sabato 30 novembre 2013

Film del weekend e del TFF: The Lunchbox di Ritesh Batra e C'era una volta un'estate di Nat Faxon, Jim Rash

Weekend di chiusura del Torino film festival e weekend di opere prime con l'esordio alla regia di Pif e Joseph Gordon-Levitt (recensioni in arrivo domani) e quelli di due mattacchioni mandati nientepopodimeno che da Alexander Payne, e di un indiano giramondo con il suo cestino del pranzo.

Nelle sale dal 28 novembre.

"A volte il treno sbagliato porta alla stazione giusta".
Famoso detto scherzoso di Trenitalia.

Ognuno avrà prima o poi nella sua vita, sperimentato l'ingorgo di una grande città italiana nell'ora di punta. Macchine ovunque, stress, ira, ci metti 45 minuti per fare duecento metri, semafori, lavori, impediti al volante. Tutto ciò è nulla se paragonato con il traffico giornaliero in una qualsiasi via del centro di Mumbai in India con i suoi 13 milioni di abitanti. In mezzo a questo infermo si muovono agili e scaltri i portatori di cibo (dabbawalas), che ogni giorno partono dai propri negozi in periferia, salgono su treni, scooter e furgoncini e arrivano nei quartieri finanziari dove consegnano i cestini del pranzo a colletti bianchi troppo indaffarati per prendersi una pausa di 5 minuti. La loro efficienza è talmente impressionante che persino Harward si è messa a studiare questa istituzione capace, letteralmente, di far girare l'intera economia nazionale. Ogni dabbawalas, circa 5000 in tutta la città, porta mediamente 26 pranzi da consegnare negli uffici di un intero palazzo. Come Harward ha constatato, nonostante debbano fare tutto in fretta, ci sia un casino costante attorno a loro e molti non sono neanche alfabetizzati, non sbagliano mai. O quasi.
Ritesh Batra, giovane neo regista indiano giramondo -ha studiato in America, passando per l'Italia, proprio a Torino- parte proprio da questa idea: un pranzo consegnato alla persona sbagliata. Un pranzo preparato con amore e dedizione da una moglie non apprezzata per il proprio marito indaffarato e assente, finisce nelle fauci di un impiegato anziano, scorbutico e vedovo, vicino alla pensione. Tra i due nasce una corrispondenza tramite alcuni bigliettini lasciati nei cestini, dove si aprono e si confidano, raccontando le proprie vite e i propri sogni, senza mai vedersi realmente. Il cibo diventa un tramite per la scoperta di uno spirito affine, con cui magari immaginare una vita insieme. Ma sarà possibile?
The Lunchbox è una dramedy deliziosa e delicata come alcuni piatti dolci della cucina indiana. Soffice e vellutata al primo assaggio, ma con un retrogusto forte e speziato (è il cumino, lo mettono dappertutto oh). Ma al contrario dei piatti tipici, intrisi di curry (il cinema di Bollywood tutto canterino e ipersaturo) è decisamente diverso e internazionale. Quali vantaggi porta conoscere il mondo eh? Batra avrebbe potuto fare un film simile rimanendo a studiare solo in India? Sarebbe stato influenzato da film e corti come Signs o uno degli ultimi Johnnie To Don't go breaking my heart o dal celeberrimo C'è posta per te (a sua volta remake di Scrivimi fermoposta)? The Lunchbox in un solo colpo proietta l'India all'estero e nel futuro.
Un'opera prima moderna, capace di parlare anche dell'India di oggi, dove il merito non viene più premiato, non ci sono più spazi, non c'è più pace e tutti sognano la fuga (magari verso il Butan o altre regioni amene dove la felicità pro capite è tanta). Dove due persone riescono a parlare di se stessi molto più facilmente e senza tecnologie, a distanza ma che una volta venuti a patti con la realtà devono irrimediabilmente piegarsi (e la scena nel bagno di Fernandes è diabolicamente dolorosa).
Insomma, complimenti a Batra, vincitore a Cannes per la semaine de la critique, per averci preparato un manicaretto coi fiocchi, grazie anche alla presenza di grandi attori come Irrfan Khan (l'indiano in tutti i film americani e il più famoso attore in patria), la sconosciuta e graziosa Nimrat Kaur e lo spassoso e dolce Nawazuddin Siddiqui. Aspettiamo il secondo ora e abbiamo fame.

Nelle sale dal 28 novembre.

Quando aveva 14 anni, lo sceneggiatore e regista Jim Rash ebbe una discussione singolare con il suo patrigno, mentre erano diretti verso la casa estiva al mare. Jim era un ragazzo solitario, attaccato alla madre, con qualche problema a socializzare e evidentemente rimasto un po' sconvolto dal divorzio dei suoi. L'uomo gli chiese, in una scala da 1 a 10 che voto darebbe a se stesso. Lui disse 6 ma il patrigno che non era un simpaticone gli diede un 3. Si apre così anche The way way back -niente a che fare con l'omonimo, con un way di meno, film del 2010, ma si riferisce al sedile posteriore, nel bagagliaio che certe macchine americane anni 50-60 avevano- giunto in Italia con il titolo molto da sabato pomeriggio Mediaset, C'era una volta un'estate. Film scritto e diretto dallo stesso Rash a quattro mani con l'amico e collega Nat Faxon. I due sono allievi di Alexander Payne e vincitori persino già di un Oscar (per la sceneggiatura di Paradiso amaro) e fin dalle prime immagini, dai primi personaggi su schermo, pare evidente l'influenza del cinema payniano sui due. Commedia agrodolce con tanti bei sentimenti e molto dolore, insito in personaggi fragili -tutti, chi più chi meno- in una storia di crescita, ottimismo e self confidence.
"Niente metodi ne schemi, va per la tua strada" dice Owen al timido e nevrotico Duncan in uno dei loro primi incontri. Owen è il "freak" necessario nella vita del ragazzo, un pazzo che gli da fiducia, che lo aiuta e lo capisce, perchè lui ci è già passato. Questo adulto eterno bambino lo salva -lui bambino troppo maturo- dal baratro dove piano piano stava scivolando, senza amici, chiuso in casa in un'età problematica come solo i 14 anni possono essere. 
Sam Rockwell, in una delle sue performance migliori, è Owen, ed è il salvatore anche del film stesso. Un vero tornado che rivoluziona tutto, simpaticissimo, stralunato e adorabile (perchè anch'esso fragile dietro tutti gli scherzetti che fa). Lo salva dall'essere già visto, dalla station wagon famigliare con tanto di Steve Carrell (cattivo per una volta) di Little miss Sunshine, al parco di divertimento di Adventure land fino ai tanti bad but positive role model presenti in molto cinema indie. Si salva invece da solo dal fattore prevedibilità con un finale semi aperto che non è piaciuto a molti -ma che il sottoscritto ha gradito particolarmente.
Però in ultima analisi riesce nel suo intento. Alla fine non vogliamo andarcene neanche noi dagli scivoli del parco acquatico, non vogliamo lasciare Susanna, proviamo molta simpatia per il non più triste Duncan e vorremmo anche noi sederci dietro dietro con lui, nel bagagliaio. 
Un film che molti adolescenti dovrebbero vedere, nell'attesa che arrivi anche da loro un Owen svitato e amante di PacMan.

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Due conti sul TFF: va bene, quest'anno è andata meglio. Molto più organizzati, anche se per l'ennesimo anno ci sono stati problemi alle case, tra codici, abbonati e spettatori semplici. Resta da constatare un fatto. Il Festival di Torino è uno dei più antichi d'Italia e dovrebbe dividere la palma di più importante insieme a Venezia ma con l'avvento di Roma è stato surclassato e relegato nel dimenticatoio.
Quest'anno è stato un successo di pubblico, perchè dopo tutto i film da vedere c'erano (Jodorowski, Jarmush, Pif perchè no, Payne, i Coen etc...) ma stiamo parlando, seppur di anteprime nazionali, di film che hanno già fatto il giro del mondo -anche più volte e soprattutto attraverso molti siti. Aspettando di capire quanto siano stati buoni i film in concorso, che alla fine dovrebbero essere l'unica cosa che conta, abbiamo la conferma di un festival molto interessante ma di secondo se non terzo livello. E ci dispiace.

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