennaio verso le ore 18.
-I risultati verranno annunciati nella prossima puntata, la numero 21.

Qui sotto trovate tutte le nove nomination, scrollate a gradimento.
SONDAGGIO CHIUSO (in grassetto i vincitori)

martedì 8 gennaio 2013

Cloud Atlas di Tom Tykwer, Andy Wachowski e Lana Wachowski

Nelle sale dal 10 gennaio.
Il romanzo Cloud Atlas (2004) dello scrittore inglese David Mitchell, oltre ad aver ottenuto una discreta fama e aver venduto -e vendere tuttora grazie al film- migliaia di copie si è guadganto anche un bollino appioppatogli da qualsiasi produttore americano; irrealizzabile. Troppo complicato, troppe cose, un macello già annunciato se portato su schermo. Perciò chiunque si è sempre tenuto a debita distanza.
Poi alla prima di V per Vendetta a Londra, quella secchiona di Natalie Portman ne ha dato una copia a Lana (ex Larry) Wachowski che se ne è innamorata/o perdutamente. Tutti a bordo, facciamo l'impossibile e lo faremo in maniera indipendente, ovvero senza una grande casa di produzione dietro ma lo stesso con un budget di 100 milioni. Adesso non so se c'hanno messo 5 anni a leggerlo ma la produzione iniziò nel 2010 con una prima assenza importante; proprio Natalie, incinta.
Chiunque dava i Wachowski per spacciati. Molto difficile tirare fuori il capolavoro, molto facile fallire miseramente e dolorosamente. La verità come al solito è nel mezzo, non è un capolavoro ma non è neanche il peggior film del 2012, come ha sentenziato la rivista Time (ma il bello è che altri giornali lo hanno messo in top5/10). Perchè è ingestibile? Perchè parliamo di 6 dico 6 storie diverse legate insieme da un concetto, da un semplice pensiero. Si "parte" -perchè non vanno in ordine a episodio distaccato ma sono mischiate tra loro alla rinfusa tramite un montaggio epilettico- dal 1846 con Adam Ewing, un avvocato inglese mandato oltreoceano per la tratta degli schiavi e il caso vuole che proprio uno di questi lo aiuterà nel travagliato ritorno a casa. Poi il 1936 dove un giovane compositore si trova a lavorare per un celebre collega molto furbo e pericoloso. Salto nel 1973 a San Francisco, in piena epoca Peace and Love, con la giornalista Luisa Rey immischiata in un gioco di spie e segreti industriali. Ovviamente il presente e le tragicomiche avventure dell'editore inglese Timothy Cavendish. Salto nella futuristica Neo Seoul del 2144 dove c'è la classica dittatura combattuta a forza di pistolettate dai ribelli. E infine un futuro lontanissimo, 106 anni dopo la Caduta, in cui la civiltà è tornata ad essere molto primitiva. Per un totale di 3 orette.
Per rispondere alle vostre primissime domande, no, non è complicato come sempre, tutt'altro e non è così pesante come potrebbe sembrare dalla durata. Ma andrò con ordine. Sono sei storie completamente separate. Io sono uno di quelli che odia visceralmente il film a episodi, perchè ho sempre l'impressione che sono 2 o 3 storie troppo corte per formare un film intero e quindi le ammucchiano alla bell'e meglio per formarne uno. Qui siamo da quelle parti. Venitemi pure a dire che c'è un evidente e importantissimo filo logico che tiene insieme tutta la baracca, ma è palese che è flebilissimo e che si esaurisce in due o tre frasette. Inoltre tutte le storie trattate hanno abbastanza gambe da tenersi in piedi da sole. Il concetto finale del film è questo: le nostre vite non ci appartengono, siamo irrimediabilmente legati agli altri, ogni nostra azione ha un'enorme anche se insospettabile importanza, che sia per il presente, o per il futuro. Bisogna lottare per far conoscere la verità alla gente, ribaltare l'ordine delle cose, il sistema, lottare per la giustizia e non è vero che ogni nostra mera esistenza è solo una goccia nel mare, perchè dopotutto, il mare non è altro che una moltitudine di gocce? Con le nostre piccole azioni influenziamo l'avvenire dell'intera specie. Un film che farebbe impazzire i buddhisti. Purtroppo non c'è molto altro da aggiungere e mancano altri 160 minuti da riempire.

Il ritmo è piuttosto scorrevole fino a un terzo della visione. L'introduzione a tutte le storie è ben gestita e soprattutto molto intrigante. Neanche te ne accorgi e un ora è volata. Il montaggio epilettico di cui parlavo aiuta a rendere l'indigesto polpettone molto più amichevole, ma inesorabilmente, l'effetto tende a scemare fino alle peggiori conseguenze. Vuoi perchè fisiologicamente è difficile per un essere umano e vuoi perchè una volta capito dove il film vuole andare a parare, diventa abbastanza noiosetto, costringendo, di tanto in tanto, lo spettatore a guardare l'orologio. 
Come detto, Cloud Atlas, non è un film malvagio ma finisce per essere schiacciato dalla sua stessa mastodontica mole, sorretta da due stecchetti. E' di sicuro carino stare li a tenere d'occhio tutti i piccoli particolari che legano casualmente le diverse storie (un disco, un libro o un mezzo libro, delle lettere, un sogno, un film) ma è anche vero che è fumo negli occhi perchè parliamo di 6 film mischiati in uno solo. Alla fine sembra quasi un esercizio di stile; sei storie, sei film, sei generi, dallo sci fi (che rimane il genere dei Wachowski, infatti l'episodio 2144 è quello più gagliardo) allo storico, dal thriller alla commedia british. 
C'è tutto e c'è troppo, e per una volta i produttori americani un pò di ragione ce l'avevano, ma va dato atto ai Wachowski e all'amico Tykwer di averla scampata bene e con un discreto risultato.
Punti di forza maggiore rimangono quindi il lato visivo, ben curato in ogni singolo genere-epoca-episodio con un saggio e non troppo invadente uso di CGI e trucchi prostetici e gli attori, dove c'è una vera e propria gara a chi ci crede di più e chi si trova a più a suo agio nell'intepretare così tanti personaggi diversi in un solo film. Per la cronaca, Tom Hanks ha 5 ruoli, Jim Broadbent 4, compreso lo sconclusionato Cavendish e il terribile Arys, Halle Berry un paio (più altri dove è irriconoscibile), Hugh Grant 3 compresi un anzianotto tutta gomma e una specie di urukai cannibale, ed infine il fedelissimo Hugo Weaving che interpreta il cattivo in ogni storia e in uno è persino una mascolina infermiera (Lana approved).

lunedì 7 gennaio 2013

Il bianco e il nero #30: Le lettere Disney

"It’s kind of fun to do the impossible" Walt Disney.

Novanta anni fa un disegnatore del Kansas, insieme a un gruppo di amici e al fratello, tentò di fare la fortuna creando dei rudimentali cartoni animati e una serie live action basata sulle avventure di Alice nel paese delle meraviglie. Entro poco tempo la futura Disney bros. dichiarò bancarotta.
Se fosse finita così oggi non avremmo uno degli studios più importanti per l'infanzia di tutti i bambini delle ultime cinque o sei generazioni. Invece i due fratelli, Walt e Roy, si spostarono a Hollywood dove ebbero fortuna.
Grazie ad alcune lettere (trovate su questo meraviglioso sito http://www.lettersofnote.com/ ) vorrei ripercorrere ora le fasi più importanti degli albori dei Disney Studios, dalle primissime lettere alla madre di una bambina e al vecchio amico Ub Iwerks, fino ai consigli per gli animatori e infine all'inevitabile dipartita del grande padre, Walt, e il futuro della Disney.

Prima di passare alla lettere bisogna conoscere meglio Walt Disney. Nato nel 1901 a Chicago, si trasferisce con la famiglia a Kansas City all'età di dieci anni. Mentre frequentava la Benton Grammar School, insieme alla sorella Ruth, probabilmente, durante le lezioni più noiose, si divertiva a disegnare qualche personaggio sul quaderno, qualche schizzo. Il suo compagno di banco è un altro Walter, Pfeiffer, che lo introduce al mondo del vaudeville e del cinema. I disegni, gli scarabocchi, il cinema, l'umorismo fisico del vaudeville, Walt inizia a unire i pezzi. Per di più inizia a frequentare i corsi del Kansas City Art Institute ogni sabato.
Intanto però la famiglia ritorna a Chicago dove Walt si iscrive al liceo McKinley. Qui ottiene il suo primo lavoretto, è il vignettista del giornale della scuola. Ottiene una certa fama per i suoi disegni patriottici riguardanti la prima guerra mondiale. All'età di 16 anni molla gli studi per unirsi all'esercito ma viene scartato perchè ovviamente è troppo giovane. Non demorde e insieme a un amico diventa membro della Croce Rossa. Lo mandano in Francia dove guida l'ambulanza ma solo dopo la proclamazione dell'armistizio, nel 1918.

sabato 5 gennaio 2013

The Master di Paul Thomas Anderson

Nelle sale dal 3 gennaio
Premiato alla Mostra del cinema di Venezia
Leone d’argento per la Miglior Regia
Coppa Volpi ex-aequo a Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix per il Miglior Attore.

Osservando Joaquin Phoenix che si muove attraverso le primissime sequenze di The Master mi è venuto subito in mente The Howl, di Allen Ginsberg, e il suo celeberrimo incipit: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade negre all’alba in cerca di droga rabbiosa [...]”. E il Freddy Quell di Phoenix è proprio una di queste menti, un marinaio di ritorno dal Giappone al termine del secondo conflitto mondiale. Del suo passato non traspare ancora niente, sappiamo solo che quello che gli è successo, gli orrori della guerra e l'abuso di alcolici prodotti artigianalmente, lo hanno trasformato in una bestia, un concentrato di tic e nevrosi che lo sconvolgono sia nella mente che nel fisico. Ingobbito, praticamente storpio, con il volto perennemente contratto in una smorfia terribile, vive solo per assecondare le pulsioni e gli istinti più elementari. E un individuo del genere non può che che essere attratto irrimediabilmente verso il suo opposto, Lancaster Dodd, il leader di La Causa, un vero e proprio culto che si propone di allontanare l'essere umano dal baratro attraverso un uso molto poco ortodosso dell'ipnosi.
Ancora una volta un incontro/scontro quindi, perché il cinema di Paul Thomas Anderson, almeno quello delle ultime due pellicole, è anche un cinema di personaggi, figure colossali che si scontrano e deflagrano facendo piazza pulita intorno a loro. Come Daniel Plainview si imbatteva nella sua nemesi Paul/Eli, guarda caso anche lui al centro di un culto, così Freddy è calamitato quasi inconsapevolmente verso il suo maestro. Ma mentre il petroliere era metodico e geniale nella sua follia, Freddy è un personaggio brutale e privo di ogni freno, un cane sciolto pronto a sbranare chiunque si avvicini al suo padrone, padrone che ancora una volta si illude di poter domare e controllare la bestia. Due forze inconciliabili insomma, forse davvero due anime che si sono incrociate in un'esistenza precedente, ma che ogni volta che si incontrano sono destinate a cozzare violentemente e a rimbalzare uno lontano dall'altro, come suggerisce lo stesso Dodd.

mercoledì 2 gennaio 2013

Frankenweenie di Tim Burton


Nelle sale dal 17 gennaio.
Vincent è un ragazzino intelligente e introverso che passa le giornate in compagnia del suo cagnolino Sparky fino a quando, durante una partita di baseball a cui partecipa solo per compiacere il padre, la povera bestiola viene travolta e uccisa da una macchina mentre cerca di riportare al padroncino la palla andata fuori campo. Durante una lezione del professor Rzykruski sul sistema nervoso e l'elettricità a Vincent viene un'idea per riportare in vita il suo animaletto, ma la giornata della scienza è alle porte e l'esperimento del protagonista fa gola ai compagni di classe che, mossi dal solo desiderio di primeggiare, iniziano a giocare pericolosamente con la vita e la morte.
Chi legge questo blog e ascolta il podcast con regolarità sa cosa penso delle opere recenti di Tim Burton: dopo Big Fish, ultima pellicola davvero notevole e summa del suo cinema, il regista di Burbank si è perso nell'autoreferenzialità, naufragando in un mare di mediocrità fatto di film tutti uguali a loro stessi; se i primi tre (La fabbrica di cioccolato – La sposa cadavere – Sweeney Todd) restano nonostante tutto pellicole godibili, gli ultimi due (Alice in Wonderland e Dark Shadows) sembravano i chiodi di una bara che Burton stesso si era costruito, lasciando da parte ciò che rendeva grande il suo cinema e focalizzandosi su un'estetica ormai stucchevole e sull'abusata e facilona figura del freak personificata nell'ossessivo sodalizio con Johnny Depp.
Vi confesso che, in questo panorama, l'idea di tornare su un corto girato in passato, ampliarlo e renderlo una pellicola da un'ora e mezza sembrava abbastanza peregrina, l'ennesimo tentativo di sfruttare commercialmente la gallina dalle uova d'oro.
E invece no, Frankenweenie non solo funziona, è un ottimo film, degno della compagnia delle migliori opere di Burton.
Ciò che subito appare evidente è un ritorno a un'estetica più semplice, quasi minimale, che si manifesta in un anticonvenzionale bianco e nero scevro di tutti i fronzoli che appesantivano lo stile visivo dell'autore in tempi recenti: New Holland è il villaggio di edward Mani di forbice (altra felice rilettura del mito di Frankenstein) fatto di case prefabbricate tutte identiche, prati perfetti e cittadini ossessionati dall'apparenza; Burton gioca sapientemente con luci ed ombre e con architetture gotiche facendo il verso ai Monster movie della Universal degli anni 30 e, di riflesso, al cinema espressionista tedesco.
Quel che però colpisce di più è, senza ombra alcuna di dubbio, la qualità della narrazione: non c'è una singola sbavatura, nessun personaggio o elemento di troppo, nonostante si tratti di un lavoro di aggiunta su uno script elementare, nessun virtuosismo di macchina da presa esagerato e fine a se stesso; una regia solida, concreta, che bada al sodo lavorando, paradossalmente, per sottrazione senza concedersi mai un calo di ritmo. Se proprio dovessi cercare il pelo nell'uovo direi che il climax nel finale si risolve in maniera leggermente melensa e prevedibile, ma tenendo conto che si tratta di un film d'animazione che deve sempre avere un occhio di riguardo per lo spettatore adolescente/pre-adolescente si tratta tutto sommato di un “difetto” trascurabile. Si parlava dei personaggi: deliziosa la galleria di freak della classe di Victor e i relativi animaletti, vivi o meno, che sottolineano ed esasperano i tratti psicologici dei loro padroncini, o che giocano con le etnie di questi (si veda, ad esempio, la tartaruga-godzilla del bimbo asiatico); tutti i personaggi godono di una buona caratterizzazione tranne i genitori di Victor, piuttosto abbozzati, anomalia nel cinema di padri e figli di Burton dove le figure paterne hanno sempre avuto un'importanza centrale.
Frankenweenie è un quasi-suicidio commercialmente parlando (un cartone animato a passo uno in bianco e nero che parla di animali morti riportati in vita, targato Disney) ma è anche e sopratutto un gioiellino di concretezza e semplicità, pieno di citazioni al cinema horror targato Universal già citato; una storia incredibilmente delicata e genuina che tocca le giuste corde emotive al momento giusto: più o meno tutti sappiamo cosa vuol dire avere avuto un amico a 4 zampe ed aver sofferto per la sua dipartita, o almeno possiamo immaginare cosa significherebbe perderlo. Sembrerà un concetto banale quanto vacuo, ma quel che più conta è che il regista di Burbank sia finalmente tornato a fare cinema con il cuore, quello che mancava nelle sue opere più recenti, fatte più di testa che di pancia.
E forse lui è il primo ad esserne cosciente, lo scambio di battute fra Victor e il professore Rzykruski  (doppiato da Martin Landau) sull'amore per i propri esperimenti e sulla riuscita di questi in rapporto alla passione con cui si affrontano appare perfettamente calzante.
Burton non era morto, se n'era solo andato per un paio di film, gioite fratelli.