Nelle sale dal 30 maggio
Vorrei poter dire "io lo conoscevo
già quando ancora non era famoso!", ma sarebbe una bugia, in
realtà, come molti, ho cominciato a conoscere ed apprezzare Nicolas
Winding Refn soprattutto grazie a Drive. Certo mi ci ero già
avvicinato con Bronson e Valhalla Rising, ma è stata l'ultima sua
fatica a far scoccare definitivamente la scintilla, il film che ha
fatto innamorare praticamente tutti, a partire dal pubblico e dalla
giuria del Festival di Cannes, che nel 2011 lo hanno accolto con una
standing ovation per poi consacrare definitivamente l'autore con il
premio per la miglior regia.
Quest'anno le cose sono andate
abbastanza diversamente, dopo la proiezione di Only god forgives il
pubblico si è diviso tra timidi applausi e qualche sonoro fischio, e Refn non si è portato a casa niente.
Del film se ne parla da mesi, e fino a poco prima dell'uscita era quasi circondato da un alone di leggenda,
alimentato dalle dichiarazioni del regista che lo descriveva di volta
in volta come un film di arti marziali ambientato a Bangkok e come un
omaggio a Se sei vivo spara, spaghetti western diretto da Giulio
Questi. L'unica certezza era che Refn era scappato a Bangkok, un po'
come i suoi personaggi protagonisti:
Julian (Ryan Gosling) e Billy sono
fratelli, americani migrati o forse fuggiti in Thailandia per gestire
una palestra di Thai boxe che funge da copertura ad un vasto traffico
di droga. Una notte Billy si mette sulle strade di Bangkok in cerca
di compagnia femminile, e dopo aver contrattato con una prostituta
minorenne la massacra senza pietà. Il padre della ragazza si
presenta sul posto e lo uccide a sua volta con la complicità del
capo della polizia locale (Vithaya Pansringarm), un uomo che
amministra la giustizia in modo del tutto personale.
L'affronto spinge Crystal (Kristin Scott Thomas), madre di Billy e
Julian, a raggiungere Bangkok per sistemare la cosa, ma le sue decisioni metteranno in moto una catena di vendette
una più sanguinaria dell'altra.
Si può dire che la trasferta Refn
l'abbia presa proprio sul serio, un'occasione per immergere
interamente il film nella cultura locale senza per questo rinunciare
al suo stile ormai inconfondibile. La cosa diventa evidente già a
partire dai titoli di testa bilingui, che scorrono sullo schermo
mettendo ben in evidenza il testo in thailandese e lasciando quello
inglese (o italiano) in secondo piano. L'altro elemento
sfacciatamente asiatico è il tema della vendetta, colonna portante
di una trama che non sfigurerebbe affatto come ipotetico quarto
capitolo della trilogia parkchanwookiana. Una trama esile certo, e
spesso quasi interamente sacrificata ai fini della messa in scena, ma
non per questo meno potente. Solo dio perdona ha il sapore amaro di
una tragedia shakespeariana, una storia di vendette che sono semplici
capricci portati avanti da personaggi volgari e meschini, figure
tutt'altro che colossali, come Julian, protagonista che non sembra
protagonista (e infatti l'agghiacciante Vithaya Pansringarm gli ruba
la scena) succube di una madre padrona con cui intrattiene un
rapporto estremamente morboso, forse la radice di tutti i suoi mali,
dall'inibizione sessuale alla totale apatia, una bomba pronta ad
esplodere che però, contrariamente a quanto avveninva in Drive, non
esplode mai. A spiccare per contrasto sono invece l'implacabile capo
della polizia e la sua congregazione, che segue ogni suo passo in
religioso silenzio e con fare ieratico, persino durante le stranianti
serate al karaoke; una lama infallibile ed inesorabile che pende
sulla testa degli "invasori".
Ma Solo dio perdona è soprattutto
immagine, anzi, la costruzione certosina e meticolosa dell'immagine,
dalla scelta dei più piccoli elementi scenografici al loro
inserimento all'interno della scena: gli oggetti dell'arredamento, i
vestiti (meravoglioso quello a tema floreale di Kristin Scott Thomas)
e le luci, che si impongono prepotentemente su tutto fino ad
alterarne l'aspetto. Si potrebbe parlare di meravigliosi quadri in
movimento, ma Refn il movimento lo rallenta fino a renderlo
impercettibile, sia all'interno della scena stessa (persino i
movimenti degli attori), sia nella regia, che si riduce tutta ad una
serie di lenti carrelli e lunghe zoomate (tornano in mente quelle di
Fear X sulla testa di Turturro) con cui ci fa sprofondare
inesorabilmente in un intrigo senza via d'uscita e dentro queste
sfarzose stanze di plastica dove anche le persone sembrano parte
della mobilia.
Nella stessa direzione agisce la
colonna sonora, sempre del fenomenale Cliff Martinez ma questa volta composta
quasi interamente di brani originali, musiche elettroniche sempre più
martellanti e ipnotiche che accompagnano perfettamente i languidi
movimenti della macchina da presa.
Ancora una volta Refn riesce a posare
una patina quasi accecante su un universo squallido e senza speranza,
a rendere travolgentemente bello anche il più cruento degli
sembramenti o la più squallida delle topaie (assolutamente poderosa la scena
nell'officina con il bambino), ancora una volta insomma riesce a
raccontare tutta la poesia della violenza. E se l'insieme può
lasciare freddi e distaccati, è anche perché quello raccontato è
un mondo con cui è impossibile concilarsi, soprattutto se a
popolarlo sono personaggi marci fino all'osso come quelli che
circondano Julian. L'unica cosa da fare è osservare inorriditi e
meravigliati, come stranieri in una terra straniera.
Uno dei migliori film dell'anno.
Uno dei migliori film dell'anno.
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