Nelle sale dal 7 febbraio.
Il modo peggiore di vendere un prodotto
è renderlo oggetto di feroci pregiudizi e diffidenze: a chi si è
occupato del marketing della trasposizione cinematografica di Warm
Bodies, romanzo scritto da Isaac Marion, deve essere sembrata
un'occasione ghiottissima quella di poterla accostare a un'altra
famigerata trasposizione di grandissimo successo economico quale la
saga di Twilight.
Stesso produttore, la Summit
Entertainment, stesso concept di rielaborazione in chiave romantica
di un mito del cinema horror, perfino l'approvazione dell'autrice
Stephanie Meyer, innamorata del romanzo del collega!
Tuttavia, il rischio di scontentare
tutti è altissimo: i detrattori della saga vampiresca e gli
aficionados dello zombie movie, bene che vada, decideranno
semplicemente di non vederlo, mentre le orde di teenager si
ritroveranno per le mani qualcosa che non è esattamente ciò che gli
era stato promesso.
Perché il pregio più grande di Warm
Bodies è di non essere una copia carbone di Twilight.
La premessa è di quelle che fanno
girare la testa (o qualcosa più in basso) ai fondamentalisti
dell'ultra codificato genere: R è uno zombie che, sebbene non
ricordi il proprio nome, conserva dentro di se un barlume di umanità
e qualcosa che somiglia a un sentimento di rimorso nei confronti
delle proprie pulsioni cannibalesche. Addirittura riesce a
produrre, di tanto in tanto e grazie a enormi sforzi, dei suoni che
sembrano parole. Si ciba del cervello delle proprie vittime per
accedere ai loro ricordi ed avere una parvenza di vita e per non
arrendersi alla propria condizione e diventare come le creature
senz'anima affettuosamente ribattezzate Ossuti.
I pochi sopravvissuti all'apocalisse
vivono barricati in una città fortificata da cui escono in piccoli
gruppi solo per procacciarsi cibo e farmaci. E' durante una di queste
pericolose gite che R divora il cervello di un malcapitato,
acquisendone ricordi e sentimenti e innamorandosi, di conseguenza, della di lui fidanzata, Julie, al punto da
salvarla dall'aggressione del branco e portarla con se. Per Julie
che, essendo da sempre convinta dell'esistenza di una cura
all'epidemia zombie, mal sopporta gli atteggiamenti da gestapo del
padre, capo militare dei sopravvissuti, si presenta l'occasione di
dimostrare la fondatezza delle proprie idee, nonché la possibilità
di rivalsa nei confronti del genitore.
Cosa rendeva Twilight un film orribile?
I sentimenti strillati, le pose
plastiche dei protagonisti, l'atteggiamento irrispettoso nei
confronti del mito del Vampiro, la produzione sciatta e poco curata.
Ma sopratutto la totale assenza di ironia.
Basterebbe dire che Warm Bodies non è
nulla di tutto questo e chiudere la recensione qui, ma scendiamo nel
dettaglio.
Innanzitutto, trattasi di pellicola
fortemente auto ironica che non ha bisogno di stravolgere le caratteristiche dello zombie, facendolo sbrilluccicare alla luce del sole, e che piuttosto scherza sui cliché del mostro, va
detto non sempre in maniera intelligentissima ma concedendosi di tanto
in tanto discese nello slapstick già percorso da altri (Shaun of the
Dead). Essere una creatura
ciondolante e verdognola non è né figo né degno di ambizione, non
conferisce particolari abilità né offre prospettive desiderabili,
anzi è piuttosto una condizione malinconica e degradante dal quale
il protagonista tenta di sollevarsi tramite il più nobile dei
sentimenti. Più Frankenstein che zombie classico, R è una creatura incompresa che anche quando riesce a tenere a freno i propri istinti resta un cadavere dagli occhi vitrei e la bocca sporca del sangue delle proprie vittime; i riferimenti alla tragedia di Romeo e Giulietta sono evidenti, come ogni amore impossibile che si rispetti, e si palesano nei nomi dei protagonisti e in una scena simbolo.
Sorprende la bontà della produzione,
nessun elemento denuncia la ristrettezza di budget (30 milioni di $)
a parte alcuni effetti speciali digitali non esattamente riuscitissimi:
buonissime la fotografia, la colonna sonora (a base di pezzi dei Guns
'n' Roses, Scorpions, Springsteen e Bob Dylan) e, sopratutto, le
scenografie squisitamente desolanti e decadenti; decente la regia di
Jonathan Levine, già autore dell'acclamato 50 e 50, che sebbene si
conceda qualche ridondanza, non è affatto uno sprovveduto
mestierante. Meritano una menzione anche le scelte di casting: se
John Malkovich appare leggermente sprecato nella particina del padre
padrone, i due giovani protagonisti convincono senza riserve,
soprattutto Teresa Palmer. Evidentemente chiamata per la somiglianza
con Kirsten Stewart, fortunatamente ne condivide solo l'aspetto e non
le risibili doti recitative.
Qualcosa però non funziona, se nel già
citato L'alba dei morti dementi l'equilibrio tra i vari registri era
pressoché perfetto, in Warm Bodies spesso e volentieri la parodia e
la love story tendono ad essere preponderanti nei confronti del
dramma e dell'horror (quasi inesistente), conducendo la pellicola verso un finale a tratti accomodante e tutto sommato prevedibile.
Sia chiaro, non si scade mai nella frase fatta stile Baci Perugina
che contraddistingueva ogni singola battuta della saga vampiresca
della Meyer, e considerato il target di riferimento è già tanto, ma
resta un briciolo di rammarico per quello che aveva le potenzialità
(non del tutto inespresse, brillante il ribaltamento di prospettiva e
la scena madre del “sanguinamento”) per essere qualcosa di più
di un buona teen rom-comedy.
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