Fedelissima
trasposizione dell'omonimo romanzo di Don DeLillo, Cosmopolis
racconta la giornata non proprio qualsiasi del giovane milionario
Eric Packer, che una mattina per farsi rifare il taglio dal suo
barbiere di fiducia decide di attraversare la città con la sua
limousine. Lo stesso giorno però è in programma una visita del
presidente degli Stati Uniti, e il traffico è quasi completamente
paralizzato, così il breve viaggio di Packer si trasforma in una
vera e propria odissea nella follia, la limousine è una nave alla
deriva, e i personaggi che il moderno Ulisse incontra sono una serie
di figure bizzarre e impenetrabili, delle vere e proprie isole
separate dalla realtà, mentre i loro monologhi articolatissimi e
interminabili suonano proprio come degli oracoli da interpretare.
Packer
è il prototipo del giovane miliardario, un po' come il Mark
Zuckerberg di The Social Network, un ventottenne incredibilente
precoce che controlla il suo vastissimo impero da una console
inserita nel bracciolo della sua limousine iper-tecnologica, un
maniaco del controllo che fagocita colossali quantità di dati e si
sottopone ogni giorno a visite mediche approfonditissime.
Fa di
tutto per acquistare una chiesa ancora consacrata solo per il gusto
di possederla, colleziona aerei da guerra che però non ha la
possibilità di pilotare, e riveste la sua macchina di sughero per
renderla perfettamente insonorizzata anche se adora i suoni della
città, insomma “Greed is good” come ci ricordava il Gordon Gekko
di Wall Street Il denaro non dorme mai.
Ma ad
un certo punto la realtà sfugge al controllo di Packer, lo yuan
assume improvvisamente un andamento imprevedibile, le sue equazioni
perfette non funzionano più, il mercato non obbedisce più alle
stesse regole, persino la routine della visita medica non va come
previsto perché il medico gli rivela che la sua prostata è
asimmetrica.
La
realtà è imperfetta, asimmetrica, non è possibile ingabbiarla in
grafici e tabelle, e prima o poi arriva una crisi economica o
un'anomalia molto più insignificante a ricordarcelo. Questi uomini
d'affari che controllano il mercato sono dei folli, quasi degli
alieni, isolati nelle loro torri d'avorio o nelle loro costosissime
limousine che dall'interno sembrano sempre più delle navi spaziali,
che galleggiano lentamente nelle strade della città mentre fuori dai
finestrini scorre una realtà terribilmente distante, un film,
un'immagine digitale aggiunta artificialmente o scene di vita
quotidiana proiettate su un telo, come il vistoso trasparente usato
da Cronenberg.
Cosmopolis
è un'opera difficile, non tanto per lo spettatore, quanto più per
un regista. A più di vent'anni da Il Pasto Nudo Cronenberg decide di
adattare per lo schermo un romanzo apparentemente intrasponibile,
prende un personaggio in cui è impossibile immedesimarsi, assegna il
ruolo ad un attore su cui non avrebbe scommesso quasi nessuno, e lo
sbatte in uno spazio claustrofobico ad ascoltare una sfilza di
dialoghi prelevati di peso dal romanzo, lunghi monologhi che hanno
tutte le caratteristiche del flusso di coscienza, pieni di tecnicismi
e divagazioni repentine. Eppure il film funziona perfettamente,
richiede la giusta predisposizione è vero, però è tutt'altro che
inaccessibile, e Cronenberg fa un lavoro grandioso con una regia
elegantissima che riesce a dare potenza e dinamismo persino ad un
esame della prostata o a un dialogo di dieci minuti sulla finanza.
Mentre i personaggi sproloquiano di arte contemporanea, indici di
borsa e informatica, il grandangolo spalma gli interni della
limousine sullo schermo, facendola sembrare un alcova (elettrica)
fuori dallo spazio e dal tempo. E poi ci sono le scenografie, pochi
sanno dare vita agli ambienti come Cronenberg, riesce a creare una
catapecchia, a riempirla di cianfrusaglie e a far sembrare che
qualcuno ci abbia vissuto fino a pochi minuti prima, e a quanto pare
non se la cava male nemmeno con il lusso gelido e disumano.
Qualcuno
giustamente si è chiesto: perché adattare un romanzo del genere ?
Semplice esercizio di stile ? Gusto della sfida ? Forse, ma non si
può negare che Cosmopolis racchiuda in se molti degli elementi della
poetica cronenbergiana, presente e passata. C'è una visione
esasperata della sessualità, l'alienazione e la follia della società
contemporanea, e poi torna un tema chiave del cinema di Cronenberg,
la macchina, che qui più che fondersi con l'uomo sembra isolarlo dal
resto del mondo, una sorta di utero metallico; ma ci sono anche i
computer, prolungamento delle mani del protagonista e sempre al
centro della sua attenzione, fusi in un'unica rete globale che è
sempre più vicina a risucchiare l'uomo.
Già
il fatto di essersi lanciato in un'impresa del genere e di esserne
uscito dignitosamente sarebbe stato un merito, ma Cosmopolis è
tutt'altro che una fredda trasposizione, è l'opera molto personale
di un regista che si è ritrovato nel lavoro di un altro artista. E
immagino sia per questo che Cronenberg è riuscito ad andare oltre le
ovvie difficoltà di una produzione del genere.
Si
insomma mi sono un po' perso per strada, ma immagino sia chiaro che
il film mi è piaciuto moltissimo, così tanto che ho digerito
persino Robert Pattinson.
Intrinseco