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venerdì 21 settembre 2012

Filmbuster(d)s - Episodio #13

Sogno o son desto? 2 episodi del podcast di cinema namber uan in una settimana? Ebbene si, come promesso dovevamo farci perdonare dei problemi tecnici del precedente episodio, eccovi quindi il tredicesimo episodio di Filmbuster(d)s, tutto dedicato ai 2 film del momento: il fresco vincitore del Leone d'Oro, Pietà di Kim Ki-duk, e l'oggetto di feroci discussioni sull'Internet, Prometheus di Ridley Scott.
In coda, dopo i saluti, una discussione più approfondita sulla trama piena zeppa di spoiler. Uomo avvisato...

Nel 13° episodio di Filmbuster(d)s:


[00:04:30]Pietà di Kim Ki-duk
[00:26:20]Prometheus di Ridley Scott
[01:06:30]L'angolo della posta
[01:21:32]SPOILER Prometheus




Potete ascoltare l'episodio al link diretto al file MP3 (per scaricarlo basta cliccare col destro e poi "Salva link con nome"): Clicca qui

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sabato 15 settembre 2012

Pietà di Kim Ki-duk

Nelle sale dal 14 settembre.
Kim Ki-duk è tornato e non solo formalmente -quello lo aveva già fatto un anno fa con Amen, un prodotto troppo personale che non lo convince e lo ritirò dalla visione al pubblico dopo poco tempo- ma letteralmente. Ne è valsa la pena aspettare quattro anni, tanto è passato dal suo ultimo film, Dreams, per poter godere a pieno del meraviglioso Pietà.
Ancora più gioia si prova nel vederlo trionfare alla 69esima mostra del cinema di Venezia dove ha sbaragliato la concorrenza composta da nomi come P.T. Anderson e Terrence Malick e festeggiare intonando un piccolo assaggio di Arirang.
Kim è rinato, dopo una pausa autoimposta in seguito a un incidente accaduto sul set (proprio di Dreams) che ha causato una crisi sia produttiva sia esistenziale. Non si riconosceva più, non capiva in che direzione il suo cinema e la sua vita stessero andando. Ha avuto il bisogno di isolarsi, di una lunga autoriflessione per comprendersi e anche perdonarsi (qualora ci fossero delle reali colpe), per perdere quella pressione che sentiva sulle spalle, diventato in pochi anni il più fulgido esponente del cinema asiatico post 2000, con una folla sempre più grande e sempre più in attesa del suo prossimo lavoro. Lo ha fatto nell'unico modo che conosce, con la macchina da presa, in Arirang.

"I bastardi siete voi, che vi indebitate senza ragionare e poi non saldate i debiti".
Torna con un film rischioso, come hanno sottolineato molti. Un'opera contemporanea, legata al presente e alla situazione economica che la nostra epoca sta attraversando. Un film fortemente sentito, viscerale e capace di colpire in più punti, al cuore, allo stomaco, al cervello. 

Lee Kang-do lavora per uno strozzino che ogni giorno lo sveglia con la foto di un nuovo malcapitato in ritardo coi pagamenti da andare a trovare. Per ogni cifra richiesta, gli interessi sono del mille per cento, in pratica, impossibile saldare il debito. Ma Gan-do non si fa problemi e soprattutto non ci rimette di certo di tasca sua. Se uno dei poveri artigiani locali non può pagare, viene reso invalido di modo che i soldi dell’assicurazione potranno ripagare il debito. Un giorno però si presenta a casa sua una donna, sostenendo di essere la madre che lo abbandonò appena nato. Kang-do non si fida e sottopone la donna a prove disgustose. Una volta ottenuta la fiducia, inizia per i due una nuova vita. Finalmente riuniti, passano le giornate come fossero tornati indietro nel tempo, all'infanzia del ragazzo e tornano a essere una vera famiglia. Kang-do conosce il perdono e la pietà appunto, davanti alle sue vittime. Questo idillio si rompe quando uno dei debitori storpiati rapisce la madre e minaccia di ucciderla. Il carnefice che si riscopre vittima.

Nel piccolo quartiere di Cheonggyecheon si vive in povertà, nella sporcizia, chiusi nelle officine che fungono anche da casa, con la città, Seoul, e i suoi grattacieli che stanno per sommergerlo, distruggerlo, mangiarselo vivo. Non c'è più spazio per i piccoli professionisti con la propria torneria o la modesta officina. Il capitalismo sta per inghiottirli e il suo unico mezzo e arma infallibile è il denaro, il vero protagonista del film. Li colpisce con i debiti, li elimina. E' una situazione senza via d'uscita. Persino un povero coniglio, simbolo di innocenza, una volta liberato, non riesce a salvarsi, a sfuggire al suo destino prestabilito.
Non c'è quindi salvezza per Kim, nel suo film più nero, più atroce. Non c'è salvezza per questa gente, perchè non esiste un altra realtà nel film, non la vediamo. I grattaceli e il benessere sono lontani, sono solo uno sfondo, irraggiungibile e intoccabile. 

A Cannes vinse l'amour, a Venezia vince la pietà.
La pietà del titolo -ispirata da quella di Michelangelo, scultura vista dal regista in diverse occasioni durante le sue visite in Vaticano- si dirama verso tre direzioni. Pietà per un uomo, uno strozzino, violento, senza morale, senza coscienza, ma vissuto senza una famiglia, senza una madre amorevole. Pietà verso una madre che ritorna dal figlio, pentita, addolorata. Pietà per la condizione umana, per i commercianti, che la invocano a gran voce, invano. Pietà insieme alla vendetta, l'altra faccia della medaglia, l'altra reazione. Perchè non tutto può essere perdonato, non tutto merita pietà.

 Non solo Kim Ki-duk è tornato ma è ritornato alle origini. Pietà è molto simile ai suoi primi lavori (The isle o Adress unknown, Bad guy) dove nel connubio violenza e poesia, la prima prende un leggero sopravvento. Come se fosse animato da un nuovo vigore, un nuovo furore, il regista è ringiovanito risponde così alle critiche di una immobilità creativa e stilistica, e di una certa ripetitività nelgi ultimi lavori. E' quini un film di rottura, anche di più di Arirang.
Pietà è un film meraviglioso per la gamma di sensazioni che riesce a far trapelare dalla pellicola. Lo shock della violenza nuda e cruda, la compassione per un povero neo-papà, capace di farsi amputare entrambe le mani pur di dare al figlio un futuro decente, il disgusto per la scena più forte del film, quello stupro-incesto tra madre e figlio, e l'amore e la gioia di rivedere una famiglia riunita, gli abbracci che si scambiano nel ritrovarsi insieme, di nuovo. Poesia e violenza, sempre presenti, come nei migliori Kim Ki-duk.

Fenomenale il duo presente su schermo. Lee Jung-jin è una maschera di violenza e fragilità. E' iraggionevole, furioso, impassibile davanti alle suppliche e al dolore dei poveri abitanti del suo quartiere ma una volta ritrovata la madre straripa tutta la sua insicurezza e fragilità. Jang Mi-sun anche lei fantastica, per mille ragioni che non possono essere rivelate qui, senza andare in spoiler. 

Mi rendo conto di aver fatto davvero fatica a scrivere di questo film meraviglioso -anche Ghezzi, forse a causa degli antidolorifici per la gamba rotta, riusciva solo a ripete un "è bellissimo, è bellissimo"- ma è anche questo Kim Ki-duk. Sensazioni, emozioni, difficile mettere su carta quello che riesce a trasmetterti con così tanta facilità, senza ricercare espedienti particolari o complicati. Va visto, va vissuto, con quel finale che ti lascia tanto dentro e allo stesso tanto vuoto. 
Se la cura Arirang funziona così bene, ci si dovrebbero sottoporre moltissimi registi. Bentornato Kim.

venerdì 31 agosto 2012

Arirang di Kim Ki-duk

Questa non vuole essere una recensione classica. Nasce come un commento a caldo, riflessioni varie post visione butate giù alla bene e meglio. 

Arirang è un ottovolante e in quanto tale può provocare nausea e vomito oppure eccitazione e meraviglia. Ma soprattutto ha fasi ottime alternate al nulla, e idee anche geniali a errori di fondo.
 Allora, Kim Ki-duk a me continua a piacere, anche dopo gli ultimi lavori, perchè no. Si ripete? Può darsi, ma non vedo, per ora, un vero problema. Proprio in occasione di uno degli utlimi film, l'ultimo esattamente, Dreams, un'attrice è stata quasi realmente impiccata ma lui è riuscito a salvarla in tempo. Era regista-sceneggiatore-produttore. Triplice colpa in caso di morte. Idea, attuazione, produzione. L'attrice, invece, non si ricorda neanche più cosa sia successo. E invece lui ci è rimasto sotto, tanto da finire a vivere in una tenda dentro a una catapecchia nel be mezzo del nulla della campagna koreana per tre anni, fino al 2011.
Si ritrova incapace di scrivere, realizzare nuovi film, incapace di capire quello che stava dicendo o pensando. Prima faceva film a nastro, appena finita la produzione di uno già scriveva il successivo. Ma adesso è bloccato. Questo è il film. Lui stesso e basta, come attore/i, regista, scenografo, elettricista, truccatore e tutto il resto.

Ci sono 4 Kim Ki-duk, come fossero a matrioska. 1) quello depresso, che parla di quanto è successo e di chi è diventato ora. 2) quello spontaneo che lo attacca e che gli fa un intervista dove lo esorta a tornare al lavoro 3) quello esterno che rivedendosi, nello sfogo con se stesso, ride, e quando rivede i suoi film piange 4) la sua ombra, più pacata del Ki-duk spontaneo.
 Ci sono dei pro e dei contro in Arirang, come dicevo. Innazitutto è l'opera essenziale per capire e comprendere il regista, e allo stesso tempo è la più inutile. Poi ci arrivo.
 Il cinema è terapia. Ci aiuta a vivere meglio e a volte a stare meglio. L'urlo straziato di Ki-duk, Arirang Arirang Ariyo, chiede una cura e può trovarla solo nel suo mezzo espressivo. Si mette a nudo davanti alla sua arma, la cinepresa, e si fa un autoanalisi massacrante per potersi ricostruire piano piano. L'unico modo per tornare a fare cinema e diventare cinema. Kim Ki-duk diventa un film di Kim Ki-duk. Lontano dai suoi personaggi, per sua stessa ammissione, viene ingoiato dalle sue storie.
Primo risultato: non ha finito quello che ha da dire. Secondo: sfogarsi con tutti; fans, produttori, festivals, la Korea e i politici. Buttare fuori tutto, puntare il dito su chi l'ha tradito e chi gli ha voltato le spalle, e su chi lo incensa inutilmente. Perchè un premio, un onorificenza non ti cambiano la vita. Neache fare film, film belli o brutti. Terzo risultato: prendere coscienza di quello che si è e quello che si è fatto.
 Va bene, va tutto bene. Amo questo artista e mi sta bene pendere dalle sue labbra, capire che cos'ha, aiutarlo a curarsi, dargli una mano. Quello che mi chiedo però è: era necessario? La gente scrive libri, quando vuole far sapere al mondo di aver avuto un periodo nero e di come ne sia uscita. Alcuni fanno canzoni, altri film (Kitano, Von Trier). Qualcosa li spinge inesorabilmente a dire a tutti che ne sono usciti. Non mi voglio lamentare di questo, ognuno faccia quello che vuole per carità, ma lo trovo forzato e pomposo, soprattutto quando non è un film/canzone/libro girato/cantato/scritto in modalità depressione ON, ma un documentario su stessi. Finchè fai una trilogia -autodistruttiva- sul tuo blocco creativo (Kitano) o sul tuo status attuale e il rapporto con le donne (Von Trier), lo posso capire. Qundo te la canti e te la suoni, ti autoriprendi, ti auto intervisti, ti auto tutto, non ci intravedo un senso. E' solo uno sfogo di nervi, di cui, io e lo spettatore, ne facciamo a meno e non perchè siamo brutti e insensibili, ma perchè allora tutti dovremmo farlo, e lo facciamo, privatamente, e non in piazza. Eh ma sono artisti. 

 Mi sto perdendo, e mi sono perso. Urge spiegazione. La cosa peggiore di Arirang è che è finto. Abbiamo un uomo che attraversa una crisi e ne vuole uscire. Sceglie il mezzo, il suo lavoro. Sceglie il modo, il documentario privato. Discutibili ma è quello che è, allora, però, sii fedele a quello che vuoi fare.
 Una confessione senza filtri e senza teatralità. Dici quello che devi, ne fai un film perchè qualcuno te lo produrrà o lo fai da solo, ma quello è quello che è. E invece Ki-duk deve metterla in maniera drammatica, e lo fa notare anche ("Si prima ho pianto, forse l'ho fatto per drammatizzare").
 Il montaggio, le riprese a camera ferma e a mano, gli inserti (Ki-duk sulla ruspa. Adesso posso morire contento), il duetto con se stesso (Tolleranza Zoro). Lo rendono totalmente finto. Prima dice che non c'è struttura, e non ci sono titoli-credits, e musiche, poi però tiri fuori queste cose, chiaramente pianificate. Un pò, sempre rimanendo in tema Von Trier, quello che dicono e poi fanno con il Dogma 95. Fai una cosa intimista e sperimentale, la accetto, poteva benissimo essere una intervista e basta, e però ci metti della finzione che mi isola da te, si frappone tra noi. C'è un filtro di mezzo, lo schermo e non dovrebbe, stavolta. Quando grida contro i fans e li chiama figli di puttana, è falso. Quando piange, è falso. Quando grida distrutto, è falso. Non è falso, ma lo è. E' falso perchè è cinematografico. C'è un idea, ci sono riprese fatte apposta, perchè c'è dietro un intenzione di piazzarle poi qui o là, all'interno del film/documentario. Dov'è quindi la spontaneità, la naturalezza, lo sfogo perde sincerità.

Ma non è che ci ha trollato? Il dubbio si insinua.
Occhio però. Non voglio bocciarlo. E' molto interessante, molto più di tantissimi esperimenti o cazzate spacciate per artistiche. Solo che sbaglia modo. L'esempio è stupido ma mi viene questo; è come voler fare uno pseudo mokumentario camera a mano sul Rio delle amazzoni ma renderlo irrealistico, con riprese perfette e miliardi di telecamer (The river? no no). Può piacere, può venir fuori bene, ma è strafinto. Ogni cinque minuti, lo spettatore ritorna nella realtà, continua a pensare che tutto ciò è una fiction e non dovrebbe essere cos' orco can! Qui è identico. Il montaggio uccide tutto. Youtube amatoriale, vero. Aggiungi montaggio, finto. Godard avrebbe fatto una intervista a camera fissa di 4 ore con lui che blatera. Ecco, serviva quella radicalità, quell'estremismo. Ma Godard è uno stronzo, e gli stronzi non cadono mai in depressione.
Chiudo. Hai fatto un film per farci sapere che; sei stato in una tenda, shockato, per 3 anni, ora ne sei uscito; hai sentito il peso di fans urlanti e scalcianti che hanno rotto le palle per un nuovo film e che magari ti hanno voltato le spalle e che magari ti hanno criticato ma loro volevano uno dei tuoi "film grezzi e veloci, a ciclo continuo". Bene, evviva ora sei guarito.
Magari queste cose colpissero ben altri autori (Miike per dirne uno).
Diagnosi: Kim Ki-duk è un compiaciuto bastardo, forse ha sofferto davvero, ma è passata. Prognosi: sta benissimo, è già a Venezia con uno dei suoi film classici.

Se si perdona Arirang a lui, si perdona questo post a me.

domenica 8 luglio 2012

Womb di Benedek Fliegauf

Nelle sale dal 6 luglio (se ne trovate una)
Probabilmente io sarei la persona meno adatta a parlare di questo film, in quanto innamorato di lunga data di Eva Green, però non posso resistere ancora di più perchè me lo sono ritrovato così di colpo, uscito quasi dal nulla e perchè trattasi, Eva o no, di un ottimo e particolare film.
Womb (conosciuto anche come Clone arriva nella desolata estate italiana con un piccolo ritardo di due anni e vincitore a Locarno) è una storia d'amore infarcita di fantascienza o viceversa. Rebecca è una bambina che va a fare le vacanza nella casa sul mare del nonno. Qui incontra Tommy, un coetaneo. Tra i due scocca la scintilla, seppur in età molto precoce, ma ancor prima di conoscersi meglio, Rebecca deve andarsene, addirittura a Tokyo, dove la madre ha trovato lavoro. Dopo 12 anni torna e va a cercare Tommy. Nonostante siano passati tanti anni e non si siano più visti, non sembra essere passato un secondo e l'attrattiva tra i due è ancora forte. Un giorno partono per una manifestazione e durante il tragitto lei chiede se si possono fermare perchè deve andare al bagno. Purtroppo sarà la volta in cui Tommy la lascerà, e definitivamente, travolto e ucciso da un furgone. La manifestazione a cui dovevano andare era contro una compagnia che pratica la clonazione e da qui le viene l'idea. Tommy rivivrà tramite lei. Sarà Rebecca a partorirlo e a crescerlo, spinta dalla voglia di rivederlo e stare con lui ancora e dal senso di colpa. Ma cosa succederà quando lui crescerà e le ricorderà l'uomo di cui era innamorata?
Affascinante, seppur magari in maniera morbosa, questo sci-fi-rom (un genere che apprezzo e già "gustato" nei recenti Non lasciarmi, di cui sembra debitore ma ricordo che è del 2010 Womb o Un amore all'improvviso) dove la seconda componente, la romantica, ha il sopravvento. E' un film di grandi silenzi, di sguardi, di cose non dette. Il regista ungherese Benedek Fliegauf (è un nome vero garantisco) riesce a scrivere una storia originale (non c'è infatti una base letteraria in confronto ai due suddetti) aiutandosi con solo una manciata di dialoghi, tutti molto intensi o ben scritti, come il lungo discorso di Tommy sui fiocchi di neve identici, ricordando vagamente lo stile di Kim Ki-Duk.
Il resto lo fa una fotografia perfetta che immortala un luogo freddo, senza tempo, dove i personaggi, anch'essi privati dello scorrere del tempo, deambulano e si sfiorano, incapaci, anche se non del tutto, di lasciarlo. Ci sono diverse scene che colpiscono indelebilmente lo spettatore e che rendono splendidamente le idee che il regista vuole comunicarci (senza, ripeto, bisogno di parole). Tra queste c'è la sepoltura del cucciolo di dinosauro robot, in cui è impossibile non associarlo a uno dei cloni bistrattati della vicenda (ancora una volta c'è la tematica del clone spaventoso e si crede senza sentimenti) o ancora la scena dell'incontro tra Tommy e la sua vera madre.
Womb è un ottimo lavoro anche dal lato psicologico. Perchè Rebecca fa un gesto simile, sconsigliato dai genitori di Tommy? E soprattuto è interessante vedere la reazione che ha quando Tommy è cresciuto e è un uomo e l'impossibilità di averlo, essendo sua madre, essendo invecchiata e avendo lui una fidanzatina, piuttosto scombussolata dal modo in cui Rebecca tratta il figlio. Proprio la ragazza di Tommy manda rebecca in uno stato di depressione, resasi conto finalmente che quello che ha fatto si è rivelato un problematico errore e che dovrà prima o poi rivelare la verità, per togliersi il peso. Tutto questo porta a un finale forte e che potrà disturbare qualche spettatore, troppo immedesimato nella storia, ma semplicemente perfetto.
In definitiva Womb, come Take shelter, spicca in questo periodo privo di film o di film s-commerciali, e purtroppo non riceverà molte visioni grazie a una distribuzione assente, sbadata, e in ritardo. Menzione finale per i due attori principali, una sempre convincente Eva Green (struccata e coraggiosa nella scelta dei film) e Matt Smith, un clone di Crispin Glover, celebre per la serie Doctor Who.
Siete stufi di cose, uomini ragni o fratelli idioti? Womb è per voi.


Voto 8.