Nelle sale dal 7 novembre
Quando ci si accosta ad
un film come Prisoners, lo si fa quasi sempre con quello scetticismo
che si manifesta quando un bravo regista non-americano si lascia
tentare da una produzione americana, anche perché i risultati sono
sempre altalenanti. Questa volta tocca al canadese Denis Villeneuve,
regista dello straziante La donna che canta (Incendies, 2010), che
però trova nella sceneggiatura di Aaron Guzikowski (quello di
Contraband, eh lo so...) un soggetto non troppo lontano dalle sue
corde.
Keller Dover (Hugh
Jackman) è l'archetipo cinematografico del padre di famiglia
americano: autoritario, profondamente religioso ed ossessionato dalla
paura, una paura ereditaria che lo spinge a creare un rifugio sicuro
nel suo seminterrato e a riempirlo di scorte per affrontare qualsiasi
tipo di calamità. E' stato educato per essere pronto a tutto, ma il
pomeriggio del giorno del ringraziamento sua figlia e quella del suo
vicino attraversano la strada davanti casa e spariscono nel nulla.
La matrice è quella del
film di genere, un thriller dalla struttura piuttosto riconoscibile
che ha molto in comune con pellicole come Gone Baby Gone e Il segreto
dei suoi occhi. Dopo una rapida presentazione dei personaggi e del
grigissimo paesaggio, la storia entra subito nel vivo dell'azione
sviluppandosi su due piani paralleli: da un lato c'è Keller, il
cittadino modello che per salvare sua figlia decide di farsi
giustizia da solo, da un punto di vista narrativo la sua metà della
storia si arresta subito, ma dramma e tensione si accumulano in un
crescendo davvero esplosivo. Dall'altro lato invece c'è
l'infallibile detective Loki (Jake Gyllenhaal), che nonostante le
insopportabili pressioni esterne cerca di agire entro i confini della
legalità. La sua indagine è costellata di indizi e probabili
sospetti, un dedalo di false piste che, come per Keller, non lo
portano da nessuna parte. Questa metà della storia, che poi funge un
po' da scheletro, è quella più vicina alla struttura classica del
thriller, un tira e molla di rivelazioni e svolte brusche che
scandiscono l'ottimo ritmo del film e mantengono vivo l'interesse,
anche per quegli spettatori più smaliziati che non faticheranno a
mettere insieme gli indizi. Il merito è soprattutto di una
sceneggiatura solida che si limita a rimescolare in modo intelligente
gli elementi tipici del genere (e di vari generi), utilizzando il
thriller come semplice pretesto per scandagliare ancora una volta il
ventre molle dell'America. Prisoners è infatti una storia di
individui bloccati, perennemente prigionieri della paura, divisi tra
una fede che mette continuamente alla prova e una morale religiosa
che impedisce di agire, o, più semplicemente, prigionieri di un
aguzzino pronto a tutto pur di salvare sua figlia. E qui la mente
torna inevitabilmente alla questione della tortura, perché in fondo
Prisoners e i suoi personaggi non sono altro che una metafora
piuttosto ovvia dell'America contemporanea, vittima della paura da
più di dieci anni, colpita dove fa più male e messa completamente a
nudo con tutte le sue più forti contraddizioni. Forse troppo ovvia,
e infatti il film sfiora spesso il limite del didascalismo,
soprattutto nel momento in cui il colpevole si rivela, ma nonostante
questo funziona ed è molto ben inserita in un prodotto
d'intrattenimento (se così si può definire) robusto e
appassionante, che naviga speditissimo e tiene incollati allo schermo
per la bellezza di 153 minuti.
Sorprendentemente buone
le interpretazioni dei due attori protagonisti, anche se a spiccare è
sicuramente Hugh Jackman (terza scelta dopo Christian Bale e Leonardo
Di Caprio) che porta sullo schermo un personaggio tormentatissimo e
molto credibile, aiutato dalla sua imponente presenza fisica.
Notevole anche il resto del ricchissimo cast, che può vantare nomi
come Melissa Leo, Maria Bello, Viola Davis, Terence Howard e Paul
Dano, a cui la parte del viscidone riesce sempre benissimo.
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