Bilbo Baggins era uno Hobbit del tutto
rispettabile, passava le giornate ad amministrare casa Baggins in
vicolo cieco, Sottocolle a Hobbiville, a fumare l'erba pipa in
giardino e, cosa più importante, non si era mai cimentato in
un'avventura, almeno fino al giorno in cui lo stregone Gandalf il
Grigio lo coinvolse, spacciandolo per uno scassinatore, nella
riconquista di Erebor, il regno sotto la montagna.
Tredici nani, capeggiati da Thorin
Scudodiquercia, nipote del fu re di Erebor Thrain ed erede al trono,
tenteranno di scacciare il drago Smaug dalla fortezza e riprendersi
ciò che è loro, ma il cammino è lungo e un nemico apparentemente
sconfitto, l'orco pallido Azog, renderanno l'impresa più ardua di
quanto già non sembrasse.
Primo episodio della seconda trilogia
di Peter Jackson basata sulle opere di John Ronald Reuel Toklen, Lo
Hobbit: Un viaggio inaspettato arriva nelle sale tra la curiosità e
lo scetticismo di molti appassionati e della critica di settore: la
divisione in 3 film di un libro di sole 350 pagine circa e
l'integrazione di eventi narrati nelle appendici di altri romanzi
dell'autore hanno destato le perplessità di chi ha istintivamente
intravisto l'ombra di un'operazione commerciale per battere il ferro
finchè caldo, sfruttando fino al midollo lo stratosferico successo
de Il Signore degli Anelli. La tanto decantata innovazione
tecnologica del 3D a 48 fps (frame per secondo Ndr) si è rivelata
una sorta di rivoluzione silenziosa sia per l'esiguità delle sale
con una strumentazione adatta a proiettare il film in questa forma
che per le sensazioni sortite: si è parlato di effetto a là Benny
Hill Show con buffi e repentini aumenti della velocità dell'azione,
al punto che molti ne hanno caldamente sconsigliato la visione.
Purtroppo non posso fornire il responso
di un'esperienza diretta, dato che ho visionato il film in 3D e in 2D
a 24 fps, quindi da questo punto di vista mi limiterò a quanto
appena detto aggiungendo che la stereoscopia “classica” m'è
sembrata, al netto di un paio di giochi prospettici notevoli,
francamente superflua. Era lecito aspettarsi di più da quello che è
considerato insieme a James Cameron uno dei padri del moderno 3D.
Sin dalle prima battute appaiono
immediatamente evidenti le differenze con la trilogia cinematografica
del Signore degli Anelli: i toni si fanno più fiabeschi e pacati,
attenuando, se non smorzando del tutto, quella sensazione di
precarietà e di pericolo che dovrebbero invece scaturire dalla
difficoltà intrinseca dell'impresa disperata della riconquista di
Erebor e degli innumerevoli ostacoli incontrati sul percorso e che
caratterizzavano invece l'avventura della Compagnia dell'anello. Non
che sia un male, anzi, ma qualcuno aspettandosi una continuità con
la sopracitata trilogia potrebbe storcere il naso difronte a momenti
come le canzoni “disneyane” o elementi e personaggi meno solenni
e più ridanciani come lo stregone Radagast.
Solennità che invece è la
caratteristica principe del co-protagonista del film, Thorin
Scudodiquercia, l'erede al trono di Erebor interpretato
magistralmente da Richard Armitage, vero e proprio Re decaduto e
ansioso di riprendersi ciò che è suo di diritto, domina la scena in
collaborazione con il mite Bilbo: l'evoluzione dei due personaggi,
l'iniziale diffidenza e il reciproco avvicinamento, l'esaltante e
rincuorante caldo abbraccio sulle battute finali, sono le vere e
proprie colonne portanti della pellicola, portavoci del sentimento di
amicizia tra diversi che domina la poetica di Tolkien e, di riflesso,
di Peter Jackson.
L'allegra combriccola di nani,
adorabili casinisti instabili capaci di cambiare umore in un istante,
è composta per lo più da caratteri e macchiette, ma va considerato
il gran numero di membri e la natura episodica dell'opera; avranno
spazio nell'arco dei 3 film di esprimere le proprie potenzialità.
Quel che Jackson fa però con grande maestria in questo primo
episodio, e che si manifesta in maniera prorompete in momenti di
grandissima intensità emotiva, è la natura vagabonda della
compagnia: esuli contro la propria volontà, senza patria, costretti
a vagare a vuoto e a barcamenarsi in lavori poco onorevoli, in una
lotta per la sopravvivenza continua affrontata con la stessa grinta
che li porta a cimentarsi in un'avventura impossibile. Non esistono
parole migliori di quelle di Thorin: “Lealtà, onore, un cuore
volenteroso, non posso chiedere di più”. A renderli irresistibili
è la vena malinconica che li caratterizza e che ci regala un paio di
sequenze davvero toccanti.
Tra me e questa pellicola è stato
amore a prima vista, inutile negarlo e nascondersi dietro la patina
del “critico”: hanno ragione molti a criticarne l'eccessiva
lentezza di alcune scene, le lungaggini, il ritmo latitante della
prima metà del film che funge da lungo prologo, la dilatazione dei
tempi non in linea con la concretezza narrativa mostrata in
precedenza da Jackson, ma sono cose che ai miei occhi passano in
secondo piano quando al prezzo di un biglietto del cinema si guadagna
la possibilità di tornare nel fantastico mondo della terra di mezzo
per vivere un'avventura tutto sommato semplice e di buoni sentimenti,
ricca di momenti epici e di personaggi genuini che si muovono in
paesaggi incantevoli, supportati da una colonna sonora, del
sempreverde Howard Shore, che, tra sonorità derivate dalla trilogia
e felicissime varianti dell'imponente canzone nanica Misty Mountains
Cold, al solito suggerisce e sottolinea le emozioni senza mai
imporle.
Ogni tanto si sente il bisogno di
piccole storie dalla morale semplice, dove i buoni sono buoni e i
cattivi sono veramente cattivi, storie che ci insegnano che bisogna
sempre combattere, sopratutto per le cose importanti, anche quando
sono nostre di diritto, e che anche le persone più piccole possono compiere grandi imprese.