sabato 30 novembre 2013

Tarr Béla, i used to be a filmaker di Jean-Marc Lamoure

Presentato nella sezione TFFDOC

"Pronto ? Jani ? Stammi a sentire, oggi dobbiamo girare la scena della partenza, quindi non bere niente... Come ? E allora smetti subito, hai tempo per smaltire la sbornia."

Ambizioso questo Jean-Marc Lamoure. Giovanissimo, con un paio di regie nel curriculum, si lancia in un'impresa veramente titanica: girare un documentario su uno dei più grandi registi viventi, e, come se non fosse abbastanza, farlo proprio durante le riprese di quello che sarà l'ultimo film della sua carriera. Una bella responsabilità, considerando che il film potrebbe addirittura trasformarsi in una sorta di testamento umano e artistico.
Il regista in questione è l'ungherese Béla Tarr e il film è Il Cavallo di Torino (A torinói ló, 2011). La pellicola, difficilissima da raccontare come ogni opera di Tarr, si apre con una didascalia: il 3 gennaio 1889, uscendo dal numero 6 di Via Carlo Alberto a Torino, Friederich Nietzsche vede un cocchiere che si accanisce con la frusta sul suo cavallo. Impietosito, il filosofo si getta in lacrime al collo dell'animale, poi, dopo aver pronunciato la frase "Mutter, ich bin dumm" precipita nella follia e nel silenzio (così come Tarr smette di fare cinema).
Il film comincia qui, sullo sguardo innocente di questo cavallo, sorta di Balthazar bressoniano che scruta passivamente le vite del cocchiere e di sua figlia (Janosz Derzsi e Erika Bok, due dei tanti compagni inseparabili del regista), due non-esistenze fatte di piccoli gesti e azioni meccaniche, movimenti svuotati di ogni significato da una routine inesorabile. Come tutti i film di Tarr, Il Cavallo di Torino parla della fine, ma questa volta lo sguardo è più amaro che mai, gli infiniti piani sequenza sono tutti tesi a rievocare la sensazione di un tempo che si è fermato e allo stesso tempo scorre sempre uguale, e il vento, che nei film precedenti sembrava muovere e animare i personaggi, si trasforma in una presenza ostile che li flagella incessantemente, martellante controcanto alla straziante colonna sonora di Mihaly Vig. Il canto del cigno di Béla Tarr è un film spietato e disperatissimo, un'apocalisse che si insinua nel quotidiano senza essere notata.
Anche il documentario di Lamour si apre con una didascalia, ma questa volta il tono è completamente diverso: le parole ed un elenco di nomi sullo schermo ci raccontano che tutte le persone dietro i film di Béla Tarr sono una vera e propria famiglia, fidatissimi professionisti e non di cui il regista ungherese si è circondato per quasi trent'anni (con la moglie Agnes "Agi" Hranitzky collabora da 28, vederli insieme sul set è bellissimo). Nei momenti di relax tra una ripresa e l'altra scherzano e si punzecchiano come vecchi amici ("Signor regista! Signor artista!"), creando un contrasto fortissimo e straniante tra l'atmosfera che si respira sul set e quella opprimente delle immagini che si stanno creando (a mio avviso il documentario funziona meglio se visto dopo il film).

Ogni tanto lo sguardo voyeuristico di Lamoure si sposta dalle spalle dell'impegnatissimo regista per concedere poco (pochissimo!) spazio ad alcuni di questi personaggi. Vediamo l'attore Janosz Derzsi (117 film sulle spalle), che, seduto in un bar durante una pausa, si lancia in un'esegesi del cinema di Tarr mentre trangugia l'ultima di chissà quante birre. Oppure il geniale Migaly Vig (autore di tutte le colonne sonore di Tarr da Almanacco d'Autunno in poi), che ci accompagna in un caseggiato popolare alla ricerca di quel silenzio così indispensabile alla creazione artistica eppure così difficile da trovare.
E poi naturalmente lo stesso Béla Tarr, che si concede allo spettatore soltanto per pochi istanti, con un malinconico monologo che scorre sulle immagini delle location abbandonate di Satantango. Il tempo è inclemente e la gloria transitoria, quelle idee che un tempo muovevano fiumi di comparse non esistono più, ormai sullo schermo c'è spazio solo per una coppia di attori ed un cavallo, c'è spazio soltanto per la fine.
Per quanto siano emozionanti agli occhi di un appassionato, è proprio in questi frangenti che emergono tutti i limiti del lavoro di Lamoure, così concentrato sul documentare le riprese del film da lasciarsi sfuggire l'occasione di far parlare a ruota libera glii affascinanti protagonisti. E non mi riferisco solo ai tanti collaboratori, ma allo stesso Tarr, colosso del cinema alla sua ultima regia, una miniera d'oro di cui si scalfisce a malapena la superficie. Certo è possibile che il nostro abbia scelto di concedersi poco allo sguardo e alle domande di Lamoure, ma da un documentario intitolato Tarr Béla, i used to be a filmaker era lecito aspettarsi qualcosina in più. A conti fatti, e considerando anche la durata (circa 88 minuti), si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad un backstage molto poco completo, qualcosa che non avrebbe sfigurato tra i contenuti speciali di un'edizione home video. Un'occasione mancata per chi sperava di conoscere il regista, per chi invece lo conosceva e lo adorava già (come il sottoscritto) resta l'enorme (dis)piacere di osservarlo per l'ultima volta nel suo ambiente naturale, prima che seppellisca la sua macchina da presa in una trincea nel mezzo del nulla.

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