-Mary
Queen of Scots di Thomas Imbach
Concorso
Internazionale
Thomas
Imbach, che proprio a Locarno esordì con il suo primo
lungometraggio, torna al Festival per presentare il suo primo film in
lingua inglese: Mary Queen of Scots, libero adattamento della
biografia di Stefan Zweig.
Mary
Stuart (Camille Rutherford, già vista in Il treno per il
Darjeeling), regina di Scozia a soli sei anni, viene inviata in
Francia per essere educata alla corte di Caterina de' Medici. Appena
adolescente sposa il legittimo erede al trono francese diventando
anche la futura regina di Francia, ma il ragazzo muore in un
incidente di caccia e Mary è costretta a fare ritorno in Scozia, un
regno devastato dalla guerra sull'orlo di un nuovo conflitto contro
l'Inghilterra protestante.
Biografie
di personaggi femminili e film in costume sono quasi sempre
un'accoppiata vincente, e quasi sempre generano un numero più o meno
grande di cloni perfettamente anonimi. La differenza in questi casi
la fa l'occhio del regista, e Thomas Imbach a fare qualcosa di
diverso ci prova, a partire dalla scelta del personaggio in
questione, Maria Stuarda, una figura storica forse meno ovvia e
soprattutto meno sfruttata dal mondo del cinema, al contrario per
esempio della sua "nemesi" Elisabetta I. E proprio su
questa scelta Imbach riesce a costruire un film leggermente meno
convenzionale, in cui la regalità diventa quasi una claustrofobica
prigione intorno ai personaggi, un mondo irreparabilmente grigio che
si chiude intorno a Mary molto prima della sua vera prigionia durata
diciannove anni.
La
Scozia offre quindi lo sfondo perfetto per ospitare questa sorta di
purgatorio in terra, una distesa dura e inospitale dominata soltanto
dalla natura selvaggia e da qualche isolato castello, residenze
spartane lontanissime da quelle dell'iconografia classica dei film in
costume, quasi delle spettrali rovine infestate dalle sagome nere dei
nobili cattolici.
Più horror che film in costume, Mary Queen of Scots racconta l'inevitabile destino della sua protagonista soprattutto attraverso le immagini, quelle di un mondo dove la luce non penetra mai, esattamente come non compare mai il personaggio di Elisabetta, l'eterna assente, destinataria di centinaia di lettere che non incontrano mai risposta. Peccato per una narrazione troppo sterile e convenzionale, appesantita da una certa frammentarietà.
Più horror che film in costume, Mary Queen of Scots racconta l'inevitabile destino della sua protagonista soprattutto attraverso le immagini, quelle di un mondo dove la luce non penetra mai, esattamente come non compare mai il personaggio di Elisabetta, l'eterna assente, destinataria di centinaia di lettere che non incontrano mai risposta. Peccato per una narrazione troppo sterile e convenzionale, appesantita da una certa frammentarietà.
-Shu
jia zuo ye (A time in Quchi) di Tso-chi Chang
Concorso
Internazionale
Il
taiwanese Tso-chi Chiang, già collaboratore di Hou Hsiao-hsien e
Tsui Hark, dirige e produce una delicata storia di amicizia
ambientata nella periferia di Taipei: nella pausa alla fine del
semestre scolastico, il piccolo Bao viene inviato a Quchi, in aperta
campagna, per trascorrere le vacanze in compagnia del nonno rimasto
vedovo. Trascurato dai genitori, Bao è diventato autonomo quanto
asociale, perennemente imbronciato e scontroso con tutti, ma l'amore
del nonno e la gente di Quchi riusciranno a infrangere la corazza.
Shu
jia zuo ye è uno di quei piccoli film che riescono a riportare un
po' di sana semplicità tra i tanti film ambiziosi di un Festival, un
racconto di formazione dalla struttura piuttosto classica raccontato
con un taglio molto realistico, ai limiti del documentaristico, con
una macchina da presa che si limita a spiare nel modo più statico
possibile i momenti quotidiani di una piccola comunità, immortalando
anche eventi "fuori copione" come una terribile
inondazione.
Semplice
ma non banale, perché Tso-chi Chiang lascia parlare le immagini in
modo intelligente, senza sottolineare gli sviluppi della storia con
inutili didascalismi. Molto bella per esempio tutta la sequenza
iniziale in cui Bao viene accompagnato in macchina a casa del nonno,
un viaggio lungo e silenzioso in cui il bambino e l'autista si
limitano a qualche scambio di sguardi. Viene naturale pensare che
l'uomo sia un taxista, ma subito dopo scopriamo che è il padre di
Bao.
Una
bella storia che funziona soprattutto grazie alle interpretazioni,
quella sopra le righe del nonno e quella di Bao, che, come ha
giustamente sottolineato Carlo Chatrian, "regge sulle sue spalle
piccole ma forti un intero film".
-Real
di Kiyoshi Kurosawa
Concorso
Internazionale
Ci
voleva il giapponese Kiyoshi Kurosawa (Kairo, Cure, Tokyo Sonata) per
portare il cinema di genere al Festival di Locarno, peccato che il
risultato lasci molto a desiderare.
Un
breve incipit ci mostra la vita di una classica coppietta felice. I
due si giurano eterno amore, poi la scena si sposta avanti di un
anno: lei, Atsumi, disegnatrice di manga ossessionata dalle scadenze,
è finita in coma dopo un tentativo di suicidio, lui, Koichi, tenta
di risvegliarla attraverso il "sensing" una terapia che
permette di entrare nel subconscio di un altro (Paprika, The Cell,
Inception...). La terapia sembra avere successo, ma man mano che
Koichi si spinge oltre nella mente di Atsumi, delle strane
allucinazioni cominciano a tormentarlo nella realtà.
I
viaggi all'interno della psiche o del sogno sono sempre una premessa
estremamente intrigante, soprattutto quando l'elemento
fantascientifico è un semplice pretesto per parlare di altro
sfruttando il più possibile l'ambientazione surreale. Real sembra
voler imboccare questa direzione, ma Kurosawa (regista e
sceneggiatore) non è per niente sicuro del fatto suo, e infatti
tutto il primo tempo galleggia a metà tra i toni di un thriller
psicologico e quelli di un horror di bassa lega, con entità varie
che ogni tanto fanno capolino da qualche lato dell'inquadratura. Poi
nel secondo tempo si passa dal thriller al dramma psicologico e la
situazione precipita irrimediabilmente, Kurosawa comincia ad
indugiare senza pietà su una serie di colpi di scena telefonatissimi
e la trama procede ad un ritmo esasperante verso la più prevedibile
delle conclusioni, tra brutali forzature, una computer grafica
scadente e una serie di finti finali infilati uno dietro l'altro per
prolungare l'agonia.
Uno
dei peggiori film del Festival, noioso, poco originale e criminalmente piatto da ogni punto di vista.
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