Dal 17 ottobre al cinema
In realtà, se non mi hanno informato male, era disponibile solo in un cinema di Roma, e in una versione pesantemente tagliata (115 minuti contro i 159 dell'edizione integrale)
Aggiornamento! Il film verrà messo in programmazione da alcuni cinema di Milano e Bologna, e immagino anche altrove.
Aggiornamento! Il film verrà messo in programmazione da alcuni cinema di Milano e Bologna, e immagino anche altrove.
Nella notte tra il 30 settembre e il 1 ottobre 1965, sei generali indonesiani vengono assassinati dal Movimento 30 Settembre. L'esercito, guidato dal generale Suharto e appoggiato dal presidente Sukarno, attribuisce tutta la responsabilità al Partito Comunista, dando il via ad una purga che porterà all'eliminazione di oltre cinquecentomila comunisti (nel film si parla di un milione).
Questo sterminio metodico viene affidato ai "gangster" (la parola indonesiana è un calco dell'espressione "free men"), piccoli criminali che in poco tempo si organizzano in gruppi paramilitari perfettamente integrati nello stato e nella società.
Joshua Oppenheimer ha descritto il suo film come un "documentary of the imagination", un ossimoro che si presta perfettamente a descrivere la doppia natura di The Act of Killing, continuamente in bilico tra realtà (quindi documentario) e finzione, tra l'atto di uccidere e la sua messa in scena. E anche se il film è tutt'altro che simmetrico e lineare, è come se fosse composto di due metà.
La prima, quella "documentary" o sull'uccidere come atto fisico, è uno straniante affresco dell'Indonesia contemporanea, il punto di arrivo di un percorso cominciato in quel mostruoso1965, una data in cui il tempo sembra essersi fermato. La cinepresa di Oppenheimer (osservatore silenzioso) ci trasporta in un oriente così lontano e incomprensibile che sembra quasi frutto di un'opera di finzione, o una finestra su una dimensione alternativa in cui la Germania nazista ha vinto la guerra e cancellato tutti i crimini dalle coscienze. "La storia la scrivono i vincitori, e noi abbiamo vinto." spiega uno dei carnefici con una naturalezza che toglie il fiato. Se non esiste il crimine, non esiste la colpa, e allora tutto è permesso: il criminale di guerra sguazza nel lusso e viene celebrato come un eroe nazionale. Si candida in politica, riscuote il pizzo e si intrattiene con uomini di governo e belle ragazze (inquietanti alcune analogie con l'Italia). Politica e criminalità infatti sono ormai in perfetta simbiosi, un meccanismo immobile in balia del Pancasila Permuda, organismo paramilitare che raccoglie milioni di persone, tra cui molti carnefici del '65 in pensione.
Questo sterminio metodico viene affidato ai "gangster" (la parola indonesiana è un calco dell'espressione "free men"), piccoli criminali che in poco tempo si organizzano in gruppi paramilitari perfettamente integrati nello stato e nella società.
Joshua Oppenheimer ha descritto il suo film come un "documentary of the imagination", un ossimoro che si presta perfettamente a descrivere la doppia natura di The Act of Killing, continuamente in bilico tra realtà (quindi documentario) e finzione, tra l'atto di uccidere e la sua messa in scena. E anche se il film è tutt'altro che simmetrico e lineare, è come se fosse composto di due metà.
La prima, quella "documentary" o sull'uccidere come atto fisico, è uno straniante affresco dell'Indonesia contemporanea, il punto di arrivo di un percorso cominciato in quel mostruoso1965, una data in cui il tempo sembra essersi fermato. La cinepresa di Oppenheimer (osservatore silenzioso) ci trasporta in un oriente così lontano e incomprensibile che sembra quasi frutto di un'opera di finzione, o una finestra su una dimensione alternativa in cui la Germania nazista ha vinto la guerra e cancellato tutti i crimini dalle coscienze. "La storia la scrivono i vincitori, e noi abbiamo vinto." spiega uno dei carnefici con una naturalezza che toglie il fiato. Se non esiste il crimine, non esiste la colpa, e allora tutto è permesso: il criminale di guerra sguazza nel lusso e viene celebrato come un eroe nazionale. Si candida in politica, riscuote il pizzo e si intrattiene con uomini di governo e belle ragazze (inquietanti alcune analogie con l'Italia). Politica e criminalità infatti sono ormai in perfetta simbiosi, un meccanismo immobile in balia del Pancasila Permuda, organismo paramilitare che raccoglie milioni di persone, tra cui molti carnefici del '65 in pensione.
E il tutto diventa ancora più agghiacciante quando a questi mostri viene dato un volto. Tra i tanti quello di Anwar Congo, vecchietto sdentato che sorride e balla mentre descrive centinaia di omicidi (ha anche inventato metodi per rendere le eliminazioni più efficienti), o che si racconta alla macchina da presa con una leggerezza e un candore quasi insostenibili. E' lui il protagonista del "documentario sull'immaginazione". Un "gangster" che in un modo o nell'altro è sempre stato influenzato (o plasmato ?) dal cinema, quello hollywoodiano prima e quello di propaganda anti-comunista poi, e che adesso, su invito di Oppenheimer, accetta di reinterpretare le scene di tortura di cui era stato protagonista.
La trovata è semplice ma potentissima, i film hanno modellato la sua immagine e ora un film lo spoglia di ogni cosa, ma Oppenheimer si spinge addirittura oltre, e dopo aver permesso ad Anwar di re-inscenare la sua vita, lo spinge a vestire i panni di una delle sue stesse vittime, pochi intensissimi fotogrammi in cui realtà e finzione si confondono ancora una volta, trasformando il cinema in un momento terapeutico di (ingenua) rivelazione. E se in un film come Pane e Fiore di Mohsen Makhmalbaf la rivelazione portava ad un tentativo di riscrivere la storia, qui ci lascia soltanto con il suono insopportabile di mille gole strozzate.
Ammetto di aver vissuto il film con un certo distacco, forse per una forma di reazione alla brutale assurdità delle immagini, quindi preferisco cedere la parola a Werner Herzog (produttore esecutivo insieme a Errol Morris): "I have not seen a film as powerful, surreal, and frightening in at least a decade... it is unprecedented in the history of cinema.".
Farà male, ma dovete vederlo!
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