Presentato nella sezione TFFDOC
"Pronto ? Jani ? Stammi a sentire, oggi
dobbiamo girare la scena della partenza, quindi non bere niente...
Come ? E allora smetti subito, hai tempo per smaltire la sbornia."
Ambizioso questo Jean-Marc Lamoure. Giovanissimo,
con un paio di regie nel curriculum, si lancia in un'impresa
veramente titanica: girare un documentario su uno dei più grandi
registi viventi, e, come se non fosse abbastanza, farlo proprio
durante le riprese di quello che sarà l'ultimo film della sua
carriera. Una bella responsabilità, considerando che il film
potrebbe addirittura trasformarsi in una sorta di testamento umano e
artistico.
Il regista in questione è l'ungherese Béla Tarr e
il film è Il Cavallo di Torino (A torinói ló, 2011). La pellicola,
difficilissima da raccontare come ogni opera di Tarr, si apre con una
didascalia: il 3 gennaio 1889, uscendo dal numero 6 di Via Carlo
Alberto a Torino, Friederich Nietzsche vede un cocchiere che si
accanisce con la frusta sul suo cavallo. Impietosito, il filosofo si
getta in lacrime al collo dell'animale, poi, dopo aver pronunciato la
frase "Mutter, ich bin dumm" precipita nella follia e nel
silenzio (così come Tarr smette di fare cinema).
Il film comincia qui, sullo sguardo innocente di
questo cavallo, sorta di Balthazar bressoniano che scruta
passivamente le vite del cocchiere e di sua figlia (Janosz Derzsi e
Erika Bok, due dei tanti compagni inseparabili del regista), due
non-esistenze fatte di piccoli gesti e azioni meccaniche, movimenti
svuotati di ogni significato da una routine inesorabile. Come tutti i
film di Tarr, Il Cavallo di Torino parla della fine, ma questa volta
lo sguardo è più amaro che mai, gli infiniti piani sequenza sono
tutti tesi a rievocare la sensazione di un tempo che si è fermato e
allo stesso tempo scorre sempre uguale, e il vento, che nei film
precedenti sembrava muovere e animare i personaggi, si trasforma in
una presenza ostile che li flagella incessantemente, martellante
controcanto alla straziante colonna sonora di Mihaly Vig. Il canto
del cigno di Béla Tarr è un film spietato e disperatissimo,
un'apocalisse che si insinua nel quotidiano senza essere notata.
Anche il documentario di Lamour si apre con una
didascalia, ma questa volta il tono è completamente diverso: le
parole ed un elenco di nomi sullo schermo ci raccontano che tutte le
persone dietro i film di Béla Tarr sono una vera e propria famiglia,
fidatissimi professionisti e non di cui il regista ungherese si è
circondato per quasi trent'anni (con la moglie Agnes "Agi"
Hranitzky collabora da 28, vederli insieme sul set è bellissimo).
Nei momenti di relax tra una ripresa e l'altra scherzano e si
punzecchiano come vecchi amici ("Signor regista! Signor
artista!"), creando un contrasto fortissimo e straniante tra
l'atmosfera che si respira sul set e quella opprimente delle immagini
che si stanno creando (a mio avviso il documentario funziona meglio se visto dopo
il film).
Ogni tanto lo sguardo voyeuristico di Lamoure si
sposta dalle spalle dell'impegnatissimo regista per concedere poco
(pochissimo!) spazio ad alcuni di questi personaggi. Vediamo l'attore
Janosz Derzsi (117 film sulle spalle), che, seduto in un bar durante
una pausa, si lancia in un'esegesi del cinema di Tarr mentre
trangugia l'ultima di chissà quante birre. Oppure il geniale Migaly
Vig (autore di tutte le colonne sonore di Tarr da Almanacco d'Autunno in
poi), che ci accompagna in un caseggiato popolare alla ricerca di
quel silenzio così indispensabile alla creazione artistica eppure
così difficile da trovare.
E poi naturalmente lo stesso Béla Tarr, che si
concede allo spettatore soltanto per pochi istanti, con un
malinconico monologo che scorre sulle immagini delle location
abbandonate di Satantango. Il tempo è inclemente e la gloria
transitoria, quelle idee che un tempo muovevano fiumi di comparse non
esistono più, ormai sullo schermo c'è spazio solo per una coppia di
attori ed un cavallo, c'è spazio soltanto per la fine.
Per quanto siano emozionanti agli occhi di un
appassionato, è proprio in questi frangenti che emergono tutti i
limiti del lavoro di Lamoure, così concentrato sul documentare le
riprese del film da lasciarsi sfuggire l'occasione di far parlare a
ruota libera glii affascinanti protagonisti. E non mi riferisco solo
ai tanti collaboratori, ma allo stesso Tarr, colosso del cinema alla
sua ultima regia, una miniera d'oro di cui si scalfisce a malapena la
superficie. Certo è possibile che il nostro abbia scelto di
concedersi poco allo sguardo e alle domande di Lamoure, ma da un
documentario intitolato Tarr Béla, i used to be a filmaker era
lecito aspettarsi qualcosina in più. A conti fatti, e considerando
anche la durata (circa 88 minuti), si ha l'impressione di trovarsi di
fronte ad un backstage molto poco completo, qualcosa che non avrebbe
sfigurato tra i contenuti speciali di un'edizione home video.
Un'occasione mancata per chi sperava di conoscere il regista, per chi
invece lo conosceva e lo adorava già (come il sottoscritto) resta
l'enorme (dis)piacere di osservarlo per l'ultima volta nel suo
ambiente naturale, prima che seppellisca la sua macchina da presa in
una trincea nel mezzo del nulla.
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