Concorso Internazionale
Quando l'ultimo progetto dell'architetto Schmidt viene bocciato, l'uomo sprofonda in una crisi umana e professionale. Per uscirne, decide finalmente di preparare un libro sull'architetto barocco Francesco Borromini, così parte per Stresa insieme alla moglie Aliénor. Qui i coniugi, divisi da un muro di silenzio, si imbattono in una coppia di adolescenti, fratello e sorella. Mentre Aliénor sceglie di rimanere con la ragazza, debilitata da una malattia nervosa, Alexandre continua il viaggio verso Roma con il ragazzo, futuro studente di architettura.
La Sapienza è uno di quei film che nel bene o nel male riescono a catturare l'attenzione del pubblico, almeno durante i primi minuti: dopo una serie di panoramiche che ci portano dalle architetture romane a quelle più fredde e moderne della Svizzera, ci si imbatte subito nella caratteristica peculiare del film (e forse del cinema di Green, che ammetto di non conoscere affatto): i dialoghi e la recitazione. I personaggi di La Sapienza, in particolare Alexandre e Aliénor, parlano e si muovono con una compostezza che ha del surreale, rigidi e formali anche nei momenti di maggiore emotività, come se leggessero un gobbo senza alcun trasporto. Una rigidità "architettonica" che si ripercuote anche sulla messa in scena, o meglio, sul modo rigidamente simmetrico in cui attori ed oggetti si distribuiscono nell'inquadratura. E questo forse perché i personaggi del film di Green sono in qualche modo tutti bloccati, dai propri fantasmi, come quelli che dividono Alexandre da Aliénor, o da fantasmi altrui, come quello di Borromini e del suo discepolo, che si riflettono o forse si reincarnano in Alexandre e l'aspirante studente.
Che si tratti di questo o di un divertito esercizio di stile, il gioco non è bello e soprattutto dura troppo. Dopo qualche risatina a denti stretti, la trovata diventa presto esasperata ed esasperante, le situazioni si ripetono, il grottesco perde efficacia, e purtroppo a peggiorare le cose ci si mettono gag come quella dell'australiano, così squallida che quasi non ci si crede. Un vero e proprio calvario che si chiude su se stesso, gira e rigira finché finalmente non culmina nella più banale e prevedibile delle illuminazioni: gli spazi vanno riempiti di persone e di luce.
Ingiustamente punitivo.
La Sapienza è uno di quei film che nel bene o nel male riescono a catturare l'attenzione del pubblico, almeno durante i primi minuti: dopo una serie di panoramiche che ci portano dalle architetture romane a quelle più fredde e moderne della Svizzera, ci si imbatte subito nella caratteristica peculiare del film (e forse del cinema di Green, che ammetto di non conoscere affatto): i dialoghi e la recitazione. I personaggi di La Sapienza, in particolare Alexandre e Aliénor, parlano e si muovono con una compostezza che ha del surreale, rigidi e formali anche nei momenti di maggiore emotività, come se leggessero un gobbo senza alcun trasporto. Una rigidità "architettonica" che si ripercuote anche sulla messa in scena, o meglio, sul modo rigidamente simmetrico in cui attori ed oggetti si distribuiscono nell'inquadratura. E questo forse perché i personaggi del film di Green sono in qualche modo tutti bloccati, dai propri fantasmi, come quelli che dividono Alexandre da Aliénor, o da fantasmi altrui, come quello di Borromini e del suo discepolo, che si riflettono o forse si reincarnano in Alexandre e l'aspirante studente.
Che si tratti di questo o di un divertito esercizio di stile, il gioco non è bello e soprattutto dura troppo. Dopo qualche risatina a denti stretti, la trovata diventa presto esasperata ed esasperante, le situazioni si ripetono, il grottesco perde efficacia, e purtroppo a peggiorare le cose ci si mettono gag come quella dell'australiano, così squallida che quasi non ci si crede. Un vero e proprio calvario che si chiude su se stesso, gira e rigira finché finalmente non culmina nella più banale e prevedibile delle illuminazioni: gli spazi vanno riempiti di persone e di luce.
Ingiustamente punitivo.
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