The Way Back è un
altro di quei film che si girano tutti i festival in attesa di essere
distribuiti, e quando finalmente trovano un distributore, due anni
dopo in questo caso, arrivano soltanto in una manciata di sale. Un
suicidio commerciale insomma.
Ridendo e
scherzando Peter Weir non si vedeva nei cinema dai tempi di Master
and Commander, nel lontano 2003. Dopo quasi 9 anni, si rifà vivo con
un altro adattamento cinematografico di un libro su cui vale la pena spendere due parole.
The Long Walk esce
nel 1956, è la biografia di Sławomir Rawicz un soldato polacco
accusato di spionaggio e rinchiuso in un gulag siberiano nel 1940.
Secondo il racconto di Rawicz, lui e altri 6 prigionieri, tra cui un
misterioso americano soprannominato Mr. Smith, evasero dal campo di
lavoro e iniziarono una lunga marcia attraverso la Siberia, il
deserto del Gobi e la catena dell'Himalaya per arrivare in Tibet nel
1942. Una passeggiata di 6500 km nei luoghi più inospitali del
pianeta, a piedi e senza provviste, per raggiungere l'unico paese non
comunista e quindi la libertà. Una storia bellissima ma purtroppo
falsa, eh si, perché nel 2006 la BBC raccolse una serie di documenti
che contraddicono alcuni punti fondamentali del racconto di Rawicz, a
quanto pare infatti il polacco venne graziato da un'amnistia nel
1942 e venne trasportato in Iran, dove firmò personalmente molti dei
documenti menzionati sopra. Rawicz scompare nel 2004 e dell'altro
uomo sopravvissuto alla fuga non esistono tracce, quindi nessuno ha
mai potuto confermare o smentire. Ma, c'è un bel ma, nel maggio del
2009 salta fuori Witold Gliński un veterano della seconda guerra
mondiale che dichiara di essere il vero protagonista della lunga
marcia, secondo lui Rawicz è in qualche modo venuto a conoscenza
della storia e se n'è impossessato. Ovviamente anche la versione di
Gliński viene subito messa in discussione e anche in questo caso
vengono individuate varie contraddizioni. Molti poi si chiedono come
mai Gliński si sia fatto avanti così tardi e solo dopo la morte di
Rawicz, e qui la storia si fa ancora una volta misteriosa: Gliński
avrebbe mantenuto il segreto per proteggere uno dei suoi compagni di
viaggio, un assassino che cambiò identità e si rifugiò in
Inghilterra come lui. Qualcuno però ha tirato fuori un'ipotesi
ancora più interessante: Rawicz era in realtà l'assassino sotto
falso nome, arrivato in Inghilterra si impadronì della storia e
minacciò Gliński per non farlo parlare.
Allora perché
Weir decide di trarre un film da un romanzo basato su una menzogna ?
Probabilmente perché è interessato solo alla storia, infatti cambia
nome al protagonista e interviene quanto basta sulla sceneggiatura
per allontanarsi il più possibile dalla fonte. Il titolo stesso, The
Way Back, serve a prendere le distanze dalla storia di Rawicz e a
darle un significato tutto nuovo.
Sulla trama ho già
detto abbastanza e c'è poco da aggiungere, Weir si limita a
immortalare questo esodo interminabile senza orpelli o scossoni, i
protagonisti (tra cui Jim Sturgess, Ed Harris e Colin Farrell) non
hanno tempo di lanciarsi in improbabili monologhi sull'orrore delle
dittature e sull'importanza della libertà, sono troppo impegnati a
spaccare legna e a scavare zolfo nel gelo della Siberia, per cui
senza troppi preamboli colgono l'occasione buona e si lanciano in
questa impresa folle. E non si tratta di una bella avventura o del
solito viaggio da leggersi come metafora di una crescita interiore, è
proprio una scarpinata di 4000 miglia dove il freddo uccide, i denti
cadono, le labbra si spaccano e i piedi si riempiono di piaghe.
Condizioni così ostili che diventa persino impossibile creare un
legame con i propri compagni di viaggio, come ci ricorda il
personaggio di Saoirse Ronan, sia perché ti mancano le forze, sia
perché è sempre vivo il timore che chi ti sta a fianco potrebbe non
superare la notte.
Un film difficile,
130 minuti di situazioni quasi sempre drammatiche o sgradevoli,
eppure sono due ore che scorrono piuttosto in fretta, sarà per il
fascino dell'impresa, o sarà perché non ci si stanca mai di quei
paesaggi ostili quanto meravigliosi (non a caso il film è prodotto
da National Geographic) inquadrati dalla splendida fotografia di
Russell Boyd. Sempre più spesso infatti le piccole figure dei
protagonisti si perdono nei campi lunghi delle fittissime foreste
siberiane o nella desolante orizzontalità del deserto, le distanze
si dilatano e gli uomini si fanno più deboli e insignificanti.
Sembra quasi che lo stesso Weir voglia suggerirci ad ogni
inquadratura che un viaggio del genere in quelle condizioni è
impossibile da compiere, ma in fondo è così affascinante che
vorremmo crederci, un pò come alla storia di Rawicz.
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