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domenica 9 giugno 2013

Il bianco e il nero #41: I sottogeneri del Noir - Il Docu-noir

Ok, fin qui semplice. Riconoscere un film noir sembra un gioco da ragazzi. Abbiamo capito lo stile, le riprese, gli elementi principali e i suoi protagonisti. Quindi quando manca qualcosa delle cose appena elencate non è un noir, o meglio, magari ne può mancare uno o due ma non di più, giusto? Sbagliato. 
E' ben più complicato di quanto sembra. Per esempio, una sorta di documentario, può essere un noir, un classico film di evasione (letteralmente) lo potrete trovare catalogato sotto noir, idem per certi drammi storici o quei film che hanno tutto per essere dei gialli ma che invece non lo sono. Va bene, l'ho detto, non è semplice -e forse neanche importante, anche io non amo molto catalogare e etichettare- ma nelle prossime puntate cercherò di rendere la nebbia meno fitta analizzando i sottogeneri e dedicando alcuni numeri interi a un film particolare per volta, quelli che mai avreste giurato che sono noir.
Oggi tocca al docu-noir, a metà tra un film e un mockumentario.

Una delle caratteristiche del noir è proprio quella di essere terra terra, realistico, di parlare di cose concrete e reali e quindi di parlare del quotidiano, della società in cui viviamo ogni giorno. Certo il lato oscuro, quello che non vediamo, quello che si nasconde nel sottosuolo, che esce la notte e che si nasconde nei vicoli bui. 
Molto spesso dentro queste pellicole c'è una amara quanto sincera analisi sociologica e antropologica, degna di un documentario. Non è un caso che queste pellicole fossero viste malamente dai benpensanti, quelli dei telefoni bianchi, quelli con la paura dei rossi, quelli che guai criticare la pura e florida America.
E siccome questi erano una buona fetta di pubblico, anche le major (e ne abbiam già parlato) preferivano evitare di fare questi film "scomodi" e dall'incasso incerto e potenzialmente nullo.
Intanto in Europa una certa guerra stava finendo e il cinema tornava a respirare oltre che a far uscire i film realizzati sotto i bombardamenti e in gran segreto. Capolavori come Paisà (1946), Ladri di biciclette (1948), Germania anno zero (1948) e Roma città aperta (1945) raccontavano di un Italia distrutta dal conflitto mondiale e della difficile ripresa e ritorno alla vita normale. Girati con pochi soldi, in esterni -ovviamente impensabile girare negli studios- con attori non professionisti e con tecniche nuovissime, improvvisate, furono i primi grandi mattoncini de il neorealismo.
Quando arrivarono in America furono una piacevolissima scoperta. Si possono fare film, bellissimi, con due lire. Non siamo più schiavi di pubblico e produttori. Dopo l'espressionismo tedesco e il realismo poetico francese, il neonato genere americano viene così influenzato da una nuova corrente, il neorealismo italiano.

I noir cominciarono a distaccarsi dai romanzi, hard boiled e non, e iniziarono ad attingere da fatti di cronaca tratti da giornali, riviste e archivi aperti al pubblico. Le scene girate in studio vennero montate con quelle girate in esterni, nelle grandi città americane. In Chiamate Nord 777, ispirato a un articolo del Chicago Time, si narra la storia dle reporter P.J. McNeal (James Stewart), che tenta di difendere una donna delle pulizie il cui figlio è stato ingiustamente arrestato. Ne La città nuda (1948) il narratore riassume il tono documentaristico nella nota frase "Vi sono otto milioni di storie nella città, ed eccone una".

venerdì 31 agosto 2012

La faida di Joshua Marston

Nelle sale italiane dal 31 agosto.
Bè uscire nel weekend de Il cavaliere oscuro e quello dopo di I mercenari 2 è una sfida impossibile. Un dramma neorealista girato in Albania, già difficilmente riesce a racimolare qualche soldo in periodo di buona, figuriamoci quando la concorrenza non è agguerrita, ma addirittura sleale, visto che porta via un 75% delle sale possibili. Ma immagino che a qualcuno  interessino meno i blockbusters, o li ha già visti, e possa puntare su questo La faida (titolo originale molto meno banale, The forgiveness of blood), soprattutto perchè una visione la merita certamente.
Joshua Marston, americano nato a Los Angeles, regista prettamente televisivo (ha collaborato con le migliori serie tv in circolazione, The good wife, The newsroom, Six feet under, In treatment, per citarne alcune), ci riprova con un film per il cinema a quasi 8 anni dal precedente (e notevole) Maria full of grace.
Se si conosce Marston, non stupisce la sua scelta di trattare, prima, una giovane colombiana trafficante di droga, incinta, e ora di questi teeanger albanesi. Nasce come fotografo per Life a Parigi, poi per la ABC durante la guerra del golfo, diventa inseguito insegnante di inglese a Praga. Viaggiatore, conoscitore del mondo e delle realtà minori, di quei paesi più disagiati o arretrati. Riporta nei suoi film quello che vede, senza orpelli, ne abbellimenti. La cruda realtà dei fatti.

La faida, presentato a Berlino un anno e mezzo fa e prodotto da un trust comprendente anche l'italiano Procacci con la sua Fandango, racconta di Nik, un teenager che frequenta l’ultimo anno di liceo in una cittadina nel nord dell’Albania. Il suo grande sogno, una volta completati gli studi, è quello di aprire un internet point. La sua giornata è suddivisa tra la scuola, un aiuto nei campi al padre e agli zii, un giro in motorino con il suo migliore amico e la corte a compagna di classe. Sua sorella Rudina, più piccola di due anni, coltiva invece l'aspirazione di frequentare un giorno l'univesità. La vita dei due adolescenti, e quella della loro famiglia, è sconvolta da una faida che porta il padre dei ragazzi a uccidere un uomo. Nik e Rudina si ritrovano dunque invischiati in una storia di vendetta. Il rigido regolamento del Kanun, una secolare legge tradizionale albanese, impedisce a tutti i membri maschili della famiglia, compreso il piccolo Bora di appena sette anni, di uscire di casa in segno di rispetto verso la famiglia offesa.
Questa chiusura in casa obbligata dell'intero nucleo familiare (mentre il padre si è dato alla macchia) è un macigno che grava sulla testa di tutti e finirà per dividerli tutti, mettere uno contro l'altro. I membri più piccoli non possono ricevere un'educazione scolastica adeguata, la madre rischia di perdere il lavoro non potendovi recarsi per chissà quanto tempo (purtroppo il suo personaggio viene abbandonato inspiegabilmente), le finanze ne risentono in ogni caso, in quanto saltano gli impegni presi con i commercianti locali, come la consegna del pane, la vendita dei prodotti della terra. L'unica soluzione sarebbe quella di una besa, una tregua, ma il padre dovrebbe consegnarsi alla polizia, nella quale c'è un parente della vittima, quindi non proprio neutrale nel giudizio. Una tregua che però metterebbe l'intera famiglia alla mercè dell'umore della famiglia offesa, che potrebbe revocarla quando vuole e ammazzare chiunque la violi.

Tutto questo a causa di regole medievali in aperto contrasto con la quotidianità dei giovani albanesi fatta di cellulari di ultimo modello, Facebook, progetti futuri all'estero, videogame. Come può un paese simile progredire quando succedono ancora cose simili? Un passaggio è agghiacciante. Viene chiamato un mediatore esperto per scongiurare una faida troppo lunga. L'uomo, autore già di 47 mediazioni, un numero sbalorditivo, ricorda di un'occasione in cui si è trattato per sei anni. Sei anni di chiusura in casa.
E mentre i vecchi saggi di famiglia discutono sul Kanun e sulle regole, il tempo passa. Nik esce di testa, privato degli amici, delle feste, della fidanzata. Il ragazzo sfoga la sua frustrazione e noia imbrattando la casa o nella palestra improvvisata sul tetto. Per lui la cosa è semplicissima: basterebbe parlarsi per risolvere la faida, senza ricorrere a antichi rituali o baggianate varie. Ma il suo buon senso è scambiato per irruenza giovanile. Lo stallo è insormontabile, tanto che nel film non ci sarà una vera e propria conclusione. La fuga è la risposta. 

Riconducibile al neorealismo o ai fratelli Dardenne per rimanere più attuali, è un film dal ritmo lento abile però nel non cadere nel peccato principale di questo genere, il didascalismo o la lacrima facile. Un dramma teso, ben diretto, necessario per spostare i riflettori su un mondo sconosciuto, soprattutto a noi, prima tappa di una gioventù albanese immigrata ancora presente in gran numero. Non da risposte, non cerca morali, racconta e basta, senza romanzare. Senza bisogno di urla, eccessi, eppure capace di raggiungere lo scopo, senza essere dimenticato. Speriamo solo che Marston possa dedicarsi più spesso al grande schermo.