Nelle sale dal 20 febbraio
All'inizio del trailer italiano del film, tra le frasi lapidarie prese dalle recensioni, ce n'è una surreale di Variety: "Se Django ha aperto la porta, 12 Years a Slave l'ha spalancata." che per quanto possa suonare ridicola, solleva un interrogativo interessante: il film di Tarantino ha effettivamente infranto qualche tabù ? Ha davvero smosso le acque ? O, più semplicemente, Hollywood si è accorta di un'altra gallina dalle uova d'oro ? Qualunque sia la ragione, negli ultimi due anni il cinema americano si è invaghito del tema schiavitù (e affini), prima con Lincoln e Django Unchained, ora con l'orribile The Butler e il film di McQueen. Un invaghimento che va di pari passo con quello per le storie vere, proprio come quella di Solomon Northup (Chiwetel Eljofor), un violinista nato libero che nel 1841 venne rapito con l'inganno e venduto come schiavo in Georgia, dove trascorse 12 anni della sua vita.
Alla sua terza regia, il londinese Steve McQueen si confronta per la prima volta con una grossa produzione e una sceneggiatura non originale, forse il classico tentativo hollywoodiano di adottare (o addomesticare ?) un autore straniero. In questi casi il risultato è quasi sempre un film di compromesso, e 12 Anni Schiavo ne ha tutto l'aspetto fin dalle prime sequenze.
Cinema di compromesso quindi cinema diviso a metà: da un lato c'è il film di Steve McQueen, l'ideale continuazione di un discorso portato avanti attraverso le due opere precedenti, storie di personaggi diversamente prigionieri e diversamente schiavi. Prima Bobby Sands, rinchiuso dietro le sbarre di un carcere e dietro quelle invisibili ma altrettanto concrete della sua condizione politica. Poi troviamo Brandon, il protagonista di Shame, a sua volta prigioniero di una sessualità vissuta in modo esasperato ed esasperante, una vera e propria gabbia che gli impedisce di amare ed essere amato, di liberarsi da una dimensione puramente fisica. E infine Solomon Northup, l'ovvia e naturale prosecuzione (conclusione ?) del discorso, la storia dello schiavo per antonomasia, prigioniero di sbarre e catene non più solo metaforiche.
Tre storie in cui i protagonisti sono prima di tutto i corpi, anatomie che di volta in volta diventano strumenti di protesta, autentiche prigioni, oppure, come nel caso di Solomon, il bersaglio di torture umilianti e dolorosissime. Pagine imbruttite, segnate irrimediabilmente da cicatrici così profonde che chi le porta vorrebbe invocare il perdono di chi gli sta intorno.
All'inizio del trailer italiano del film, tra le frasi lapidarie prese dalle recensioni, ce n'è una surreale di Variety: "Se Django ha aperto la porta, 12 Years a Slave l'ha spalancata." che per quanto possa suonare ridicola, solleva un interrogativo interessante: il film di Tarantino ha effettivamente infranto qualche tabù ? Ha davvero smosso le acque ? O, più semplicemente, Hollywood si è accorta di un'altra gallina dalle uova d'oro ? Qualunque sia la ragione, negli ultimi due anni il cinema americano si è invaghito del tema schiavitù (e affini), prima con Lincoln e Django Unchained, ora con l'orribile The Butler e il film di McQueen. Un invaghimento che va di pari passo con quello per le storie vere, proprio come quella di Solomon Northup (Chiwetel Eljofor), un violinista nato libero che nel 1841 venne rapito con l'inganno e venduto come schiavo in Georgia, dove trascorse 12 anni della sua vita.
Alla sua terza regia, il londinese Steve McQueen si confronta per la prima volta con una grossa produzione e una sceneggiatura non originale, forse il classico tentativo hollywoodiano di adottare (o addomesticare ?) un autore straniero. In questi casi il risultato è quasi sempre un film di compromesso, e 12 Anni Schiavo ne ha tutto l'aspetto fin dalle prime sequenze.
Cinema di compromesso quindi cinema diviso a metà: da un lato c'è il film di Steve McQueen, l'ideale continuazione di un discorso portato avanti attraverso le due opere precedenti, storie di personaggi diversamente prigionieri e diversamente schiavi. Prima Bobby Sands, rinchiuso dietro le sbarre di un carcere e dietro quelle invisibili ma altrettanto concrete della sua condizione politica. Poi troviamo Brandon, il protagonista di Shame, a sua volta prigioniero di una sessualità vissuta in modo esasperato ed esasperante, una vera e propria gabbia che gli impedisce di amare ed essere amato, di liberarsi da una dimensione puramente fisica. E infine Solomon Northup, l'ovvia e naturale prosecuzione (conclusione ?) del discorso, la storia dello schiavo per antonomasia, prigioniero di sbarre e catene non più solo metaforiche.
Tre storie in cui i protagonisti sono prima di tutto i corpi, anatomie che di volta in volta diventano strumenti di protesta, autentiche prigioni, oppure, come nel caso di Solomon, il bersaglio di torture umilianti e dolorosissime. Pagine imbruttite, segnate irrimediabilmente da cicatrici così profonde che chi le porta vorrebbe invocare il perdono di chi gli sta intorno.
Ed è qui che emerge prepotentemente il cinema di McQueen, quando la macchina da presa finalmente si ferma, lasciando parlare i corpi e facendo tacere tutto il resto. In quelle inquadrature lunghe e statiche, eppure eloquentissime, come quella in cui Solomon si risveglia improvvisamente schiavo, riunchiuso in una cella e in un minuscolo quadrato di luce. O ancora, nella terribile scena dell'impiccagione, un piano sequenza di diversi minuti che lascia senza fiato e sembra non terminare mai, una scena in cui a dire tutto sono di nuovo i corpi, quello di Solomon, che cerca disperatamente la terra con le punte dei piedi, e quelli delle bambine che giocano alle sue spalle come se niente fosse, in un contesto in cui l'orrore è all'ordine del giorno.
Purtroppo però c'è l'altra faccia del film, quella che non sembra nemmeno diretta da McQueen. Cinema tipicamente hollywoodiano che emerge spesso e altrettanto prepotentemente, attraverso flashback disseminati qua e là, ma soprattutto attraverso personaggi monolitici, manichei, senza vita o sfumature, figure al limite del grottesco che compaiono e se ne vanno senza lasciare il segno (ad eccezione forse di quello interpretato da Benedict Cumberbatch). I corpi smettono improvvisamente di parlare, ammutoliti da dialoghi e musiche che sottolineano didascalicamente ogni sussulto emotivo.
E poi c'è il chiacchieratissimo finale, esempio da manuale di deus ex machina: l'intervento di un personaggio del tutto fuori posto che come molti altri si limita ad esercitare una semplice funzione narrativa.
Insomma 12 anni schiavo è un film diviso a metà, incapace di conciliare pienamente l'eleganza della messa in scena con la brutalità delle immagini, il cinema per sottrazione di Steve McQueen con quello rumoroso e ingenuo di Hollywood. Un film di compromesso appunto.
Purtroppo però c'è l'altra faccia del film, quella che non sembra nemmeno diretta da McQueen. Cinema tipicamente hollywoodiano che emerge spesso e altrettanto prepotentemente, attraverso flashback disseminati qua e là, ma soprattutto attraverso personaggi monolitici, manichei, senza vita o sfumature, figure al limite del grottesco che compaiono e se ne vanno senza lasciare il segno (ad eccezione forse di quello interpretato da Benedict Cumberbatch). I corpi smettono improvvisamente di parlare, ammutoliti da dialoghi e musiche che sottolineano didascalicamente ogni sussulto emotivo.
E poi c'è il chiacchieratissimo finale, esempio da manuale di deus ex machina: l'intervento di un personaggio del tutto fuori posto che come molti altri si limita ad esercitare una semplice funzione narrativa.
Insomma 12 anni schiavo è un film diviso a metà, incapace di conciliare pienamente l'eleganza della messa in scena con la brutalità delle immagini, il cinema per sottrazione di Steve McQueen con quello rumoroso e ingenuo di Hollywood. Un film di compromesso appunto.
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