Boyhood muove da un'idea: raccontare dodici anni della vita di un ragazzo con un film realizzato nell'arco di dodici anni, in modo che l'attore protagonista, ma anche tutti i comprimari, crescano e invecchino naturalmente. Che, raccontato così, sembra semplicemente un sistema per non ricorrere al make-up o addirittura ad attori diversi, ma visto l'esito finale del film non siamo così lontani dalla realtà..
L'idea è interessante ma non nuova, basti pensare ai vari Up di Almond e Apted o al colossale I bambini di Golzow, quel che è nuovo, o che dovrebbe esserlo, è la sua applicazione ad un'opera di finzione. Ma se nei film di cui sopra l'idea assume un valore anche solo sociologico, qui, per il peso nullo che assume nel film. ha tutto l'aspetto di una nota a margine (o retroscena, visto che parliamo di cinema), un vezzo un po' gratuito che però fa la sua bella figura in locandina. E questo perché parliamo appunto di finzione, di una storia che se scritta, diretta e interpretata in un certo modo dovrebbe, almeno ad un livello epidermico, rapirmi completamente. Dovrebbe quindi risultare vera e credibile per tutta la sua durata, indipendentemente dal modo in cui l'invecchiamento dei personaggi viene rappresentato. Se io spettatore credo che quello sullo schermo sia il personaggio Mason, poiché ben scritto e descritto, che importa se ad interpretarlo è sempre lo stesso attore o attori diversi che si somigliano ? Nulla, almeno durante la fruizione, è un tecnicismo, una parte dell'artificio (di nuovo, se sembra il Texas, che importa se è girato in Nevada ?). E allora a cosa serve ? Considerando il tipo di film che è Boyhood, è lecito pensare che sia un modo per inseguire un certo tipo di realismo (o naturalismo), l'arte che imita la vita, il cinema che insegue e coglie gli attimi nella vita di Mason/Ellar Coltrane (il contrario di ciò che dice Mason, ovvero che gli attimi colgono noi). Il problema di Boyhood però è che di Vita, con i suoi silenzi, i suoi vuoti e le sue routine, ce n'è veramente poca, perché Linklater la relega quasi tutta al fuori campo (salvo rarissimi momenti non sempre riusciti, come quando Mason intravede la violenza domestica senza capirla, o in quei discorsi da adolescente che girano a vuoto), mentre sullo schermo scorrono solamente i momenti fondamentali, cioè quelle situazioni e quei dialoghi che muovono la storia, la risolvono: traumi, liti furiose, traslochi, bei discorsi paterni, compleanni, traguardi importanti... E non può che essere così, perché quella di Mason e famiglia è una vita da film, il classico drammone americano con la madre single che può farcela da sola, ma prima deve incontrare una serie di stronzi, tutti rigorosamente problematici, tutti bevitori incalliti, ma non troppo. Dove il padre è così inguaribilmente cool che guida una Mustang, lavora in Alaska e scrive canzoni. Una vita in cui c'è spazio per la miseria, ma non troppa, ma anche per le iccole rivalse e soprattutto per la cultura (dopotutto è un film di Linklater), e quindi ad un certo punto diventano tutti un po' artisti e intellettuali (di cattivissimo gusto la scena del lavoratore messicano, che di colpo diventa qualcuno solo perché Patricia Arquette gli consiglia di studiare,e lei lo rincontra proprio quando ha bisogno di sapere che è riuscita a fare la differenza), vanno tutti al college, le ragazze sono uno schianto, gli amici sono simpaticissimi, il talento abbonda (ma non troppo, si arriva solo al secondo posto). E alla fine c'è quello scambio di battute conciliante, girato nel luogo più scenografico possibile, come se alla fine di una vita, o di una fase della vita, si potesse mettere un bel punto e tirare le somme. E in quel momento ti accorgi che Boyhood ti è scivolato addosso come se niente fosse, che vorrebbe essere un grande racconto di formazione modellato sulla vita vera e invece è il tipico coming of age costruito a tavolino, solo un po' più lungo, e girato nell'arco di dodici anni.
L'idea è interessante ma non nuova, basti pensare ai vari Up di Almond e Apted o al colossale I bambini di Golzow, quel che è nuovo, o che dovrebbe esserlo, è la sua applicazione ad un'opera di finzione. Ma se nei film di cui sopra l'idea assume un valore anche solo sociologico, qui, per il peso nullo che assume nel film. ha tutto l'aspetto di una nota a margine (o retroscena, visto che parliamo di cinema), un vezzo un po' gratuito che però fa la sua bella figura in locandina. E questo perché parliamo appunto di finzione, di una storia che se scritta, diretta e interpretata in un certo modo dovrebbe, almeno ad un livello epidermico, rapirmi completamente. Dovrebbe quindi risultare vera e credibile per tutta la sua durata, indipendentemente dal modo in cui l'invecchiamento dei personaggi viene rappresentato. Se io spettatore credo che quello sullo schermo sia il personaggio Mason, poiché ben scritto e descritto, che importa se ad interpretarlo è sempre lo stesso attore o attori diversi che si somigliano ? Nulla, almeno durante la fruizione, è un tecnicismo, una parte dell'artificio (di nuovo, se sembra il Texas, che importa se è girato in Nevada ?). E allora a cosa serve ? Considerando il tipo di film che è Boyhood, è lecito pensare che sia un modo per inseguire un certo tipo di realismo (o naturalismo), l'arte che imita la vita, il cinema che insegue e coglie gli attimi nella vita di Mason/Ellar Coltrane (il contrario di ciò che dice Mason, ovvero che gli attimi colgono noi). Il problema di Boyhood però è che di Vita, con i suoi silenzi, i suoi vuoti e le sue routine, ce n'è veramente poca, perché Linklater la relega quasi tutta al fuori campo (salvo rarissimi momenti non sempre riusciti, come quando Mason intravede la violenza domestica senza capirla, o in quei discorsi da adolescente che girano a vuoto), mentre sullo schermo scorrono solamente i momenti fondamentali, cioè quelle situazioni e quei dialoghi che muovono la storia, la risolvono: traumi, liti furiose, traslochi, bei discorsi paterni, compleanni, traguardi importanti... E non può che essere così, perché quella di Mason e famiglia è una vita da film, il classico drammone americano con la madre single che può farcela da sola, ma prima deve incontrare una serie di stronzi, tutti rigorosamente problematici, tutti bevitori incalliti, ma non troppo. Dove il padre è così inguaribilmente cool che guida una Mustang, lavora in Alaska e scrive canzoni. Una vita in cui c'è spazio per la miseria, ma non troppa, ma anche per le iccole rivalse e soprattutto per la cultura (dopotutto è un film di Linklater), e quindi ad un certo punto diventano tutti un po' artisti e intellettuali (di cattivissimo gusto la scena del lavoratore messicano, che di colpo diventa qualcuno solo perché Patricia Arquette gli consiglia di studiare,e lei lo rincontra proprio quando ha bisogno di sapere che è riuscita a fare la differenza), vanno tutti al college, le ragazze sono uno schianto, gli amici sono simpaticissimi, il talento abbonda (ma non troppo, si arriva solo al secondo posto). E alla fine c'è quello scambio di battute conciliante, girato nel luogo più scenografico possibile, come se alla fine di una vita, o di una fase della vita, si potesse mettere un bel punto e tirare le somme. E in quel momento ti accorgi che Boyhood ti è scivolato addosso come se niente fosse, che vorrebbe essere un grande racconto di formazione modellato sulla vita vera e invece è il tipico coming of age costruito a tavolino, solo un po' più lungo, e girato nell'arco di dodici anni.
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