Nel 1940 Charlie Chaplin ne Il grande dittatore, con molto coraggio si permetteva di parodiare e schernire il terribile dittatore tedesco Adolf Hitler. La storia era semplice: un innocuo barbiere connazionale, identico in tutto e per tutto al dittatore Adenoid Hynkel, viene scambiato per esso e davanti all'esercito della Tomania, pronto a invadere l'Ostria, lancia un proclama di amore e pace che interromperà la guerra sul nascere.
A 74 anni di distanza, Sacha Baron Cohen, con umiltà, leva l'aggettivo grande e fa una sorta di remake in tempo di pace. Anche questa volta avviene uno scambio di persona, dopo che il dittatore Aladeen della piccola, ma piena di petrolio, Wadiya, in visita a New York per un discorso alle Nazioni Unite, viene sostituito da un suo sosia, di solito usato in casi di attentato alla sua vita.
Così il sosia, manovrato dal braccio destro del dittatore, Tamir, è pronto a proclamare la democrazia a Wadiya, mandando in fumo i sogni di gloriosa dittatura di Aladeen, il quale si ritrova come commesso in un negozietto vegetariano no profit a Brooklyn. Un suo ex scienziato, che doveva essere in teoria decapitato da tempo in seguito a un suo ordine, lo vuole aiutare a riprendersi il potere e annullare l'instaurazione della democrazia. Ma ci si mette di mezzo anche l'amore (come nel film di Chaplin), riuscrà Aladeen a rimanere fedele al suo sogno?
C'è poco di coraggioso nel nuovo stravagante film di Cohen dato il terribile periodo di forma per i dittatori. Saddam è sparito da tempo, Gheddafi non ha visto l'estate dopo la primavera araba, Moubarak si, ma ora rischia l'ergastolo e comunque è in fin di vita, Chavez ha forse pochi mesi di vita, Kim Jong Il è morto da qualche mese e tutti gli altri minori non se la spassano di certo. Hanno quindi ben altri problemi che preoccuparsi di questa parodia dissacrante del loro life style.
In questa, se vogliamo terza parte della trilogia dell'istrionico attore inglese (Borat e Bruno gli altri) troviamo i tipici elementi distintivi della sua comicità. Prima di tutto lo straniero in america, con annessi problemi linguistici e culturali, poi il rapporto difficile con la donna, la misoginia, infine la provocazione facile e lo scandalo. Una comicità che può sembrare in primis banale e ripetitiva, e secondariamente non necessaria per un attore che ormai ha una certa richiesta (Scorsese, Hooper, Burton), ma tant'è.
Eppure Il dittatore rappresenta un ulteriore passo in avanti rispetto ai due capitoli precedenti. Rimane certamente il rimpianto di non poter godere di molte più gag sulle manie e pazzie del dittatore (come venivano sbandierate nel trailer o come venivano re inscenate in talk show USA o per i festival del mondo), perchè la storia dello scambio di persona avviene subito, diventando la story line principale. Un elemento che forse non era così centrale in precedenza, dove la facevano da padrone siparietti e scenette che spezzettavano e componevano il film.
Parliamo quindi di crescita, non esponenziale sia chiaro, sia di Cohen che del regista Charles, forse aiutati dal veterano McKay qui produttore. Anche se sembra ingiusto dirlo, non è al livello di uno Zohan o non riesce a essere spassoso come un Dittatore dello stato libero di Bananas, ma ruscirà a strappare qualche risata anche al più dubbioso degli spettatori, senza però centrare il bersaglio grosso; ovvero quella provocazione capace di fare imbestialire i protagonisti del film, i dittatori, che anche se in piena salute o scarcerati, avrebbero reagito con un alzata di spalle.
Voto: 5+
Il Monco. (EXTRA: che si trovava a New York mentre lo giravano, ma che non aveva voglia di corrergli dietro).
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