Nelle sale dal 31 ottobre
(Per ora è presente in pochissime sale, ma stando a quanto dice il distributore nelle prossime settimane il numero dovrebbe aumentare.)
Anche se il regista
dichiara di averci pensato già qualche anno prima, guardando
Blancanieves la mente torna inevitabilmente a The Artist di Michel
Hazanavicius. E una qualche influenza deve esserci sicuramente stata,
anche solo la spinta a cavalcare l'onda e a realizzare una vecchia
idea conservata nel cassetto. Blancanieves di Pablo Berger,
co-produzione belga-franco-spagnola (e chi li ferma gli spagnoli ?),
è un libero adattamento dell'omonima favola dei fratelli Grimm, ma
soprattutto, è un film muto in bianco e nero.
Durante una delle sue
esibizioni, il celeberrimo torero Antonio Villalta si fa distrarre da
un fotografo e finisce incornato. Tra gli spettatori c'è sua moglie,
che dopo aver assistito alla scena inizia ad avere le doglie. Lui
sopravvive ma rimane paralizzato dalla testa in giù, lei muore dando
alla luce Carmen. Distrutto dal dolore, Antonio rifiuta di vedere la
bambina e qualche mese dopo sposa l'infermiera Encarna (Maribel
Verdù, c'è una leggera somiglianza con Berenice Bejo), che per la
piccola Carmen si rivelerà una matrigna perfida e spietata.
L'idea è semplice,
Berger (che è anche sceneggiatore) prende una delle favole per
eccellenza, la trasporta nella spagna dell'iconografia tradizionale e
la mette in scena nel modo più classico possibile, spogliandola del
colore e delle parole. Tornando al paragone iniziale: se il film di
Hazanavicius era soprattutto un'omaggio al cinema muto hollywoodiano,
Blancanieves cerca invece una fusione delle varie correnti
stilistiche europee degli anni '20, dall'espressionismo alle diverse avanguardie
cinematografiche. Il montaggio per esempio procede spesso per
analogie ed echi visivi, creando accostamenti sempre più originali,
oppure viene utilizzato per creare sequenze rapidissime di immagini
appena percepibili, magari per suggerire l'effetto vertiginoso dei
ricordi che riaffiorano, come in La Roue di Abel Gance, citato
apertamente nelle sequenze finali.
Pur trattandosi di un
film muto, anche il suono ha un ruolo fondamentale. La colonna sonora
a base di flamenco di Alfonso de Villalonga dona a Blancanieves uno
stile quasi musicale, come se fosse la musica stessa a dettare il
ritmo delle immagini e del montaggio, per esempio durante le scene di
tauromachia, dove il continuo battimani crea un effetto ipnotico e
straniante.
La storia, nonostante le
molte differenze, è più vicina alla versione tradizionale della
favola che a quella edulcorata della trasposizione Disney. Una
rilettura macabra e grottesca rappresentata perfettamente dalla
figura di Encarna, una regina cattiva (anche se somiglia di più alla
matrigna di Cenerentola) che vive nel lusso e fa la dominatrix con
l'autista, mentre il marito paraplegico vive prigioniero in una stanza. Più
somigliante alla controparte cartoonesca invece la
Blancanieves/Carmen di Macarena Garcia, due occhioni che non
finiscono più incorniciati da una bella chioma corvina, inquadrata
con uno sguardo quasi dreyeriano.
Blancanieves è un film
spigoloso, una di quelle pellicole che si sarebbe tentati di
liquidare come vuoti esercizi di stile, e in fondo non sarebbe
neanche sbagliato, dopotutto è solo il tentativo di raccontare una
storia che appartiene ad un altro tempo con uno stile cinematografico
che appartiene ad un altro tempo. Però a suo modo è anche una
dichiarazione d'amore nei confronti del mezzo cinematografico, un
modo di dimostrare che ancora oggi si può raccontare qualcosa solo
con le immagini, persino una storia ingenua (ma neanche troppo) come
questa. E poi, cosa altrettanto importante, è un'altra lezione di
cinema da un paese che non smette mai di regalare sorprese.
Il film si è portato a casa una decina di premi Goya e diversi altri premi nei principali festival spagnoli.
Il film si è portato a casa una decina di premi Goya e diversi altri premi nei principali festival spagnoli.
complimenti per la recensione, molto bella.
RispondiEliminaGrazie.
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