Visualizzazione post con etichetta Mostra del cinema di Venezia. Mostra tutti i post
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domenica 10 marzo 2013

Spring Breakers di Harmony Korine

Who are you? Are you in touch with all your darkest fantasies? Have you created a life for yourself where you're free to experience them? I have. I'm fuckin crazy. But I am free.
Lana Del Rey, Ride.
Musica per la lettura.
Korine è tornato! A distanza di 5 anni dal suo ultimo passaggio sul grande schermo, e dopo essersi cimentato negli ultimi anni in diversi progetti e progettini tra cui vari corti, Trash Humpers -mai uscito in sala, infatti doveva essere solo lasciato in giro in posti a caso e su vhs- e una sorta di candid camera dove doveva far incazzare la gente e farsi menare di brutto, uno dei registi più pazzi e geniali d'America torna in grande stile, con un cast extralusso e un budget notevole.
Faith, Candy, Cotty e Brit stanno organizzando la loro prima vacanza di primavera in Florida. E' da inizio anno che risparmiano ma giunte a pochi giorni dalla partenza, scoprono di non avere abbastanza soldi. Candy, Cotty e Brit decidono allora di rapinare una tavola calda, al grido di "facciamo che sia come un fottuto videogioco". Ottenuta una cifra sufficente per sballarsi almeno una settimana partono alla volta di Miami. Dopo un inizio spensierato e felice, le cose vanno di male in peggio, tra galera e ferite da sparatoria. Come torneranno da questa esperienza le tre cattive ragazze, più la religiosa e pacata Faith?
Lo spring break non è solo una scusa per bere di tutto, divertirsi, ballare, stare sveglie fino al mattino, ma è l'unica via di fuga da una vita comune e banale, nella piccola provincia americana, dove l'unico sogno americano è quello di tenere un giardino ben curato davanti casa. Va vissuto come non ci fosse un domani, una giostra da cui non si scende se non cavalcando fino alla morte. E' un gioco, non è reale, non deve avere un senso -e il finale è perfetto- è il sogno americano alternativo.

sabato 5 gennaio 2013

The Master di Paul Thomas Anderson

Nelle sale dal 3 gennaio
Premiato alla Mostra del cinema di Venezia
Leone d’argento per la Miglior Regia
Coppa Volpi ex-aequo a Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix per il Miglior Attore.

Osservando Joaquin Phoenix che si muove attraverso le primissime sequenze di The Master mi è venuto subito in mente The Howl, di Allen Ginsberg, e il suo celeberrimo incipit: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade negre all’alba in cerca di droga rabbiosa [...]”. E il Freddy Quell di Phoenix è proprio una di queste menti, un marinaio di ritorno dal Giappone al termine del secondo conflitto mondiale. Del suo passato non traspare ancora niente, sappiamo solo che quello che gli è successo, gli orrori della guerra e l'abuso di alcolici prodotti artigianalmente, lo hanno trasformato in una bestia, un concentrato di tic e nevrosi che lo sconvolgono sia nella mente che nel fisico. Ingobbito, praticamente storpio, con il volto perennemente contratto in una smorfia terribile, vive solo per assecondare le pulsioni e gli istinti più elementari. E un individuo del genere non può che che essere attratto irrimediabilmente verso il suo opposto, Lancaster Dodd, il leader di La Causa, un vero e proprio culto che si propone di allontanare l'essere umano dal baratro attraverso un uso molto poco ortodosso dell'ipnosi.
Ancora una volta un incontro/scontro quindi, perché il cinema di Paul Thomas Anderson, almeno quello delle ultime due pellicole, è anche un cinema di personaggi, figure colossali che si scontrano e deflagrano facendo piazza pulita intorno a loro. Come Daniel Plainview si imbatteva nella sua nemesi Paul/Eli, guarda caso anche lui al centro di un culto, così Freddy è calamitato quasi inconsapevolmente verso il suo maestro. Ma mentre il petroliere era metodico e geniale nella sua follia, Freddy è un personaggio brutale e privo di ogni freno, un cane sciolto pronto a sbranare chiunque si avvicini al suo padrone, padrone che ancora una volta si illude di poter domare e controllare la bestia. Due forze inconciliabili insomma, forse davvero due anime che si sono incrociate in un'esistenza precedente, ma che ogni volta che si incontrano sono destinate a cozzare violentemente e a rimbalzare uno lontano dall'altro, come suggerisce lo stesso Dodd.

martedì 13 novembre 2012

Ballata dell'odio e dell'amore di Alex de la Iglesia

Nelle sale dall'8 novembre

Si, avete letto bene, 8 novembre 2012, Balada triste de trompeta va ad aggiungersi all'ormai sostanziosa lista di film sbarcati in qualche festival più o meno prestigioso, in questo caso la Mostra del cinema di Venezia dove si porta a casa Leone d'Argento e Osella d'oro per la miglior sceneggiatura, e poi spariti nel nulla, tanto che avevamo pensato di parlarne nella puntata di Filmbuster(d)s dedicata ai film dispersi. E invece no, perché secondo una recente abitudine tutta italiana ce lo ritroviamo in sala con due anni di ritardo (all'anagrafe il film è del 2010), che non sarebbe neanche tanto male se non fosse arrivato soltanto in una decina di cinema in tutta Italia, misteri delle insondabili logiche distributive... ma passiamo al film:
Spagna, 1937, il paese è lacerato dalla guerra civile. Nemmeno il mondo del circo viene risparmiato, e un pagliaccio si ritrova suo malgrado reclutato tra le truppe repubblicane per poi essere arrestato da quelle franchiste. Il figlio Javier organizza un attentato per liberarlo ma l'uomo rimane ucciso nell'esplosione. Da adulto Javier (Carlos Areces) decide di seguire le orme paterne e si fa assumere in un circo, ma con un passato del genere non può che interpretare il Pagliaccio Triste. Qui incontra il suo opposto, Sergio (Antonio de la Torre), il Pagliaccio Tonto, entrambi amano l'equilibrista Natalia (Caterina Bang) e arriveranno a distruggersi l'un l'altro pur di averla.
Dopo l'ingiustamente snobbato Oxford Murders, de la Iglesia dirige per la prima volta una pellicola interamente scritta da lui senza l'aiuto del fidatissimo Jorge Guerricaechevarrìa, e ne approfitta per ritornare al grottesco e al black humor dei suoi primi lavori. Eppure è difficile catalogare e descrivere un film come Balada triste de trompeta, c'è l'azione, la sessualità animalesca, l'orrore, la comicità, i freaks (viene in mente l'omonimo film di Tod Browning, ma anche il suo Lo Sconosciuto) e c'è persino un po' di storia. Anzi, nonostante la maschera deformata e deformante da pellicola di genere lo si può considerare un film storico, una metafora barocca della Spagna franchista. Barocca perché comunque questa maschera deformante c'è e si fa notare, e la metafora non è di certo qualcosa da ricercare, in Balada triste de trompeta infatti tutto è grezzo, stilizzato ed esasperato, i volti dei protagonisti sfigurati a colpi di tromba, ferri da stiro e soda caustica sono chiaramente il volto della Spagna martoriata dalla guerriglia e dalla dittatura, una risata o un'espressione triste perennemente incise nella carne. Oppure gli stessi Javier e Sergio che all'inizio sono solo due folli innamorati ma che quasi subito dimenticano amore e vendetta per trasformarsi in due bestie, due mostri pronti a fare a pezzi se stessi e l'oggetto del loro desiderio, che sia la Spagna o la bella Natalia.
Il sonno della ragione genera mostri insomma, e 35 anni di dittatura sono un sonno bello lungo, un incubo assurdo in cui la violenza diventa parte della quotidianità, qualcosa a cui incredibilmente prima o poi ci si abitua, e allora forse l'unico mezzo per svegliarsi dal torpore o per esorcizzare il tutto è una farsa altrettanto assurda, una ballata macabra di clown che corrono per strada vestiti da preti armati di mitragliatrici, è rozza, iperbolica e ridicola ma forse era l'unico modo per rappresentarla.
In conclusione, Balada triste de trompeta (fatico ad usare il titolo italiano) è un film difficile costruito su contrasti forti, quello più evidente che riguarda i due protagonisti, oppure quello che oppone la forte ironia tragicomica di certe situazioni alla violenta drammaticità di altre; persino la fotografia tende spesso ad accostare colori caldi e colori freddi con un effetto che sottolinea l'aspetto onirico e surreale della storia. Così l'occhio e lo stomaco dello spettatore vengono continuamente sollecitati da uno spettacolo caotico e brutale, che però è anche una favola terribile quanto bella.

Intanto Alex de La Iglesia non è stato con le mani in mano, proprio quest'anno è uscito il suo La chispa de la vida, di cui però non ho sentito parlare in toni particolarmente entusiastici, mentre per quanto riguarda il futuro sta lavorando ad un lungometraggio e ad un film a episodi insieme a gente come Emir Kusturica, Amos Gitai, Hideo Nakata e Guillermo Arriaga.

lunedì 17 settembre 2012

Filmbuster(d)s - Episodio#12

ATTENZIONE! La registrazione dell'episodio che state per ascoltare è stata funestata da un fastidioso ticchettio di fondo, stile metronomo, che ha scandito le nostre voci per tutta la durata del podcast. E' fastidioso da ascoltare, parecchio, abbiamo cercato in tutti i modi di eliminarlo ma siamo solo riusciti a ridurlo. Per farci perdonare pubblicheremo in settimana anche l'episodio 13. Scusateci per l'inconveniente.

Nel 12° episodio di Filmbuster(d)s:

[00:05:55]Venezia 69
[00:25:40]La Bella Addormentata
[00:37:20]Eva
[00:42:00]Babycall
[00:46:50]La Faida
[00:53:00]The Bourne Legacy
[01:13:45]Ribelle - The Brave


Potete ascoltare l'episodio al link diretto al file MP3 (per scaricarlo basta cliccare col destro e poi "Salva link con nome"): Clicca qui

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Oppure ascoltate il podcast mediante il player Podtrac:

sabato 15 settembre 2012

Pietà di Kim Ki-duk

Nelle sale dal 14 settembre.
Kim Ki-duk è tornato e non solo formalmente -quello lo aveva già fatto un anno fa con Amen, un prodotto troppo personale che non lo convince e lo ritirò dalla visione al pubblico dopo poco tempo- ma letteralmente. Ne è valsa la pena aspettare quattro anni, tanto è passato dal suo ultimo film, Dreams, per poter godere a pieno del meraviglioso Pietà.
Ancora più gioia si prova nel vederlo trionfare alla 69esima mostra del cinema di Venezia dove ha sbaragliato la concorrenza composta da nomi come P.T. Anderson e Terrence Malick e festeggiare intonando un piccolo assaggio di Arirang.
Kim è rinato, dopo una pausa autoimposta in seguito a un incidente accaduto sul set (proprio di Dreams) che ha causato una crisi sia produttiva sia esistenziale. Non si riconosceva più, non capiva in che direzione il suo cinema e la sua vita stessero andando. Ha avuto il bisogno di isolarsi, di una lunga autoriflessione per comprendersi e anche perdonarsi (qualora ci fossero delle reali colpe), per perdere quella pressione che sentiva sulle spalle, diventato in pochi anni il più fulgido esponente del cinema asiatico post 2000, con una folla sempre più grande e sempre più in attesa del suo prossimo lavoro. Lo ha fatto nell'unico modo che conosce, con la macchina da presa, in Arirang.

"I bastardi siete voi, che vi indebitate senza ragionare e poi non saldate i debiti".
Torna con un film rischioso, come hanno sottolineato molti. Un'opera contemporanea, legata al presente e alla situazione economica che la nostra epoca sta attraversando. Un film fortemente sentito, viscerale e capace di colpire in più punti, al cuore, allo stomaco, al cervello. 

Lee Kang-do lavora per uno strozzino che ogni giorno lo sveglia con la foto di un nuovo malcapitato in ritardo coi pagamenti da andare a trovare. Per ogni cifra richiesta, gli interessi sono del mille per cento, in pratica, impossibile saldare il debito. Ma Gan-do non si fa problemi e soprattutto non ci rimette di certo di tasca sua. Se uno dei poveri artigiani locali non può pagare, viene reso invalido di modo che i soldi dell’assicurazione potranno ripagare il debito. Un giorno però si presenta a casa sua una donna, sostenendo di essere la madre che lo abbandonò appena nato. Kang-do non si fida e sottopone la donna a prove disgustose. Una volta ottenuta la fiducia, inizia per i due una nuova vita. Finalmente riuniti, passano le giornate come fossero tornati indietro nel tempo, all'infanzia del ragazzo e tornano a essere una vera famiglia. Kang-do conosce il perdono e la pietà appunto, davanti alle sue vittime. Questo idillio si rompe quando uno dei debitori storpiati rapisce la madre e minaccia di ucciderla. Il carnefice che si riscopre vittima.

Nel piccolo quartiere di Cheonggyecheon si vive in povertà, nella sporcizia, chiusi nelle officine che fungono anche da casa, con la città, Seoul, e i suoi grattacieli che stanno per sommergerlo, distruggerlo, mangiarselo vivo. Non c'è più spazio per i piccoli professionisti con la propria torneria o la modesta officina. Il capitalismo sta per inghiottirli e il suo unico mezzo e arma infallibile è il denaro, il vero protagonista del film. Li colpisce con i debiti, li elimina. E' una situazione senza via d'uscita. Persino un povero coniglio, simbolo di innocenza, una volta liberato, non riesce a salvarsi, a sfuggire al suo destino prestabilito.
Non c'è quindi salvezza per Kim, nel suo film più nero, più atroce. Non c'è salvezza per questa gente, perchè non esiste un altra realtà nel film, non la vediamo. I grattaceli e il benessere sono lontani, sono solo uno sfondo, irraggiungibile e intoccabile. 

A Cannes vinse l'amour, a Venezia vince la pietà.
La pietà del titolo -ispirata da quella di Michelangelo, scultura vista dal regista in diverse occasioni durante le sue visite in Vaticano- si dirama verso tre direzioni. Pietà per un uomo, uno strozzino, violento, senza morale, senza coscienza, ma vissuto senza una famiglia, senza una madre amorevole. Pietà verso una madre che ritorna dal figlio, pentita, addolorata. Pietà per la condizione umana, per i commercianti, che la invocano a gran voce, invano. Pietà insieme alla vendetta, l'altra faccia della medaglia, l'altra reazione. Perchè non tutto può essere perdonato, non tutto merita pietà.

 Non solo Kim Ki-duk è tornato ma è ritornato alle origini. Pietà è molto simile ai suoi primi lavori (The isle o Adress unknown, Bad guy) dove nel connubio violenza e poesia, la prima prende un leggero sopravvento. Come se fosse animato da un nuovo vigore, un nuovo furore, il regista è ringiovanito risponde così alle critiche di una immobilità creativa e stilistica, e di una certa ripetitività nelgi ultimi lavori. E' quini un film di rottura, anche di più di Arirang.
Pietà è un film meraviglioso per la gamma di sensazioni che riesce a far trapelare dalla pellicola. Lo shock della violenza nuda e cruda, la compassione per un povero neo-papà, capace di farsi amputare entrambe le mani pur di dare al figlio un futuro decente, il disgusto per la scena più forte del film, quello stupro-incesto tra madre e figlio, e l'amore e la gioia di rivedere una famiglia riunita, gli abbracci che si scambiano nel ritrovarsi insieme, di nuovo. Poesia e violenza, sempre presenti, come nei migliori Kim Ki-duk.

Fenomenale il duo presente su schermo. Lee Jung-jin è una maschera di violenza e fragilità. E' iraggionevole, furioso, impassibile davanti alle suppliche e al dolore dei poveri abitanti del suo quartiere ma una volta ritrovata la madre straripa tutta la sua insicurezza e fragilità. Jang Mi-sun anche lei fantastica, per mille ragioni che non possono essere rivelate qui, senza andare in spoiler. 

Mi rendo conto di aver fatto davvero fatica a scrivere di questo film meraviglioso -anche Ghezzi, forse a causa degli antidolorifici per la gamba rotta, riusciva solo a ripete un "è bellissimo, è bellissimo"- ma è anche questo Kim Ki-duk. Sensazioni, emozioni, difficile mettere su carta quello che riesce a trasmetterti con così tanta facilità, senza ricercare espedienti particolari o complicati. Va visto, va vissuto, con quel finale che ti lascia tanto dentro e allo stesso tanto vuoto. 
Se la cura Arirang funziona così bene, ci si dovrebbero sottoporre moltissimi registi. Bentornato Kim.

giovedì 13 settembre 2012

Dalla "nostra" inviata speciale a Venezia

E anche per quest'anno, Venezia è finita. Ha vinto Kim Ki-duk, ci sono state polemiche, l'Italia è uscita con le ossa rotte. Il solito. Noi, se n'era parlato in una puntata speciale qualche settimana fa, una sorta di antipasto e presentazione. Avremmo voluto tanto esserci, vedere, fischiare, gioire, ma siccome siamo pigri e al verde, siamo rimasti a casa. Nessun problema però, perchè la "nostra" inviata speciale, Beatrice Fiorentino live from the Lido, ci confida adesso, le sue impressioni finali, a leoni in gabbia.

Non riesce mica semplice dare un giudizio sull’edizione appena conclusa della Mostra del Cinema di Venezia, che è stata, soprattutto, l’edizione “Barbera bis”. Al banco di prova una gestione che ha dato l’impressione generale di essere ancora un oggetto “in divenire”, poche le certezze e sbiaditi i punti di riferimento. Tralasciamo la logistica che comprendeva connessione internet a singhiozzo e porte dei bagni con le serrature rotte dal primo all’ultimo giorno (ma un fabbro che fa riparazioni urgenti, al Lido, non c’è?). Lasciamo da parte anche il Market che, lungi dall’essere il tanto auspicato fiore all’occhiello, a quanto si dice, lascia un po’ il tempo che trova. E parliamo di cinema. Mi tocca fare una doverosa premessa perché all’ora di stendere un bilancio complessivo, mi trovo nell’imbarazzo che deriva dall’aver dovuto necessariamente sacrificare più di una visione, perché si sa, quando si va a un festival per scrivere bisogna mettersi il cuore in pace, ma poi come si fa a sputar sentenze? Ok, ci provo, ma dovrò per forza restare sul visto (e cioè su un’impressione, ahimè, parziale della manifestazione). Allora, quando tutti ormai lamentavano un’edizione scadente, moscia, piatta, innegabilmente rabbuiata dal drastico calo di presenze che ha reso sì l’atmosfera un po’ dimessa, ma ha altresì consentito di non rimanere esclusi da nessuna proiezione, ecco finalmente arrivare quei “gran bei film” a tirarci sul il morale! E non si può certo dire che i titoli siano mancati… anche se potrebbe venire da dire: oh, bè, ma ci mancherebbe altro!
Ecco. Io sono felice, ho visto “The Master” (in 70 mm.) e per me tanto basta. Magnifico. Enorme. Inarrivabile (come Joaquin Phoenix, trasfigurato e claudicante come un Riccardo III). Ho visto Kim Ki-Duk tornare in forma dopo il buio che lo ha tenuto in ostaggio per anni, ho visto Bellocchio in super forma con un film che s’incastra alla perfezione nel suo personalissimo percorso di indagine. Ho visto il tripudio ultra-pop di Harmony Korine che con il suo “Spring Breakers” (wow!!) ha sedotto un po’ tutti. Diamine, finalmente una scossa! Forma che diventa contenuto, ironia, vento di novità. Basta questo per accaparrarsi un leone d’oro? In effetti, forse no…
Ancora gioia? Eh sì, lo ammetto, a me è piaciuto. So anche che siamo forse dieci in tutta Italia…ma nessuno mi tocchi Terrence Malick e la sua Meraviglia! Ssssh, silenzio, non si aggiunga altro e chi preferisce non vederlo, ne ha piena facoltà!
 Ho visto anche altri film piacevoli: “Après Mai” di Olivier Assayas, “Outrage Beyond” di Takeshi Kitano (che solo a vederlo ti mette allegria, benedetto sia per sempre Beat Takeshi, con quella faccia un po’ così), “Passion” del maestro della discontinuità Brian De Palma (ma a copiare Hitchcock qualcosa salta sempre fuori…); e altri film tanto tanto tanto piacevoli: “Wadjda”, “Disconnect”, non innovativi ma tra i più belli (e meno male che qualche sorpresa c’è!); delusioni kolossali: “Linhas de Wellington” di Valeria Sarmiento su un progetto lasciato incompiuto dal marito Raoul Ruiz; sostanzialmente inutili: “At Any Price”, “Cherchez Hortense”; e ciofeche inguardabili: “Una giornata speciale” di Francesca Comencini, il punto più basso (in concorso!?)… Stop. Abbiamo capito. Come ad ogni Festival c’è stato un po’ di tutto. E allora, dove sta il problema? Il problema c’è e non è banale: manca un’idea di cinema, manca una proposta intellegibile. Film da concorso stavano “fuori concorso”, film in concorso che, a esser generosi avrebbero potuto stare nell’abolito ghetto “Controcampo italiano”, film da Orizzonti “fuori concorso” e viceversa…. Insomma: che confusione! E arriviamo quindi ad un punto cruciale, alla punta di diamante della stagione Müller chiamata “Orizzonti”, corsia parallela dal nome evocativo che aveva ospitato i film di Shinya Tsukamoto, James Franco, Amiel Courtin-Wilson, Amira Naderi, Tusi Tamasese, e Ben Rivers… cos’è diventato oggi “Orizzonti”? Cito testualmente dal sito della Biennale: "Le nuove correnti del cinema mondiale”. Dev’esserci qualcosa che mi sfugge.

E scoop clamoroso, coprirà per noi anche il prossimo Festival di Roma. Evviva!

Beatrice lavora per il sito http://www.cineclandestino.it/it/, buttateci un occhio.

domenica 9 settembre 2012

Bella Addormentata di Marco Bellocchio

Nelle sale dal 6 settembre
In concorso alla 69esima Mostra del cinema di Venezia

Alle 19:35 del 9 febbraio 2009 Eluana Englaro è morta per arresto cardiaco in seguito alla sospensione dell'idratazione e dell'alimentazione artificiale che l'avevano tenuta in vita in stato vegetativo per 17 anni. Marco Bellocchio decide di raccontarci le 24 ore che precedono quell'evento attraverso gli sguardi e le storie di un gruppo di personaggi più o meno emotivamente coinvolti, in un dramma che si mantiene in bilico tra il corale e l'episodico.
L'episodio principale, che fa un po' da scheletro a tutto il film, è quello interpretato da Toni Servillo e Alba Rohrwacher, lui è un senatore del Popolo Della Libertà che si prepara a votare il disegno di legge sull'idratazione e l'alimentazione, lei è sua figlia, che con un gruppo di amiche parte per Udine per partecipare alla manifestazione contro la sospensione dell'alimentazione artificiale. Principale anche perché mette a confronto due personaggi che assumono posizioni antitetiche sulla questione, il padre, nonostante le indecisioni sul voto, sembra essere nettamente a favore dell'eutanasia, la figlia invece è contraria, sul loro giudizio e sul loro rapporto però pesa il recente decesso della moglie/madre, costretta in una situazione molto simile a quella di Eluana. A questo episodio si lega quello di Roberto (Michele Riondino) e del suo fratello ribelle (Fabrizio Falco, premiato a Venezia come miglior attore esordiente), anche loro a Udine per manifestare però a favore dell'eutanasia. C'è poi la storia del Dottor Pallido (Pier Giorgio Bellocchio, figlio del regista) che tenta in tutti i modi di aiutare la tossicodipendente Maya Sansa, e quella di Isabelle Huppert , ex-attrice teatrale che sprofonda nella fede e rinuncia alla carriera per assistere la figlia in stato vegetativo.
Una struttura corale per ricordarci poco elegantemente che la storia di Eluana è una storia italiana, anzi universale, che direttamente o indirettamente sfiora tutti, dal politico all'artista. Una scelta narrativa che, oltre a risultare tremendamente didascalica, rischia anche di sembrare poco coraggiosa, un modo per rifuggire un tema troppo spinoso, spalmato in una serie di sotto-trame invece di essere adeguatamente sviscerato in un blocco narrativo compatto.
A peggiorare le cose ci si mettono il copione, la sceneggiatura in generale e le interpretazioni di alcuni attori. Visto che ho già utilizzato l'aggettivo didascalico ne aggiungo un altro: caricaturale, perché in Bella addormentata tutto viene portato all'esasperazione, i personaggi annunciano il loro stato d'animo invece di lasciarlo trasparire dall'insieme dell'interpretazione, e i temi portanti vengono semplicemente piazzati sotto al naso dello spettatore senza un minimo di tatto. Così per esempio gli esponenti del PDL diventano delle autentiche macchiette, guardano i protestanti e dichiarano sghignazzando “Tanto non contano niente!” e poi si precipitano nelle stanze del potere a farsi fotografare in pose fasciste, o a raccontarsi l'un l'altro di come Berlusconi li ha salvati tutti dalla galera, perché evidentemente non se lo ricordano. Di certe cose bisogna parlarne è vero, ma bisogna parlarne nel modo giusto, altrimenti anche la tesi più convincente perde credibilità e diventa un'arma a doppio taglio.
Toni Servillo fa Toni Servillo, lo fa bene ma mi piacerebbe vederlo alle prese con qualcosa di diverso, e anche per questo aspetto E' stato il figlio, di Daniele Ciprì. Lo stesso vale per Alba Rohrwacher che però trovo sempre meno sopportabile nella parte dell'impacciata cronica. Ma mentre loro fanno il possibile per tenere a galla la barca, il resto del cast fa di tutto per affondarla; Isabelle Huppert esclusa, non se ne salva uno, dal terribile Brenno Placido, passando per Gianmarco Tognazzi e concludendo con Maya Sansa, attori convinti che il livello di drammaticità di una scena sia direttamente proporzionale al volume della voce.
Se Bella addormentata fosse stato incentrato su tutt'altro tema sarebbe stato semplicemente un film insignificante, ma visto che affronta un argomento così importante e delicato in modo così goffo, il peso dei difetti aumenta in modo esponenziale, non ci si può permettere di parlare di eutanasia con toni da un Posto al Sole.
Qualcuno ha detto che il film di Bellocchio possono capirlo solo gli italiani ed è per questo che a Venezia è stato boicottato, la prima parte è vera, solo noi italiani possiamo capire e riconoscere l'italietta rappresentata da pellicole come questa, ma non significa che debba piacerci.