domenica 19 gennaio 2014

C'era una volta a New York di James Gray

Nelle sale dal 16 gennaio

Con gli orrori della guerra alle spalle, a pochi passi dal Paese delle opportunità, due sorelle polacche attendono in fila ad Ellis Island. La tosse di Magda, la più giovane delle due, attira l'attenzione di una guardia, e la ragazza viene ricoverata urgentemente in attesa del rimpatrio. Ewa (Marion Cotillard) rimane sola. Etichettata come "donna di scarsa moralità" per un fatto oscuro avvenuto sulla nave, anche lei si vede rifiutare il visto d'ingresso, ma in suo soccorso arriva l'affascinate Bruno (Joaquin Phoenix), un trafficone ebreo che si innamora di lei e la spinge alla prostituzione per comprare la libertà di Magda.
Anche se desta le solite inevitabili perplessità, il titolo italiano una volta tanto non suona del tutto accidentale: "C'era una volta...", il classico incipit delle grandi storie, quasi certamente un riferimento all'altrettanto classico C'era una volta in America di Sergio Leone. Per certi versi il (sotto)titolo perfetto, perché quello di Gray, e in particolare quello di The Immigrant, è un cinema sospeso nel tempo, profondamente e meravigliosamente neoclassico, di quel neoclassicismo di cui Paul Thomas Anderson è senza dubbio l'esponente più grande.

E un po' come l'Anderson degli ultimi film, Gray, newyorkese di origini russe, scava nel passato del proprio paese (e nel suo), fino alle origini del mito, per demolirlo e scardinarlo con un'eleganza devastante. Usa i toni dell'epica per raccontare una tragica storia di miserabili, una fotografia dalle tonalità calde, quasi seppia, per dipingere una città gelida e inospitale: quell'America tanto sognata, che con il ricatto psicologico di Bruno è diventata una prigione da cui è impossibile evadere, un limbo spesso avvolto nella nebbia, oppure rinchiuso dentro teatrini fumosi e squallidi bordelli. Persino le rarissime scene all'aperto sono come schiacciate da un'insopportabile cappa, l'arco di un ponte, sotto cui Ewa e le altre ragazze di Bruno sono costrette a svendere il proprio corpo, o l'affollamento della strada in quella sublime scena iniziale che sembra rubata da Il Padrino Parte II.
Gray fagocita, rielabora e cita, scruta i suoi personaggi con una regia discreta e asciutta, ricostruisce interni ed esterni con una cura impressionate, tutto nel tentativo di rievocare un cinema che non esiste più, raccontando quelle grandi storie che non vengono più scritte. "Classicismo" cinematografico ma anche letterario quindi, da Dickens a Hawthorne, da Hugo a Scott Fitzgerald, ma soprattutto tanto tanto Kafka, quello di America o Il Processo, delle architetture che schiacciano e della distanza dal divino (Ewa si può considerare una versione al femminile dei vari K.).
E al centro di tutto un classico melodramma, con un altrettanto classico triangolo. Da un lato la colossale figura tragica di Bruno Weiss, violento e beone, innamorato eppure incapace di amare. Più che un orco, il prodotto di un meccanismo inarrestabile. Un sopravvissuto insomma, proprio come Vito Andolini, e come lui segnato da un destino che sembra irreparabilmente segnato. Dall'altro lato Orlando (Jeremy Renner), mago e, nonostante tutto, ancora sognatore. E schiacciata tra i due Ewa, figura quasi cristologica, anche lei nonostante tutto sempre devota e pura. Tre eterni migranti, tre sopravvissuti, tre personaggi feriti capaci di gesti orribili ma anche di enormi atti d'amore.
Un intreccio e una galleria di personaggi che fanno subito tornare in mente il Fellini di La Strada, di cui The Immigrant sembra quasi un rifacimento, o una "migrazione", come se i protagonisti di quella storia fossero sbarcati in una terra se possibile ancora più aspra. Bruno quindi non è altro che uno Zampanò più organizzato, Ewa una Gelsomina (o una Cabiria, come ricordava qualcuno )forse meno ingenua ma non meno candida, mentre Orlando è l'equivalente del Matto, il vero artista destinato a scontrarsi con Bruno per chissà quale motivo.
Se questi vinti si stagliano sullo schermo con la forza di gigantesche figure tragiche, il merito è anche di tre grandissime interpretazioni. Renner se la sbriga bene, anche il suo personaggio risulta inevitabilmente sacrificato, ma con un mostro come Joaquin Phoenix a fianco non poteva essere diversamente. Marion Cotillard invece non si fa rubare la scena, assolutamente magnifica nei momenti più dimessi, ancora meglio quando si abbandona ad una genuina disperazione. Gray ha dichiarato di aver scritto il ruolo e l'intero film apposta per lei, perché ha il fascino e la presenza scenica di una diva del muto, ecco, non potrei essere più d'accordo.
The Immigrant è cinema bellissimo e dolorosissimo, quasi un'apparizione, come un trucco magico e una canzone di Caruso eseguiti davanti a un gruppo di disperati. O come quell'ultima straordinaria scena, che dice tutto con un monologo e un'ultima eloquentissima inquadratura.
Esattamente come l'anno scorso, siamo appena a gennaio e mi sono già innamorato perdutamente di un film, e anche questa volta c'è di mezzo Joaquin Phoenix.

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