Nelle sale dal 17 gennaio.
Vincent è un ragazzino intelligente e
introverso che passa le giornate in compagnia del suo cagnolino
Sparky fino a quando, durante una partita di baseball a cui partecipa
solo per compiacere il padre, la povera bestiola viene travolta e
uccisa da una macchina mentre cerca di riportare al padroncino la
palla andata fuori campo. Durante una lezione del professor Rzykruski
sul sistema nervoso e l'elettricità a Vincent viene un'idea per
riportare in vita il suo animaletto, ma la giornata della scienza è
alle porte e l'esperimento del protagonista fa gola ai compagni di
classe che, mossi dal solo desiderio di primeggiare, iniziano a
giocare pericolosamente con la vita e la morte.
Chi legge questo blog e ascolta il
podcast con regolarità sa cosa penso delle opere recenti di Tim
Burton: dopo Big Fish, ultima pellicola davvero notevole e summa del
suo cinema, il regista di Burbank si è perso
nell'autoreferenzialità, naufragando in un mare di mediocrità fatto
di film tutti uguali a loro stessi; se i primi tre (La fabbrica di
cioccolato – La sposa cadavere – Sweeney Todd) restano nonostante
tutto pellicole godibili, gli ultimi due (Alice in Wonderland e Dark
Shadows) sembravano i chiodi di una bara che Burton stesso si era
costruito, lasciando da parte ciò che rendeva grande il suo cinema e
focalizzandosi su un'estetica ormai stucchevole e sull'abusata e
facilona figura del freak personificata nell'ossessivo sodalizio con
Johnny Depp.
Vi confesso che, in questo panorama,
l'idea di tornare su un corto girato in passato, ampliarlo e renderlo
una pellicola da un'ora e mezza sembrava abbastanza peregrina,
l'ennesimo tentativo di sfruttare commercialmente la gallina dalle
uova d'oro.
E invece no, Frankenweenie non solo
funziona, è un ottimo film, degno della compagnia delle migliori
opere di Burton.
Ciò che subito appare evidente è un
ritorno a un'estetica più semplice, quasi minimale, che si manifesta
in un anticonvenzionale bianco e nero scevro di tutti i fronzoli che
appesantivano lo stile visivo dell'autore in tempi recenti: New
Holland è il villaggio di edward Mani di forbice (altra felice
rilettura del mito di Frankenstein) fatto di case prefabbricate tutte
identiche, prati perfetti e cittadini ossessionati dall'apparenza;
Burton gioca sapientemente con luci ed ombre e con architetture
gotiche facendo il verso ai Monster movie della Universal degli anni
30 e, di riflesso, al cinema espressionista tedesco.
Quel che però colpisce di più è,
senza ombra alcuna di dubbio, la qualità della narrazione: non c'è
una singola sbavatura, nessun personaggio o elemento di troppo, nonostante si tratti di un lavoro di aggiunta su uno script
elementare, nessun virtuosismo di macchina da presa esagerato e fine
a se stesso; una regia solida, concreta, che bada al sodo lavorando,
paradossalmente, per sottrazione senza concedersi mai un calo di
ritmo. Se proprio dovessi cercare il pelo nell'uovo direi che il
climax nel finale si risolve in maniera leggermente melensa e
prevedibile, ma tenendo conto che si tratta di un film d'animazione
che deve sempre avere un occhio di riguardo per lo spettatore
adolescente/pre-adolescente si tratta tutto sommato di un “difetto”
trascurabile. Si parlava dei personaggi: deliziosa la galleria di
freak della classe di Victor e i relativi animaletti, vivi o meno,
che sottolineano ed esasperano i tratti psicologici dei loro
padroncini, o che giocano con le etnie di questi (si veda, ad
esempio, la tartaruga-godzilla del bimbo asiatico); tutti i
personaggi godono di una buona caratterizzazione tranne i genitori di
Victor, piuttosto abbozzati, anomalia nel cinema di padri e figli di
Burton dove le figure paterne hanno sempre avuto un'importanza
centrale.
Frankenweenie è un quasi-suicidio
commercialmente parlando (un cartone animato a passo uno in bianco e
nero che parla di animali morti riportati in vita, targato Disney) ma
è anche e sopratutto un gioiellino di concretezza e semplicità,
pieno di citazioni al cinema horror targato Universal già citato;
una storia incredibilmente delicata e genuina che tocca le giuste
corde emotive al momento giusto: più o meno tutti sappiamo cosa vuol
dire avere avuto un amico a 4 zampe ed aver sofferto per la sua
dipartita, o almeno possiamo immaginare cosa significherebbe perderlo. Sembrerà
un concetto banale quanto vacuo, ma quel che più conta è che il
regista di Burbank sia finalmente tornato a fare cinema con il cuore,
quello che mancava nelle sue opere più recenti, fatte più di testa
che di pancia.
E forse lui è il primo ad esserne
cosciente, lo scambio di battute fra Victor e il professore Rzykruski (doppiato da Martin Landau) sull'amore per i propri esperimenti e sulla riuscita di questi in
rapporto alla passione con cui si affrontano appare perfettamente
calzante.
Burton non era morto, se n'era solo
andato per un paio di film, gioite fratelli.
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaVisto.
RispondiEliminaE devo dire che c'è poco da aggiungere a quello che avete detto nel podcast ad esso dedicato. Il film non è altro che una spalmatura del corto di cui non si sentiva la necessità. Nel senso che il film in sè si lascia guardare, ma in 1/3 del tempo si riusciva a far capire lo stesso quello che Burton voleva trasmettere, ed aveva già trasmesso, con il corto ad esso dedicato.
Molto bella la citazione del professor Rzykruski sul fatto che "le persone amano ciò che la scienza gli offre, ma hanno paura delle domande che essa pone". Unico dialogo degno di nota del film.
Concluderei dicendo che non mi ha entusiasmato moltissimo ma, la durata comunque breve, potrebbe meritare uno sguardo.