mercoledì 15 gennaio 2014

Lo sguardo di Satana - Carrie di Kimberly Peirce

Nelle sale dal 16 gennaio

-We're all sorry about this incident, Cassie.
-It's Carrie!

Ormai è quasi un appuntamento fisso, almeno un paio di volte all'anno mi ritrovo a dover parlare di qualche remake, preferibilmente di un classico dell'horror. Remake che nella stragrande maggioranza dei casi, se non sempre, si confermano degli sterili tentativi di rivendere la stessa storia a una nuova generazione (ma anche agli appassionati come il sottoscritto, che prima gridano la loro indignazione sul web e poi puntualmente ci ricascano, per una strana e inguaribile forma di masochismo). L'unica cosa peggiore di doverli vedere è doverne parlare, forse perché dopo tanti anni e tante visioni si esauriscono i giri di parole, le battutacce e le iperboli, forse perché sono film così poveri di idee che finiscono per prosciugare anche la creatività di chi li guarda. Fatto sta che ci risiamo, ma prendiamola alla larga:

Carrietta N. White nasce nel 1974 dalla pena di un giovane e squattrinato Stephen King, sulle pagine di un racconto breve destinato alla rivista Cavalier (il sesto ad essere scritto e il primo ad essere pubblicato). Come molte creature/creazioni del re del brivido, Carrie si insinua nella mente dell'autore a partire da un fatto realmente accaduto, in questo caso la vita delle studentesse del liceo di Hampden nel Maine (duh!?), dove King insegnava inglese. Ma al re Carrie non piaceva affatto, forse perché era la prima volta che raccontava un punto di vista femminile, o forse perché era un punto di vista particolarmente tormentato, fatto sta che la abbandona dopo poche pagine, finché la Moglie Tabitha, a cui verrà dedicato il romanzo, non lo incoraggia a terminarlo.
Il resto è storia, ma quella di Carrie, purtroppo e per fortuna, non finisce qui. Oltre ad essere il primo successo letterario di King, è anche il primo suo romanzo ad essere trasformato in un film (il primo di molti, ma uno dei pochissimi degni di nota). La regia viene affidata a Brian De Palma, che aveva appena infilato uno dietro l'altro Sisters, Il Fantasma del Palcoscenico e Complessi di colpa, il suo stile quindi era già pienamente consolidato e infatti in Carrie ritroviamo già tutti gli echi hitchcockiani e le geniali intuizioni visive che lo hanno reso grande. Carrie è un successo straordinario, un ulteriore consacrazione per il regista, che due anni dopo tornerà sull'argomento con The Fury, ma anche per Stephen King, che, intascato l'assegno, continuerà a macinare romanzi e a portarli sullo schermo con risultati altalenanti.
Eh si...
Ma nel mondo dell'horror "grande successo" significa quasi sempre "sequel", e Carrie non sfugge all'infausto destino, che però bussa alla porta la bellezza di ventitré anni dopo, con Carrie 2: La Furia (The Rage: Carrie 2, 1999) per la regia di Katt Shea. Il film, che si può tranquillamente considerare un primo remake, racconta la storia di Rachel Bergl, altra liceale emarginata con un padre sparito nel nulla e una madre rinchiusa in manicomio. Al di là della struttura praticamente identica, si tratta
di uno scialbissimo teen drama che incarna il peggio degli anni '90 televisivi e cinematografici. Anche la conclusione non riserva sorprese, e a parte qualche momento splatter la messa in scena è così povera che ci si chiede dove siano finiti i 21 milioni di dollari di budget (mentre quello di De Palma ne costò a malapena due). Da segnalare la presenza di Amy Irving, che torna ad vestire i panni di Sue Snell. Naturalmente è un flop, ma evidentemente non abbastanza grande da scoraggiare altri tentativi. Nel 2002 un certo David Carson dirige Carrie, l'ultimo di molti adattamenti televisivi delle opere di King, più lungo (circa due ore e dieci) e per certi versi molto più fedele al romanzo, che era scritto sotto forma di epistolario e includeva diversi episodi tagliati dal film del '76 per questioni di budget (la famosa pioggia di sassi per esempio), il finale invece, aperto e meno tragico, avrebbe dovuto aprire le porte ad una serie televisiva mai realizzata, o almeno così si vocifera. Questa volta la protagonista è la promettente Angela Bettis già vista in Storia di una capinera di Zeffirelli e in Ragazze Interrotte, che nello stesso anno interpreta un ruolo molto simile nell'ottimo May di Lucky McKee, il piccolo cult che lancerà lei e il regista nel panorama dell'horror indipendente.
Direte voi: perché questa lezione di storia ? Intanto perché nel bene o nel male questi film in Italia sono poco conosciuti, e poi per arrivare ad una premessa che reputo abbastanza importante: Carrie, il film del 2013 che arriva nelle sale italiane domani, è il quarto film sullo stesso personaggio e il terzo remake in meno di quarant'anni. Un lasso di tempo abbastanza breve certo, ma abbastanza lungo da coprire cambiamenti e rivoluzioni piuttosto significative, soprattutto per quanto riguarda il modo di vivere l'adolescenza. Ma di questi cambiamenti nei remake come Carrie non c'è nessuna traccia. Non solo non si può parlare di ri-contestualizzazione dell'opera, ma nemmeno di banalissimo "aggiornamento", perché la modernità, il nuovo, vengono intesi nel significato più ovvio e superficiale del termine. Ed ecco quindi la grande intuizione: l'aggressione nelle docce, la bellissima sequenza che apriva il film di De Palma, viene immortalata con un telefonino e caricata su youtube (un upload sorprendentemente veloce tra l'altro) con conseguenze telefonatissime. Uno dei cliché più sfruttati dal cinema post 2000, ma anche pre, perché la stessa idea con gli stessi identici risvolti veniva già utilizzata in Carrie 2.
A parte questo, le uniche variazioni significative sono un prologo tutt'altro che indispensabile e un epilogo più vicino a quello del romanzo. Per tutto quello che sta nel mezzo si potrebbe tranquillamente parlare di remake shot-by-shot, e non sarebbe affatto un'esagerazione: sequenze riproposte senza la minima variazione, inquadrature identiche e un'infinità di battute citate con ridicola insistenza, il tutto senza il genio di De Palma dietro la macchina da presa. Al suo posto c'è Kimberly Peirce (Boys don't cry), cinquant'anni, due lungometraggi drammatici e nessuna esperienza di cinema di genere. Se nelle scene di vita quotidiana se la cava dignitosamente, in quelle più dinamiche mostra tutti i suoi evidentissimi limiti. Da quando Carrie prende coscienza dei propri poteri, il film prende la patina del peggior cinecomic, con un succedersi di scene in cui la ragazza si esercita nella telecinesi con un'espressione inebetita. Quando poi si tratta di gestire una scena complessa come quella del ballo, ci si limita ad aggiungere sangue e a spaccare tutto. Ma se la sequenza girata da De Palma oggi (forse) mostra il peso degli anni, quella della Pierce, quarant'anni dopo e trenta milioni in più, sembra già vecchia e noiosa.
Non ci crede nemmeno lei.
In sequenze come questa o quella iniziale, ci si rende inevitabilmente conto, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Chloe Moretz con Carrie White non c'entra assolutamente niente. Se faticavo a vedere Sissy Spacek come la bruttina di turno (ma questo è un problema mio), con il suo rimpiazzo l'illusione è assolutamente impossibile, troppo bellina lei e troppo posticcio l'imbruttimento. Sissy Spacek era di una bellezza quasi straniante, una presenza magnetica che turbava lo sguardo fin dalla prima apparizione. Nel finale le bastava rimanere lì, immobile, con una maschera terrificante e le mani contratte come artigli, quasi distante da quello che le avveniva intorno, un rigido corpo/contenitore che sta liberando tutta la sua energia. La Carrie di Chloe Moretz invece volteggia in giro per la stanza, e per farci capire che sta usando i suoi poteri deve agitare le mani e fare smorfie ridicole, e allora capiamo che forse quella di Margareth White era una profezia metacinematografica: "They're all gonna laugh at you."

2 commenti:

  1. "e per farci capire che sta usando i suoi poteri deve agitare le mani e fare smorfie ridicole"

    AHAHAHAHAHAH! No, via, è un Bmovie?

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    1. Ma magari fosse un b-movie, è costato pure un patrimonio.

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