Nelle sale dal 18 ottobre
Terzo film alla regia per Andrew Dominik, che dopo il notevole L'assassinio di Jesse James... si porta dietro un Brad Pitt barbuto e impomatato per adattare il terzo romanzo di George V. Higgins (Cogan's Trade, 1974) modificato quanto basta per inserirlo in un contesto più familiare e significativo, quello della sfida elettorale tra Barack Obama e John MacCain all'ombra di una crisi economica che non risparmia nemmeno il mondo del crimine organizzato (prima che scrittore Higgins è stato avvocato e assistente procuratore nel Massachussets). I romanzi di Higgins sono celebri (più in America che in Italia) per la mole impressionante di dialoghi frizzanti e realistici, tanto che secondo molti hanno influenzato l'inconfondibile stile cinematografico di Quentin Tarantino, e questo Killing them softly fa il possibile per rimanere fedele allo stile dell'opera di riferimento. Ma passiamo alla trama:
Frank (Scott McNairy) e Russell (Ben Mendelsohn), due delinquentelli strafatti e sprovveduti, si accordano con Lo Scoiattolo (Vincent Curatola, perché il cast dei Soprano alimenta il 90% dei crime movie) per rapinare una bisca clandestina ospitata da Markie Trattman (un sempre più gonfio Ray Liotta). L'idea geniale è far ricadere la responsabilità proprio su Markie, che già in passato aveva subito una rapina piuttosto sospetta.
Ma il mondo del crimine organizzato è sempre più simile al consiglio di amministrazione di una grande impresa, e una rapina ad una bisca rappresenta un enorme perdita di capitale, l'economia si ferma e gli investitori perdono fiducia nell'autorità, così i vertici mandano un avvocato (Richard Jenkins) ad assumere qualcuno che faccia pulizia, e visto che il solito assassino non è disponibile si rivolgono a Cogan, uomo con una morale tutta sua che subito annuncia abbastanza didascalicamente “preferisco ammazzarli dolcemente”.
Killing them softly per quanto mi riguarda parte col botto, subito ti mostra questi relitti umani pronti a lanciarsi in un'impresa rischiosissima con la massima leggerezza, calati in una periferia squallida quanto loro, immortalata con colori spenti, giallognoli e desaturati. Poi iniziano a parlare, divagano, si punzecchiano, fanno battutacce e un attimo dopo hanno già programmato tutta la rapina, e il riferimento a Tarantino di cui parlavo prima diventa subito chiaro, anche se nonostante l'ironia di fondo il tono qui mi sembra molto meno spensierato. Dopo arriva la rapina, tesa, rapida ma non frettolosa, c'è tutto il tempo di inquadrare i volti e i gesti di queste vittime che in realtà sono meno spaventate dei rapinatori, forse perché consapevoli che i due pazzi avranno vita breve, o forse perché sono semplicemente abituati a vedere di peggio. E il ritmo è appunto distesissimo, come lungo tutto il film, e va bene così, perché il lavoro di Cogan non è una caccia all'uomo serrata e senza regole, prima di tutto perché il sistema che gli sta dietro si muove a passo di lumaca, tutto deve essere votato e approvato dai vertici, e poi perché lui è metodico, preferisce non mostrarsi mai alle sue vittime, soprattutto a quelle che non conosce, e proprio per questo arriva addirittura a chiedere l'assistenza di un altro killer (James Gandolfini) solo per sistemare una vittima che lo ha già visto in faccia. Quella che doveva essere una risposta rapida ed efficace diventa una lunga pianificazione che dà tutto il tempo alle vittime di godersi il loro malloppo e allo spettatore di osservare questo bizzarro spaccato di vita. I problemi però iniziano proprio qui, perché questo stile così efficace e divertente sta in piedi su una struttura esilissima, e quando la tensione della prima parte svanisce rimangono solo un sacco di dialoghi sconclusionati e un pugno di personaggi che nella maggior parte dei casi sono tagliati con l'accetta. Il personaggio interpretato da Gandolfini è l'esempio perfetto, un assassino attempato che compare in scena solo per annunciare poco elegantemente che non riesce più a svolgere il suo sporco lavoro, perché è tanto depresso e il suo è un mondo tanto difficile. Oppure lo stesso Cogan, che con il suo cinismo un po' troppo posticcio se ne esce con delle frasi ad effetto schiaffate al momento giusto nel posto giusto, tanto per ridestare e conquistare quegli spettatori che si stavano appisolando. E' una conclusione di sicuro effetto certo, ma dopo tutti quei dialoghi più o meno realistici è strano sentire un personaggio così grezzo mettersi a sentenziare su politica, colonialismo e Thomas Jefferson. Ma questo è un problema che riguarda il film nel suo insieme, tutti i riferimenti al contemporaneo vengono semplicemente relegati a qualche linea di dialogo e messi da parte, tanto che il film funzionerebbe perfettamente anche in un contesto completamente diverso. Insomma hanno preso un romanzo degli anni '70 e hanno inserito il 2012 dove hanno trovato spazio.
E poi c'è questa regia insicura che sembra voler compensare la mancanza di ritmo con soluzioni esagerate ed esasperate, come quei cinque minuti di rallenty durante una delle esecuzioni, o quel montaggio frammentario e singhiozzante che ricorre molto spesso, soprattutto durante i deliri da eroina di Russell. Momenti di creatività che purtroppo capitano quasi sempre a sproposito e sembrano più che altro spunti catturati qua e la senza però che si sappia cosa farne veramente. Un'impressione che si riflette anche su tutto il resto, quando quegli scambi di battute così pungenti vengono esasperati a loro volta e si caricano di qualche volgarità di troppo.
Nulla da ridire sul cast invece, anche se per quanto mi riguarda spicca unicamente Ben Mendelsohn, non tanto perché funge da diversivo comico ma perché è di uno sgradevole davvero genuino, soprattutto nell'aspetto. Pitt invece non entusiasma, la sua forza sta tutta nel personaggio, lui si limita a fare i suoi sorrisetti, a grattarsi la fronte col pollice e a far roteare gli occhi.
Per concludere, buono ma non eccezionale, ha un po' il sapore di un'occasione mancata.
Terzo film alla regia per Andrew Dominik, che dopo il notevole L'assassinio di Jesse James... si porta dietro un Brad Pitt barbuto e impomatato per adattare il terzo romanzo di George V. Higgins (Cogan's Trade, 1974) modificato quanto basta per inserirlo in un contesto più familiare e significativo, quello della sfida elettorale tra Barack Obama e John MacCain all'ombra di una crisi economica che non risparmia nemmeno il mondo del crimine organizzato (prima che scrittore Higgins è stato avvocato e assistente procuratore nel Massachussets). I romanzi di Higgins sono celebri (più in America che in Italia) per la mole impressionante di dialoghi frizzanti e realistici, tanto che secondo molti hanno influenzato l'inconfondibile stile cinematografico di Quentin Tarantino, e questo Killing them softly fa il possibile per rimanere fedele allo stile dell'opera di riferimento. Ma passiamo alla trama:
Frank (Scott McNairy) e Russell (Ben Mendelsohn), due delinquentelli strafatti e sprovveduti, si accordano con Lo Scoiattolo (Vincent Curatola, perché il cast dei Soprano alimenta il 90% dei crime movie) per rapinare una bisca clandestina ospitata da Markie Trattman (un sempre più gonfio Ray Liotta). L'idea geniale è far ricadere la responsabilità proprio su Markie, che già in passato aveva subito una rapina piuttosto sospetta.
Ma il mondo del crimine organizzato è sempre più simile al consiglio di amministrazione di una grande impresa, e una rapina ad una bisca rappresenta un enorme perdita di capitale, l'economia si ferma e gli investitori perdono fiducia nell'autorità, così i vertici mandano un avvocato (Richard Jenkins) ad assumere qualcuno che faccia pulizia, e visto che il solito assassino non è disponibile si rivolgono a Cogan, uomo con una morale tutta sua che subito annuncia abbastanza didascalicamente “preferisco ammazzarli dolcemente”.
Killing them softly per quanto mi riguarda parte col botto, subito ti mostra questi relitti umani pronti a lanciarsi in un'impresa rischiosissima con la massima leggerezza, calati in una periferia squallida quanto loro, immortalata con colori spenti, giallognoli e desaturati. Poi iniziano a parlare, divagano, si punzecchiano, fanno battutacce e un attimo dopo hanno già programmato tutta la rapina, e il riferimento a Tarantino di cui parlavo prima diventa subito chiaro, anche se nonostante l'ironia di fondo il tono qui mi sembra molto meno spensierato. Dopo arriva la rapina, tesa, rapida ma non frettolosa, c'è tutto il tempo di inquadrare i volti e i gesti di queste vittime che in realtà sono meno spaventate dei rapinatori, forse perché consapevoli che i due pazzi avranno vita breve, o forse perché sono semplicemente abituati a vedere di peggio. E il ritmo è appunto distesissimo, come lungo tutto il film, e va bene così, perché il lavoro di Cogan non è una caccia all'uomo serrata e senza regole, prima di tutto perché il sistema che gli sta dietro si muove a passo di lumaca, tutto deve essere votato e approvato dai vertici, e poi perché lui è metodico, preferisce non mostrarsi mai alle sue vittime, soprattutto a quelle che non conosce, e proprio per questo arriva addirittura a chiedere l'assistenza di un altro killer (James Gandolfini) solo per sistemare una vittima che lo ha già visto in faccia. Quella che doveva essere una risposta rapida ed efficace diventa una lunga pianificazione che dà tutto il tempo alle vittime di godersi il loro malloppo e allo spettatore di osservare questo bizzarro spaccato di vita. I problemi però iniziano proprio qui, perché questo stile così efficace e divertente sta in piedi su una struttura esilissima, e quando la tensione della prima parte svanisce rimangono solo un sacco di dialoghi sconclusionati e un pugno di personaggi che nella maggior parte dei casi sono tagliati con l'accetta. Il personaggio interpretato da Gandolfini è l'esempio perfetto, un assassino attempato che compare in scena solo per annunciare poco elegantemente che non riesce più a svolgere il suo sporco lavoro, perché è tanto depresso e il suo è un mondo tanto difficile. Oppure lo stesso Cogan, che con il suo cinismo un po' troppo posticcio se ne esce con delle frasi ad effetto schiaffate al momento giusto nel posto giusto, tanto per ridestare e conquistare quegli spettatori che si stavano appisolando. E' una conclusione di sicuro effetto certo, ma dopo tutti quei dialoghi più o meno realistici è strano sentire un personaggio così grezzo mettersi a sentenziare su politica, colonialismo e Thomas Jefferson. Ma questo è un problema che riguarda il film nel suo insieme, tutti i riferimenti al contemporaneo vengono semplicemente relegati a qualche linea di dialogo e messi da parte, tanto che il film funzionerebbe perfettamente anche in un contesto completamente diverso. Insomma hanno preso un romanzo degli anni '70 e hanno inserito il 2012 dove hanno trovato spazio.
E poi c'è questa regia insicura che sembra voler compensare la mancanza di ritmo con soluzioni esagerate ed esasperate, come quei cinque minuti di rallenty durante una delle esecuzioni, o quel montaggio frammentario e singhiozzante che ricorre molto spesso, soprattutto durante i deliri da eroina di Russell. Momenti di creatività che purtroppo capitano quasi sempre a sproposito e sembrano più che altro spunti catturati qua e la senza però che si sappia cosa farne veramente. Un'impressione che si riflette anche su tutto il resto, quando quegli scambi di battute così pungenti vengono esasperati a loro volta e si caricano di qualche volgarità di troppo.
Nulla da ridire sul cast invece, anche se per quanto mi riguarda spicca unicamente Ben Mendelsohn, non tanto perché funge da diversivo comico ma perché è di uno sgradevole davvero genuino, soprattutto nell'aspetto. Pitt invece non entusiasma, la sua forza sta tutta nel personaggio, lui si limita a fare i suoi sorrisetti, a grattarsi la fronte col pollice e a far roteare gli occhi.
Per concludere, buono ma non eccezionale, ha un po' il sapore di un'occasione mancata.
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