venerdì 31 agosto 2012

Filmbuster(d)s - Episodio #11

Finalmente l'estate avara di uscite cinematografiche rilevanti è finita. Ad inaugurare la nuova stagione ci pensa l'ultimo episodio della trilogia dell'uomo pipistrello di Christopher Nolan, Il Cavaliere Oscuro - Il Ritorno. Episodio speciale di Filmbuster(d)s interamente dedicato alla pellicola in questione, con news, recensione e un'intervista scomoda di David Cronenberg.

Nell'11° episodio di Filmbuster(d)s:

[00:04:45]Cronenberg VS Comic Movie
[00:25:45]Il Cavaliere Oscuro - Il Ritorno
[01:15:30]Justice League e reboot Batman







Potete ascoltare l'episodio al link diretto al file MP3 (per scaricarlo basta cliccare col destro e poi "Salva link con nome"): Clicca qui

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Arirang di Kim Ki-duk

Questa non vuole essere una recensione classica. Nasce come un commento a caldo, riflessioni varie post visione butate giù alla bene e meglio. 

Arirang è un ottovolante e in quanto tale può provocare nausea e vomito oppure eccitazione e meraviglia. Ma soprattutto ha fasi ottime alternate al nulla, e idee anche geniali a errori di fondo.
 Allora, Kim Ki-duk a me continua a piacere, anche dopo gli ultimi lavori, perchè no. Si ripete? Può darsi, ma non vedo, per ora, un vero problema. Proprio in occasione di uno degli utlimi film, l'ultimo esattamente, Dreams, un'attrice è stata quasi realmente impiccata ma lui è riuscito a salvarla in tempo. Era regista-sceneggiatore-produttore. Triplice colpa in caso di morte. Idea, attuazione, produzione. L'attrice, invece, non si ricorda neanche più cosa sia successo. E invece lui ci è rimasto sotto, tanto da finire a vivere in una tenda dentro a una catapecchia nel be mezzo del nulla della campagna koreana per tre anni, fino al 2011.
Si ritrova incapace di scrivere, realizzare nuovi film, incapace di capire quello che stava dicendo o pensando. Prima faceva film a nastro, appena finita la produzione di uno già scriveva il successivo. Ma adesso è bloccato. Questo è il film. Lui stesso e basta, come attore/i, regista, scenografo, elettricista, truccatore e tutto il resto.

Ci sono 4 Kim Ki-duk, come fossero a matrioska. 1) quello depresso, che parla di quanto è successo e di chi è diventato ora. 2) quello spontaneo che lo attacca e che gli fa un intervista dove lo esorta a tornare al lavoro 3) quello esterno che rivedendosi, nello sfogo con se stesso, ride, e quando rivede i suoi film piange 4) la sua ombra, più pacata del Ki-duk spontaneo.
 Ci sono dei pro e dei contro in Arirang, come dicevo. Innazitutto è l'opera essenziale per capire e comprendere il regista, e allo stesso tempo è la più inutile. Poi ci arrivo.
 Il cinema è terapia. Ci aiuta a vivere meglio e a volte a stare meglio. L'urlo straziato di Ki-duk, Arirang Arirang Ariyo, chiede una cura e può trovarla solo nel suo mezzo espressivo. Si mette a nudo davanti alla sua arma, la cinepresa, e si fa un autoanalisi massacrante per potersi ricostruire piano piano. L'unico modo per tornare a fare cinema e diventare cinema. Kim Ki-duk diventa un film di Kim Ki-duk. Lontano dai suoi personaggi, per sua stessa ammissione, viene ingoiato dalle sue storie.
Primo risultato: non ha finito quello che ha da dire. Secondo: sfogarsi con tutti; fans, produttori, festivals, la Korea e i politici. Buttare fuori tutto, puntare il dito su chi l'ha tradito e chi gli ha voltato le spalle, e su chi lo incensa inutilmente. Perchè un premio, un onorificenza non ti cambiano la vita. Neache fare film, film belli o brutti. Terzo risultato: prendere coscienza di quello che si è e quello che si è fatto.
 Va bene, va tutto bene. Amo questo artista e mi sta bene pendere dalle sue labbra, capire che cos'ha, aiutarlo a curarsi, dargli una mano. Quello che mi chiedo però è: era necessario? La gente scrive libri, quando vuole far sapere al mondo di aver avuto un periodo nero e di come ne sia uscita. Alcuni fanno canzoni, altri film (Kitano, Von Trier). Qualcosa li spinge inesorabilmente a dire a tutti che ne sono usciti. Non mi voglio lamentare di questo, ognuno faccia quello che vuole per carità, ma lo trovo forzato e pomposo, soprattutto quando non è un film/canzone/libro girato/cantato/scritto in modalità depressione ON, ma un documentario su stessi. Finchè fai una trilogia -autodistruttiva- sul tuo blocco creativo (Kitano) o sul tuo status attuale e il rapporto con le donne (Von Trier), lo posso capire. Qundo te la canti e te la suoni, ti autoriprendi, ti auto intervisti, ti auto tutto, non ci intravedo un senso. E' solo uno sfogo di nervi, di cui, io e lo spettatore, ne facciamo a meno e non perchè siamo brutti e insensibili, ma perchè allora tutti dovremmo farlo, e lo facciamo, privatamente, e non in piazza. Eh ma sono artisti. 

 Mi sto perdendo, e mi sono perso. Urge spiegazione. La cosa peggiore di Arirang è che è finto. Abbiamo un uomo che attraversa una crisi e ne vuole uscire. Sceglie il mezzo, il suo lavoro. Sceglie il modo, il documentario privato. Discutibili ma è quello che è, allora, però, sii fedele a quello che vuoi fare.
 Una confessione senza filtri e senza teatralità. Dici quello che devi, ne fai un film perchè qualcuno te lo produrrà o lo fai da solo, ma quello è quello che è. E invece Ki-duk deve metterla in maniera drammatica, e lo fa notare anche ("Si prima ho pianto, forse l'ho fatto per drammatizzare").
 Il montaggio, le riprese a camera ferma e a mano, gli inserti (Ki-duk sulla ruspa. Adesso posso morire contento), il duetto con se stesso (Tolleranza Zoro). Lo rendono totalmente finto. Prima dice che non c'è struttura, e non ci sono titoli-credits, e musiche, poi però tiri fuori queste cose, chiaramente pianificate. Un pò, sempre rimanendo in tema Von Trier, quello che dicono e poi fanno con il Dogma 95. Fai una cosa intimista e sperimentale, la accetto, poteva benissimo essere una intervista e basta, e però ci metti della finzione che mi isola da te, si frappone tra noi. C'è un filtro di mezzo, lo schermo e non dovrebbe, stavolta. Quando grida contro i fans e li chiama figli di puttana, è falso. Quando piange, è falso. Quando grida distrutto, è falso. Non è falso, ma lo è. E' falso perchè è cinematografico. C'è un idea, ci sono riprese fatte apposta, perchè c'è dietro un intenzione di piazzarle poi qui o là, all'interno del film/documentario. Dov'è quindi la spontaneità, la naturalezza, lo sfogo perde sincerità.

Ma non è che ci ha trollato? Il dubbio si insinua.
Occhio però. Non voglio bocciarlo. E' molto interessante, molto più di tantissimi esperimenti o cazzate spacciate per artistiche. Solo che sbaglia modo. L'esempio è stupido ma mi viene questo; è come voler fare uno pseudo mokumentario camera a mano sul Rio delle amazzoni ma renderlo irrealistico, con riprese perfette e miliardi di telecamer (The river? no no). Può piacere, può venir fuori bene, ma è strafinto. Ogni cinque minuti, lo spettatore ritorna nella realtà, continua a pensare che tutto ciò è una fiction e non dovrebbe essere cos' orco can! Qui è identico. Il montaggio uccide tutto. Youtube amatoriale, vero. Aggiungi montaggio, finto. Godard avrebbe fatto una intervista a camera fissa di 4 ore con lui che blatera. Ecco, serviva quella radicalità, quell'estremismo. Ma Godard è uno stronzo, e gli stronzi non cadono mai in depressione.
Chiudo. Hai fatto un film per farci sapere che; sei stato in una tenda, shockato, per 3 anni, ora ne sei uscito; hai sentito il peso di fans urlanti e scalcianti che hanno rotto le palle per un nuovo film e che magari ti hanno voltato le spalle e che magari ti hanno criticato ma loro volevano uno dei tuoi "film grezzi e veloci, a ciclo continuo". Bene, evviva ora sei guarito.
Magari queste cose colpissero ben altri autori (Miike per dirne uno).
Diagnosi: Kim Ki-duk è un compiaciuto bastardo, forse ha sofferto davvero, ma è passata. Prognosi: sta benissimo, è già a Venezia con uno dei suoi film classici.

Se si perdona Arirang a lui, si perdona questo post a me.

La faida di Joshua Marston

Nelle sale italiane dal 31 agosto.
Bè uscire nel weekend de Il cavaliere oscuro e quello dopo di I mercenari 2 è una sfida impossibile. Un dramma neorealista girato in Albania, già difficilmente riesce a racimolare qualche soldo in periodo di buona, figuriamoci quando la concorrenza non è agguerrita, ma addirittura sleale, visto che porta via un 75% delle sale possibili. Ma immagino che a qualcuno  interessino meno i blockbusters, o li ha già visti, e possa puntare su questo La faida (titolo originale molto meno banale, The forgiveness of blood), soprattutto perchè una visione la merita certamente.
Joshua Marston, americano nato a Los Angeles, regista prettamente televisivo (ha collaborato con le migliori serie tv in circolazione, The good wife, The newsroom, Six feet under, In treatment, per citarne alcune), ci riprova con un film per il cinema a quasi 8 anni dal precedente (e notevole) Maria full of grace.
Se si conosce Marston, non stupisce la sua scelta di trattare, prima, una giovane colombiana trafficante di droga, incinta, e ora di questi teeanger albanesi. Nasce come fotografo per Life a Parigi, poi per la ABC durante la guerra del golfo, diventa inseguito insegnante di inglese a Praga. Viaggiatore, conoscitore del mondo e delle realtà minori, di quei paesi più disagiati o arretrati. Riporta nei suoi film quello che vede, senza orpelli, ne abbellimenti. La cruda realtà dei fatti.

La faida, presentato a Berlino un anno e mezzo fa e prodotto da un trust comprendente anche l'italiano Procacci con la sua Fandango, racconta di Nik, un teenager che frequenta l’ultimo anno di liceo in una cittadina nel nord dell’Albania. Il suo grande sogno, una volta completati gli studi, è quello di aprire un internet point. La sua giornata è suddivisa tra la scuola, un aiuto nei campi al padre e agli zii, un giro in motorino con il suo migliore amico e la corte a compagna di classe. Sua sorella Rudina, più piccola di due anni, coltiva invece l'aspirazione di frequentare un giorno l'univesità. La vita dei due adolescenti, e quella della loro famiglia, è sconvolta da una faida che porta il padre dei ragazzi a uccidere un uomo. Nik e Rudina si ritrovano dunque invischiati in una storia di vendetta. Il rigido regolamento del Kanun, una secolare legge tradizionale albanese, impedisce a tutti i membri maschili della famiglia, compreso il piccolo Bora di appena sette anni, di uscire di casa in segno di rispetto verso la famiglia offesa.
Questa chiusura in casa obbligata dell'intero nucleo familiare (mentre il padre si è dato alla macchia) è un macigno che grava sulla testa di tutti e finirà per dividerli tutti, mettere uno contro l'altro. I membri più piccoli non possono ricevere un'educazione scolastica adeguata, la madre rischia di perdere il lavoro non potendovi recarsi per chissà quanto tempo (purtroppo il suo personaggio viene abbandonato inspiegabilmente), le finanze ne risentono in ogni caso, in quanto saltano gli impegni presi con i commercianti locali, come la consegna del pane, la vendita dei prodotti della terra. L'unica soluzione sarebbe quella di una besa, una tregua, ma il padre dovrebbe consegnarsi alla polizia, nella quale c'è un parente della vittima, quindi non proprio neutrale nel giudizio. Una tregua che però metterebbe l'intera famiglia alla mercè dell'umore della famiglia offesa, che potrebbe revocarla quando vuole e ammazzare chiunque la violi.

Tutto questo a causa di regole medievali in aperto contrasto con la quotidianità dei giovani albanesi fatta di cellulari di ultimo modello, Facebook, progetti futuri all'estero, videogame. Come può un paese simile progredire quando succedono ancora cose simili? Un passaggio è agghiacciante. Viene chiamato un mediatore esperto per scongiurare una faida troppo lunga. L'uomo, autore già di 47 mediazioni, un numero sbalorditivo, ricorda di un'occasione in cui si è trattato per sei anni. Sei anni di chiusura in casa.
E mentre i vecchi saggi di famiglia discutono sul Kanun e sulle regole, il tempo passa. Nik esce di testa, privato degli amici, delle feste, della fidanzata. Il ragazzo sfoga la sua frustrazione e noia imbrattando la casa o nella palestra improvvisata sul tetto. Per lui la cosa è semplicissima: basterebbe parlarsi per risolvere la faida, senza ricorrere a antichi rituali o baggianate varie. Ma il suo buon senso è scambiato per irruenza giovanile. Lo stallo è insormontabile, tanto che nel film non ci sarà una vera e propria conclusione. La fuga è la risposta. 

Riconducibile al neorealismo o ai fratelli Dardenne per rimanere più attuali, è un film dal ritmo lento abile però nel non cadere nel peccato principale di questo genere, il didascalismo o la lacrima facile. Un dramma teso, ben diretto, necessario per spostare i riflettori su un mondo sconosciuto, soprattutto a noi, prima tappa di una gioventù albanese immigrata ancora presente in gran numero. Non da risposte, non cerca morali, racconta e basta, senza romanzare. Senza bisogno di urla, eccessi, eppure capace di raggiungere lo scopo, senza essere dimenticato. Speriamo solo che Marston possa dedicarsi più spesso al grande schermo. 

lunedì 27 agosto 2012

Il bianco e il nero #11: Frances Farmer, la ribelle

"She'll come back as fire, to burn all the liars, and leave a blanket of ash on the ground" Nirvana - Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle.

Ai più questo nome non dirà assolutamente nulla. A pochi, fans di una nota band grunge di Seattle, dirà qualcosina. A pochissimi verrà in mente quell'attrice degli anni 30-40 con pochissimi ruoli al cinema e alla cui vita venne dedicato un film nel 1982 con una strepitosa Jessica Lange, intitolato appunto Frances.
E allora perchè parlarne o dedicarle un intero numero? Perchè lei e non tante altre? Perchè anche se nessuno la conosce, come fosse passata sotto una damnatio memoriae, ha avuto una vita tipica da diva hollywoodiana. Un inizio in giovane età sfolgorante, tanti ammiratori per tutta l'America, una carriera anche a teatro, a Broadway, diversi matrimoni, problemi con la droga e l'alcolismo, un accusa di essere comunista, un internamento a base di elettroshock e un grande tentativo di ritorno, seppur per poco tempo, causa morte prematura. 
Per molte attrici la carriera raggiunge il suo apice quando arrivi a Hollywood e li diventi famosa. Eppure per lei era tutto il contrario. Incapace di stare alle regole impostele, di comportarsi sempre in maniera politically correct o di badare a quello che la gente può pensare. Un breve e sentito ricordo di una donna protagonista di una tragedia continua, la sua vita. 

La prima volta che passa agli "onori" della cronaca è il 1931, quando, 16enne, partecipa a un concorso  letterario indetto dalla sua scuola e si aggiudica il premio di ben 100 dollari. Vince con il suo "God dies" in cui afferma che Dio è inutile in quanto morto, un testo profondamente influenzato da Nietzsche, una delle sue letture preferite. In seguito a attacchi e insulti, minacce, risponde di non essere atea, ma bensì agnostica e di aver scritto tutto di proprio pugno, senza che qualche anarchico, o peggio, le abbia dettato cosa scrivere. I campagnoli non capiscono la differenza e continuano a augurarle un viaggio pagato all'inferno. Solo i genitori supportano la sua particolare visione del mondo e la sua indipendenza.
Siccome siamo in un forte clima di paura per il sovietico, mai del tutto svanita in America, il collegamento atea = comunista viene fatto velocemente, supportato dall'amicizia del padre di Frances, un avvocato di basso profilo, con un certo Kaminski, leader di qualche gruppo, non sovversivo, sinistroide locale e la successiva amicizia di Frances con Harry York, un militante.
Ma questo è un piccolo legame che verrà ingigantito in seguito. Per pagarsi l'università si trova ben tre lavori. Maschera al cinema, cameriera e contadina. Frequenta quindi la University of Washington, dipartimento artistico, recitazione più precisamente. Si appassiona al teatro e soprattutto agli autori russi. Nella piece Zio Vanya è la più applaudita.
Ancora una volta, partecipa e vince un concorso, questa volta indetto da un giornale di sinistra, The Voice of Action il cui premio è un viaggio a Mosca. Non vede l'ora di andarci, di visitare soprattutto il Teatro d'Arte Moscovita e al ritorno di fermarsi a New York, per sempre, e calcare i palcoscenici di Broadway. I suoi intenti sono quindi ben lontani da un volontario indottrinamento in madre Russia.
La madre si oppone tenacemente. Un conto è una vaga accusa di comunsimo e un conto è addirittura essere felici di andare dai sovietici, in casa loro, con il rischio di non tornare più. Non serve a frenarla, è già in volo.

sabato 25 agosto 2012

L'immondo profondo #11: FrightFest 2012

Proprio mentre sto scrivendo, dal 23 al 27 agosto per la precisione, a Londra si sta svolgendo l'annuale Fright Fest, un festival giunto ormai alla sua tredicesima edizione che propone e ripropone nell'arco di pochi giorni le pellicole horror più interessanti dell'anno.
Ne approfitto quindi per fare una breve panoramica su tutti i filmazzi horror in proiezione, i titoli interessanti come al solito non mancano e quest'anno noi italiani siamo più o meno degnamente rappresentati:

Il 23 agosto il festival si è aperto con The Seasoning House, un thriller diretto dall'esordiente Paul Hyett che prima di dedicarsi alla regia aveva curato gli effetti speciali di film come The Descent parti 1 e 2, The Woman in Black e Attack of the block. La trama ruota intorno ad una ragazza sordo-muta che lavora come cameriera in un bordello sui Balcani durante la guerra, mentre tenta di
Sembra una variazione sul tema “rape and revenge”, però la fotografia e l'ambientazione mi intrigano e sto leggendo ottimi commenti a caldo.
Subito dopo è toccato a Cockney vs Zombies, l'ennesimo horror parodia del genere zombesco in cui una banda di rapinatori (tra cui compare Alan Ford che magari ricorderete per il suo ruolo in Snatch – Lo strappo di Guy Ritchie) che si trova ad affrontare un'invasione di zombie nel bel mezzo di Londra.
Da quel che leggo in giro era uno dei più attesi, personalmente sopporto sempre meno questi abusatissimi mix di comicità e frattaglie ma lo terrò comunque d'occhio.
E a proposito di mix improbabili, la giornata si è chiusa con Grabbers di Jon Wright, che racconta un'invasione di alieni succhia sangue nel villaggio irlandese di Erin Island. Gli abitanti però scoprono molto presto che un alto livello di alcohool nel sangue causa la morte delle creature, e, come era facilmente prevedibile, decidono di rispondere all'attacco ubriacandosi come se non ci fosse un domani. Come mai non ci aveva mai pensato nessuno ?

Il 24 agosto si è aperto con la proiezione di Nightbreed: The Cabal Cut, praticamente una director's cut di Nightbreed (1990, Clive Barker, da noi uscì come Cabal, David Cronenberg interpreta uno dei personaggi pricipali), con scene che si credevano perdute.
Di seguito c'è stato un incontro con Dario Argento, seguito da Hidden in the woods di Patricio Valladares, la storia di due ragazze allevate brutalmente nella foresta dal padre spacciatore di droga. Le due lo denunciano e lui viene arrestato dopo aver scannato due poliziotti, ma ora le sorelle dovranno vedersela con un signore della droga che rivuole indietro la sua merce. Dicono sia ispirato a fatti realmente accaduti, a me sembra il classico esasperatissimo torture-porn, anche se imdb lo cataloga come action, comedy, adventure.
Poi è stata la volta di V/H/S: un gruppo di sbandati si introduce in una casa abbandonata e si imbatte in 6 strane videocassette che contengono 6 storie dell'orrore belle truculente. Film a episodi diretto da Adam Wingard, Glenn McQuaid, Radio Silence, David Buckner, Joe Swanberg e il mio amatissimo Ti West, a me basta la sua presenza a renderlo interessante, però non mi dispiace nemmeno l'idea di un bel ritorno all'horror a episodi.
Rec 3 Genesis di Paco Plaza invece è già abbastanza conosciuto. Ultimo ma non ultimo capitolo della saga creata da Paco Plaza e Jaume Balaguerò, doveva essere un prequel del primo film ma Balaguerò (qui produttore) ha deciso di trasformarlo in una progetto tutto nuovo costruito intorno all'attrice e sua compagna Leticia Dolera. Nel bel mezzo di un matrimonio il virus già visto nei due film precedenti provoca una strage, e i due allegri sposini faranno di tutto per sopravvivere e ritrovarsi. A quanto pare la tecnica del POV viene abbandonata dopo poche scene per fare spazio a una narrazione più convenzionale. Qualcuno lo ha addirittura paragonata a Evil Dead, io non so ancora che pensare, ma Leticia Dolera è bellissima e sono pronto a pagare per vederla vestita da sposa mentre affetta gli invasati con una motosega.
La giornata si è chiusa con Stitches di Conor McMahon, la storia di un Clown rimasto ucciso facendo giochi di prestigio in una di quelle terribili feste di compleanno piene di ragazzini insopportabili, e che anni dopo tornerà in vita per vendicarsi sul pestifero festeggiato. Dalle poche immagini che ho visto sembra grottesco e inquietante al punto giusto.

Oggi invece è toccato a: Outpost 2: Black Sun, altra invasione di soldati nazisti zombie, Paura 3D dei Manetti Bros, che ho già recensito qui sul blog e Under the bed, la storia di un ragazzino che trova davvero qualcosa di terribile sotto il suo letto, ovviamente non c'è nessuno disposto a credergli, tranne la madre, che però rimane brutalmente uccisa. Ricorda moltissimo il mediocre Al calare delle tenebre.
Poi è toccato a due film di cui avevo parlate nelle rubriche precedenti, il remake di Maniac e finalmente Tulpa di Federico Zampaglione, di cui si parla sempre meglio, soprattutto nella recensione in anteprima di Fangoria.

Il 26 agosto sarà la volta del bellissimo Sleep Tight di Jaume Balaguerò (da noi uscito come Bed Time, sempre qui sul blog trovate la mia recensione) e l'intrigantissimo Berberian Sound Studio di Peter Strickland, in cui Toby Jones interpreta un tecnico del suono che finisce a lavorare in un horror d'autore nell'Italia degli anni '70, ma molto presto la vita reale e il cinema iniziano a confondersi. Un visionario omaggio all'horror italico che mi fa venire l'acquolina in bocca.
Seguirà Sinister un thriller soprannaturale di Scott Derrickson (L'esorcismo di Emily Rose, Ultimatum alla terra, ehm...) che vede Ethan Hawke nei panni di uno scrittore intento a ricostruire la tragedia avvenuta nella sua nuova casa attraverso dei vecchi filmati.
Per chiudere la giornata in bellezza c'è il folle Dead Sushi di Noboru Iguchi, un horror giapponese in cui il sushi prende improvvisamente vita e comincia a massacrare il personale e i clienti di un ristorante.

Il 27 si conclude con :

American Mary delle sorelle Jen e Sylvia Soska, la storia di una studentessa di medicina (Katherine Isabelle, la Ginger di Licantropia Evolution) che si lascia coinvolgere nel mondo della chirurgia clandestina a discapito della sua sanità mentale.
After di Ryan Smith, un thriller in cui i sopravvissuti ad uno scontro tra due autobus si risvegliano in una città deserta circondata da una misteriosa nebbia popolata da feroci creature (uh suona familiare).
Chained di Jennifer Chamber Lynch (la figlia di David Lynch, regista di Boxing Helena) la storia di un bambino di 9 anni rapito da un serial killer che lo tiene prigioniero per anni costringendolo a seppellire le sue vittime, da adulto dovrà scegliere se seguire le orme del suo aguzzino o cercare di fuggire.
The Possession di Ole Bornedal, prodotto niente meno che da Sam Raimi. La piccola Em compra una scatola di legno ad un mercatino dell'usato, ignara del fatto che l'oggetto contiene lo spirito di un Dibbuk intenzionato a impossessarsi del suo corpo. I genitori separati (Jeffrey Dean Morgan e Kyra Sedgwick) si riavvicineranno per aiutare la figlia.
Tower Block di James Nunn e Ronnie Thompson. Un misterioso cecchino inizia ad abbattere gli abitanti che si rifiutano di abbandonare una palazzina pronta ad essere demolita.



venerdì 24 agosto 2012

Filmbuster(d)s - Episodio #10

Il cinema Action (eccion) dagli anni 80 è la massima espressione del cinema come intrattenimento, o quantomeno la sua accezione più caciarona. Per quanto male se ne possa parlare, vedere le cariatidi di I Mercenari 2 darsele di santa ragione ha riacceso in noi lo spirito "di menare le mani e spararsi" spingendoci a dedicare il nostro decimo episodio al genere tutto esplosioni e un sacco di morti ammazzati.
Nel 10° episodio di Filmbuster(d)s:

TRAILERS
[00:06:12]The Last Stand
[00:12:09]Bullet to the head
[00:19:24]The Bourne Legacy

NEWS
[00:29:22]Mad Max 4

FILM
[00:41:15]I Mercenari 2

[01:10:00]Consigli


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mercoledì 22 agosto 2012

Il Cavaliere Oscuro - Il Ritorno di Christopher Nolan

Una delle regole non scritte del cinema Hollywoodiano è il “fallimento del terzo episodio”: specie per quanto riguarda i cinecomics appare evidente come, dopo secondi episodi eccellenti, gli autori o abbandonano la nave, forse consapevoli di non poter dire altro sull'argomento (Singer e Burton), oppure vengono colti da ipertrofia da personaggi multipli (Raimi) combinando un casotto da bocciare senza appello.
Sarà per la difficoltà intrinseca (che non è la femmina dell'intrinseco) di colcludere una storia in maniera degna, sarà perchè il confronto con Il Cavaliere Oscuro era oggettivamente pesante, era in ogni caso lecito avere timori in relazione alla buona riuscita della conclusione della trilogia del Batman di Nolan.
Ne Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno, Bruce Wayne ha ormai appeso il mantello al chiodo e si è ritirato a vita privata: fisicamente provato da anni di scorribande e mentalmente distrutto dalla perdita di Rachel Dawes, deambula nelle stanze dell'ala est di Wayne Manor senza uno scopo ben preciso, senza una nemesi da combattere o un'organizzazione criminale da ostacolare. La tragica morte di Harvey Dent ha infatti spinto l'amministrazione di Gotham ad approvare un decreto omonimo del defunto procuratore distrettuale che permettesse alle forze dell'ordine della città di eliminare in maniera definitiva il crimine organizzato.
Un furto delle sue impronte digitali e l'apparizione di Bane, un mercenario che agisce nei tunnel sotterranei di Gotham, convinceranno Bruce a indossare di nuovo il costume per venire a capo di una situazione poco chiara.
Il cinema di Nolan è una commistione di ideali, di ferrea determinazione con la quale vengono sostenuti e di ossessioni che ne scaturiscono, nonché un cinema di antagonismi: sulla scena sono sempre presenti due personalità antitetiche che si nutrono reciprocamente l'uno dell'altro, quasi che un personaggio esista solo in funzione del suo avversario, e che finiscono per scontrarsi senza esclusione di colpi. Al rigurado, il personaggio di Batman è apparso sin dal primo episodio perfettamente calzante alla poetica del regista britannico ed è forse la principale ragione per il quale la saga sia riuscita ad elevarsi dal mero blocbkuster cinefumettistico. Detto ciò, Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno è probabilmente la summa della trilogia dell'uomo pipistrello e del cinema del buon Christopher.
Se nell'episodio precedente il Joker più che mosso da un ideale intendeva dimostrare il lato oscuro della natura umana al fine di fiaccare le ferree convinzioni del cavaliere oscuro, Bane è invece devoto a un credo inconciliabile con i valori di Batman sebbene porti a conclusioni tutto sommato simili: in tal senso, saggiamente, si rispolverano molti elementi del primo episodio (non dico altro per non spoilereare) mentre invece, per rispetto della morte di Heath Ledger, si fa riferimento solamente a Harvey Dent per quanto riguarda The Dark Knight. Sebbene sia costante la sensazione che, in seguito alla tragica scomparsa, Nolan abbia dovuto pesantemente riscrivere la conclusione della sua storia, la coerenza narrativa tra le tre pellicole non viene mai meno e vedere i nodi arrivare al pettine, al netto di un didascalismo forse un po' troppo marcato che si era già intravisto in Inception e di un utilizzo quasi molesto dei flashback, è comunque una gioia per gli occhi che a tratti lascia a bocca aperta. Tuttavia, alcuni passaggi possono sembrare forzati, spesso e volentieri Nolan ricorre all'espediente del MacGuffin per motivare le gesta di alcuni personaggi; il piano diabolico di Bane sembra spesso fare affidamento su una poco credibile “botta di culo” o su un Deus Ex Machina e, come ci ha insegnato la Pixar, usare coincidenze per tirare i protagonisti fuori dai guai significa barare.
Tante, quasi troppe le sequenze da ricordare tra quelle che raggiungono notevoli vette di lirismo e di epicità, ma la scena principe è senza dubbio il primo confronto corpo a corpo tra i due avversari, minimale, scevro di fronzoli effettistici di ogni sorta, di una fisicità che quasi rivaleggia con quella della scena nella sauna de La Promessa dell'Assassino di David Cronenberg. Per non parlare di un finale, anch'esso molto minimal, giusto un campo lungo e un primo piano sottolineati da una colonna sonora deliziosamente delicata, che se ci si è affezionati al personaggio rischia di strappare una lacrimuccia.
Tanti sono anche i personaggi sulla scena: all'ipertrofia del terzo episodio di cui sopra non si sfugge, tuttavia appare evidente, come peraltro costantemente nella saga, che esista una gerarchia ben marcata e che i personaggi principali, in questo episodio sono 4 (Wayne, Selina Kyle, Bane e John Blake), godano tutti del giusto spazio per caratterizzarli al meglio, anche se questo significa metterli da parte per larghi frangenti del film. Poco importa se poi i personaggi secondari siano poco più che caratteri, quel che conta è che la gestione dei protagonisti sia pressoché certosina.
E' il migliore dei 3? La questione è strettamente soggettiva su quale sia l'episodio più bello, quel che resta oggettivo è che stiamo parlando di una delle migliori trilogie della storia del cinema Hollywoodiano e che finalmente si possa parlare di una conclusione di una saga senza dover versare bile e sentenziare bocciature. Il fuoco, fortunatamente, è divampato.  

I mercenari 2 di Simon West

Nelle sale dal 17 agosto.
Un pò di carne flaccida, totale assenza di sceneggiatura, un ammucchiata con solo una donna asiatica, tanta tanta azione e girato tra la Bulgaria e l'Albania. No, non sto parlando di un film porno, ma del nuovo campione d'incassi estivo Mercenari 2, secondo capitolo di una saga che ne promette parecchi.
Solitamente nella recensione di un film si dovrebbe partire dalla trama, ma siccome non esiste e siccome non importa ai più, neanche agli stessi attori, descriverò brevemente quello che succede. I Mercenari spaccano tutto e ammazzano tutti. Liberano un cinese, for reason, e Jet Li dopo soli 4 minuti, saluta tutti e va a ritirare l'assegno. 
A prendere il suo posto subentrano una asiatica che non fa nulla tutto il tempo a parte ... no niente, non fa proprio nulla., e un cecchino ex militare che avrà letto l'annuncio su qualche sito di lavoro, e che si sente deluso dall'esercito perchè gli hanno ammazzato il cagnolino.
Poi cosa succede, arriva il villain della situazione, Villain (Van Damme). Si nomen omen, segno che chi ha scritto la sceneggiatura, una scimmia del Guatemala, si è riferito al personaggio in principio con un provvisorio Villain/Cattivo e poi non l'ha più cambiato. Perchè sbattersi a rileggere? Leggere?
Eh ma il nome non conta quando tra le mani hai un ottimo personaggio, ben scritto. Già, ad averlo. Villain è peggio di quei cattivi nei film anni 30 con il baffo sottile, da arricciare a ogni cattiveria, e la sacca per il bottino con il simbolo del dollaro. Per sottolineare ancora di più la sua enorme malvagità, visto che mancano lavoratori per la sua miniera, se ne esce con la frase "Il paese ha finito gli uomini adulti? E voi prendete donne e bambini!" Muahahaha! Mancano le scene in cui mangia letteralmente del pane con fette di cattiveria, ma era troppo complicato da fare, peccato.
Si si, vabbè, ma che ce frega del cattivo, noi vogliamo i mercenari. E ne vogliamo tanti. E vogliamo che tutti facciamo cose pazze. E volete troppo. Nessuno di essi riesce a avere uno straccio di spazio per dire anche solo bè o per prendere a calci un distributore di gomme. Sono troppi e non c'è mai una idea di chi riprendere o di cosa fare. A parte la sequenza iniziale con Jet Li che mena fendenti alla grandissima, il resto del cast non riesce a mostrare quello che sa fare.
Lundgren è talmente scazzato che ogni tanto deve buttare dentro una battutina infantile, tanto per dire "oh ci sono anche io eh, non è che mi avete portato solo per pagare di meno il biglietto". Couture bò, è stato segnalato a Chi l'ha visto. Crews si confonde con lo sfondo, ma tutti lo ricorderanno come "quello nero". Almeno quello. Persino Statham, l'erede di Stallone, quello che nel primo era quasi protagonista, quello che è il più giovane (vivo) e più atletico, fa poco nulla, ed anzi viene spesso allontanato dalla scena. Giusto un paio di volte trova un piccolo pertugio dove infilarsi ("Vi dichiaro marito e pugnale").
Bè almeno un pò di spazio lo avrà Stallone e i vecchi più famosi, Bruce Willis, Swarzie e la new entry Chuck Norris. Andiamo con ordine. Stallone si aggira per tutto il film in una posa da action figure. Plasticoso e con le gambe divaricate manco avesse la sciolta nei pantaloni. Willis e Swarzenegger sono una bella coppia sposata. Il primo zittisce il secondo (-Torno subito. -Smettila di dirlo. -Hippy ya ye.) e poi vanno a farsi un giretto su una Smart sportierata per bene. L'arrivo in scena di Norris invece è la cosa più riuscita del film. Morricone in sottofondo, lui che fa se stesso, anzi che fà il Chuck Norris delle infinite battute create dal mondo di internet (e ne dice una pure lui) e purtroppo se ne va subito, perchè oh, è un lupo solitario. 
Un altra pessima gestione dei personaggi. Li presentano e poi li fanno sparire, perchè appunto, non c'è spazio per tutti. Quindi eccoli che si inventano scuse ridicole tipo "Eh non posso continuare con voi, ho l'otite/devo andare con mia mamma a fare spesa/ho la macchina doppia fila".

Il fan duro e puro però sarà contento e ribatterà "Loro sono solo figure, mitologiche quasi, perciò non serve che abbiano spessore. Sono solo poster viventi che ripetono i propri urli di battaglia, le proprie battute famose. Inutile lamentarsi, il buono è il tipico buono e il cattivo è solo un cattivo. Niente sfaccettature, tutti tagliati con l'ascia. D'altronde, manca poco che un ascia la usano pure nel film". Vero, condivisibile da un certo punto di vista, ma bisogna essere proprio convinti per sostenere una cosa del genere.
Ecco c'è un limite di sopportazione alle battutine, alle citazioni per puro fan service, ai bisticci infantili e alle gare a chi piscia più lontano (se non avessero tutti il catetere), e quel limite viene ampiamente superato dopo 3 minuti, ovvero quando ne hanno già dette una ventina. 
Gli sceneggiatori al lavoro
Si ma insomma, è un film action, almeno le botte e le esplosioni ci sono? E come sono? L'inizio è promettente. E' spaventosamente tamarro e casinaro, purtroppo però la noia la fa da padrona. Per aspettare il successivo scoppio di violenza bisogna passare attraverso interminabili "cut scene" che aggiungono ben poco alla inesistente trama. Ve dovete menà! Menààà. E basta, non state li a contarvela su. Dai. Ora non voglio far paragoni con il cinema action asiatico, ma la sconfitta è schiacciante. Manca ritmo, manca una regia frenetica e originale che sappia riprendere con una stile particolare. Manca troppo insomma per poterne parlare come un grande filmazzo del genere o anche solo un risultato decente.
E' come una di quelle grandi squadre di calcio o basket piene di all star o grandi campioni incapace però di vincere anche solo la coppa del nonno. Perchè la palla è una e nessuno può quindi esprimersi al proprio massimo. L'idea è buona, per un amichevole, ma quando conta vincere, mica tanto. Mercenari è l'Inter di qualche anno fa, quello di Baggio-Vieri-Ronaldo etc.. Ecco.

Frase p(f)regna di profondità a metà film: "Perchè muoiono solo i bbuoni e invece non muoiono i cattivi, unn'è giusto!"

lunedì 20 agosto 2012

Il bianco e il nero #10: Audrey, l'antidiva

"Non avrei mai pensato di entrare nel mondo del cinema con una faccia come la mia".

Antidiva per eccellenza, lontana dal glamour, dalla stampa, dagli eventi più in, dalle feste, da Hollywood stessa. Ha sempre preferito l'isolamento e la pace delle sue case in Svizzera, ha preferito la famiglia piuttosto che la carriera, ha preferito dettare la Moda piuttosto che subirne le regole.  Più che diva o antidiva, meglio usare l'aggettivo da lei preferito, divina. 
Non si definiva una celebrità, tanto da scherzarci sopra ("Cosa pensa quando la gente la riconosce per strada?" "Che assomiglio ancora a me stessa") e chiamare il suo amato cagnolino Famous. Non si definiva neanche attrice, ma una ballerinza di danza classica che è finita a recitare.
Quando ha voluto smettere l'ha fatto, quando voleva recitare lo faceva, mai legata da forti contratti ha rifiutato centinaia di ottime sceneggiature per dedicarsi al primo marito Mel o ai figli, Sean e Luca e infine all'Africa e all'UNICEF.
Dotata di una bellezza  e un fisico particolare e di uno stile molto personale, che al contrario delle grandi dive, non doveva nulla agli studios, perchè erede di una certa raffinatezza aristocratica, agli antipodi delle Jayne Mansfield o delle Marilyn, che talvolta intaccavano il loro corredo di simpatia con atteggiamenti provocanti e privi di grazia
Dall'esperienza con la guerra agli esordi a teatro e al cinema, fino allo sbarco a Hollywood, l'Oscar, i ruoli celebri e l'addio prematuro alla scena per dedicarsi ad altro. Cercherò di parlare di tutto e di più e in maniera molto dettagliata, quindi questa volta sarà un vero articolo fiume. Fate delle pause, tornateci, stampatelo, dormiteci assieme, insomma fate quello che volete, se amate come e quanto me Audrey.
(NDR avrei voluto fare un elenco con link agli argomenti ma è impossibile su Blogger)

-L'infanzia e la guerra.
Il 4 maggio del 1929 nasce a Bruxelles una certa Edda Kathleen Ruston-Van Heemstra. Questi i fatti, tuttavia se cercate il certificato di nascita, dirà che è nata a Londra qualche giorno più tardi. Ciò è dovuto al cambiamento voluto dal padre, Joseph Hepburn, un tipo davvero particolare. Nato John Joseph Ruston è un austriaco che preferisce farsi passare per inglese, già sposatosi tre volte, la quarta sarà la mamma di Audrey, per un certo periodo di tempo console inglese in diverse colonie del pacifico prima di essere beccato sistematicamente a fare intrallazzi e raggiri. Nulla è certo su di lui, persino curriculum vitae e titolo di studio sono inventati di sana pianta.
Ma è un bell'uomo, sicuro di sè, affascinante e la baronessa Ella Van Heemstra cade ai suoi piedi in Indonesia nel 1926. I Van Heemstra sono una casata nobiliare belga-olandese molto importante e soprattutto ricca. Ruston vede in lei un bel salvadanaio e un sicuro modo per fuggire dall'Asia dove è ricercato per truffa. Cosa ci trovi lei in lui è difficile da capire, anch'essa divorziata, forse è ammaliata dall'uomo dominatore e macho, una tara genetica che colpirà anche la figlia.
Dunque, la bambina Edda Kathleen Audrey (omologo femminile di Andrè, il nome che le avrebbero dato se fosse stata maschio) si riconosce fin da subito. Occhi sorridenti, figura già slanciata, timida e dall'aspetto molto delicato non ha ereditato ne la baldanza del padre, ne la robustezza del clan Vam Heemstra. Per di più è considerata il frutto della disdicevole unione tra aristocrazia e borghesia e la commistione tra privilegi e privazioni segneranno tutta la sua infanzia.

venerdì 17 agosto 2012

L'immondo profondo #10: Due occhi diabolici e il tracollo della cultura occidentale

Fino a qualche ora fa ero ancora fortemente indeciso sull'argomento da affrontare questa volta, poi mi sono ricordato che proprio l'altro giorno, per colmare una delle mie ultime lacune nella filmografia di Dario Argento, ho visto Due occhi diabolici. Per chi non lo conoscesse, si tratta di un film a 2 episodi diretto da George Romero e Dario Argento che si lanciano nell'ambiziosa impresa di mettere in scena due racconti dell'orrore di Edgar Allan Poe. A Romero tocca Le vicende relative al caso del signor Valdemar, la storia di una mogliettina trofeo (Adrienne Barbeau) che fa ipnotizzare il marito moribondo per assicurarsi una cospicua eredità, ovviamente le cose vanno storte e l'uomo muore quando è ancora sotto ipnosi rimanendo così bloccato a metà tra la vita e la morte. Neanche a farlo apposta Romero finisce per parlare sempre di morti viventi, comunque il suo episodio è il più tollerabile, sufficientemente fedele all'originale e non troppo anonimo.
Argento invece si becca Il gatto nero, e qui immagino non serva un riassunto della trama, ma ve lo beccate lo stesso perché il regista ci ha dovuto mettere del suo. Roderick Usher (ecco, Argento ha letto Poe e vuole essere sicuro che ce ne rendiamo conto, quindi infarcisce il film di riferimenti ad altri racconti, il personaggio comunque è interpretato niente meno che da Harvey Keitel) è un fotografo che ritrae le vittime di crimini violenti, tornato a casa dopo il lavoro scopre che sua moglie Annabel ha adottato un bel gattone nero, la bestiola però non sopporta la sua vista e ogni volta fugge via terrorizzata. Rod si rivela un beone manesco, e un giorno uccide il gatto nel tentativo di creare un'opera d'arte provocatoria. Per rimediare ne porta a casa uno perfettamente identico, ma la moglie ha già deciso di lasciarlo... Il seguito lo conoscete, ma sappiate che Argento ha trovato il modo di rendere il racconto il più idiota possibile.
Insomma perché parlarne ? Perché ho notato che Due occhi diabolici rappresenta un momento chiave delle filmografie dei due registi, o meglio, il momento in cui la mia opinione personale nei loro confronti è cambiata più o meno radicalmente.
Dedichiamoci prima a Romero: è vero, il suo film immediatamente precedente è Monkey Shines, però subito prima viene Il giorno degli zombi, probabilmente uno dei miei zombie movie preferito, e il bello è che sono riuscito a vederlo solo un paio d'anni fa, quindi il fattore nostalgia si può tranquillamente escludere. Dopo invece troviamo La metà oscura, ennesimo pessimo adattamento di un romanzo di King, il dimenticabile Bruiser e finalmente (forse) il ritorno agli amati zombie con la nuova trilogia formata da La terra dei morti viventi, Le cronache dei morti viventi e Survival of the dead. Ora, so che questi ultimi tre film hanno comunque trovato una cerchia di ammiratori tra gli amanti del genere e non, ma io trovo che rappresentino un sintomo abbastanza evidente di senilità. Romero è ancora morbosamente attaccato alle sue creature, il che non è obbligatoriamente un male o una colpa, ma lo diventa se si ha la pretesa di realizzare gli stessi film di 40 anni fa, con gli stessi rozzissimi riferimenti sociali. Soprattutto se questo significa girare in digitale (brr) roba a bassissimo budget con attori cani, effetti speciali scadenti e trame stantie, senza la minima traccia di ironia. Romero l'ho amato anche io, ma questo non significa che debba passare sopra a cose come Survival of the dead senza provare un minimo di imbarazzo.
E a proposito di stagnazione passiamo al regista che ha fatto dell'immobilità artistica una ragione di vita, Dario Argento, per lui la fase del tracollo era già iniziata dopo l'accoppiata Suspiria-Inferno, l'occhio magari è appagato ma l'intelligenza dello spettatore deve sopportare di tutto. Phenomena è un buon esempio di quello che intendo, i compromessi da accettare sono davvero troppi per godersi a mente leggera lo spettacolo. Opera sembra l'ultimo guizzo di creatività, ma anche in questo caso la sceneggiatura è esilissima e nel finale cede definitivamente, e poi non so voi ma la voce narrante di Dario Argento mi fa sempre sghignazzare. Il colpo di grazia sembra portarlo proprio Asia Argento, un po' come aveva fatto per Romero, film come Trauma e la Sindrome di Stendhal portano all'esasperazione la tendenza dei film precedenti, le sceneggiature si fanno sempre più tragicomiche e questa volta non c'è neanche un particolare impianto estetico a giustificare l'intera operazione. Trauma in particolare mi pare un esempio perfetto di come Argento non sia nemmeno in grado di valorizzare un budget più elevato e un cast diverso dal solito branco di macchiette italiane.
Con Nonhosonno (sorvolo volutamente su Il fantasma dell'opera) il regista si concede una piccola trasferta nel genere comico, oppure, a seconda dei punti di vista, realizza quello che forse è il suo film peggiore, anzi senza forse, dopo averlo rivisto ho addirittura rivalutato roba come Giallo e La terza madre, in attesa di Dracula 3D.
Rimango sempre più stranito di fronte a quella categoria di spettatori che nonostante tutto hanno ancora il coraggio di non bocciare porcherie come questa, e non è un problema dei soliti inguaribili appassionati ma anche di spettatori casuali che malgrado tutto se le fanno piacere. In confronto il vituperatissimo Il Cartaio mi è sembrato il suo miglior film degli ultimi anni.
Il resto è storia, La terza madre ha confermato la teoria secondo cui Asia Argento significa guai e infatti il film è un disastro, Argento o chi per lui insiste nell'usare lo stesso tipo di effetti speciali che si usavano negli anni '70, il che rende tutto ancora più grottesco. Giallo non è da meno, da ricordare anche solo per il fatto che è rimasto a prendere polvere per mesi perché nessun distributore italiano se lo voleva accollare, e la cosa è ancora più significativa se si considera che viviamo in un paese in cui questo tipo di cinema trova sempre agguerritissimi sostenitori. A rendere il tutto ancora più comico c'è la causa legale che Adrien Brody ha intentato e vinto contro i produttori che non lo avevano mai pagato per la sua interpretazione. Ah giusto, non dimentichiamo nemmeno il peggior villain della storia del cinema horror.



giovedì 16 agosto 2012

Filmbuster(d)s - Episodio #9


2 di noi sono andati a Locarno in occasione del Festival del Cinema: trattandosi di un'ottima manifestazione (e vista la penuria di argomenti in questa torrida torrida estate...) abbiamo deciso di dedicare quasi per intero l'episodio alla trasferta in terra elvetica, con un esaustivo reportage delle interviste a Roger Avary e Johnnie To.
Nel 9° episodio di Filmbuster(d)s


TRAILER
Antiviral [00:04:00]
Trouble with the curve [00:11:00]

NEWS
65° Festival del Film di Locarno [00:23:20]

FILM
La congiura della pietra nera [01:05:00]

CONSIGLI [01:19:00]

Potete ascoltare l'episodio al link diretto al file MP3 (per scaricarlo basta cliccare col destro e poi "Salva link con nome"): Clicca qui

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lunedì 13 agosto 2012

Il bianco e il nero #9: Lady Olivier, Vivien Leigh.

"I don't want realism. I want magic! Yes, yes, magic. I try to give that to people." Blanche Dubois (Vivien Leigh) in Un tram che si chiama desiderio.

Il sopracciglio alzato più famoso della storia del cinema. Vivien Leigh è nata per la recitazione, ha vissuto per essa, l'ha ammalata a morte e vi ha trovato l'amore.
Una carriera breve per certi versi, ma costellata da ruoli memorabili; Cleopatra, Rossella O'Hara, Blanche Dubois, Anna Karenina. Come se sapesse che la sua vita sarebbe stata breve, apprezzava tutto quello che la vita le offriva, vivendo intensamente ogni giorno e ogni ruolo.
Eternamente innamorata di Laurence Olivier ha combattuto con una malattia che l'ha divorata fin dalla giovane età e all'apogeo della sua carriera. Eppure, come vedrete, l'unica cura era la scena, le bastava salire in palcoscenico o trovarsi davanti a una cinepresa per tornare la meravigliosa Viv.

Vivian Mary Hartley nasce il 5 novembre del 1913 nel Darjeeling in India (quando era ancora colonia inglese) da Ernest e Gertrude Hartley. Il padre, ufficiale della cavalleria indiana e ex agente di borsa, viene trasferito in seguito a Bangalore mentre la famiglia rimane a Ootacamund. Come dimostrano i tanti filmini privati, trascorre un infanzia agiata in un paradiso terrestre dove dispone di tutto quello che desidera.
La passione degli Hartley è il teatro l'unica cosa che manca loro della vecchia Inghilterra. Il babbo è un vero e proprio patito e la madre ha creato un piccolo circolo che mette in scena operette e spettacolini. A soli tre anni, ben incoraggiata, viene il turno della piccola Vivian di calcare la scena. L'inizio è di quelli che si fan notare. Invece di cantare Lil Bo Beep annuncia che preferisce recitarla.
L'idillio indiano dura poco per lei, presto viene spedita dalla madre a Londra, perchè "deve crescere con una corretta educazione di stampo inglese". E sia, ma Vivian si troverà a fare questo lungo viaggio in nave completamente sola, in quanto i genitori rimangono e rimarranno in India ancora per 9 anni.
A sei anni si ritrova quindi nel convento del Sacro Cuore di Roherton, dove piange per la mancanza dei genitori a cui era infinitamente legata e piange forse più che altro per l'assenza dei divertimenti, dovuta alla rigidità delle suore. Nasconde il suo dolore, una caratteristica che la accompagnerà per tutta la vita e coltiva la sua principale passione, il teatro.
Nelle recite scolastiche da il meglio di se e risulta molto apprezzata da tutto il pubblico. Una delle sue migliori amiche è la futura grande attrice di teatro Maureen O'Sullivan a cui confessa di voler diventare una grande attrice. Si prende però una piccola pausa quando viene ricongiunta ai genitori con i quali inizia un tour di tutta l'europa. Vivian a 16 anni è una vera poliglotta e parla fluentemente l'italiano, il francese e il tedesco.
A proposito di Germania, conosce un giovinotto locale molto affascinante e di dodici anni più anziano di lei, avvocato. L'amore tra i due è di quelli inossidabili e lei vorrebbe subito sposarsi e quando incontra il rifiuto della madre sbotta "Lasciamelo sposare o nessun'altro lo farà più!". Vivian è già quella bellissima donna che conosciamo, quindi è una minaccia/previsione abbastanza ridicola.
A soli diciannove anni di sposa quindi con Herbert Leigh Holman di cui a breve rimane incinta della futura Suzanne, dopo un parto difficile e prematuro. Leigh non è felice della sua aspirazione artistica ma non la ostacola quando viene accettata dalla Royal Academy of Dramatics Arts.

domenica 12 agosto 2012

I miei due giorni al 65° Festival di Locarno


Non ho una buona scusa per non aver mai approfittato del Festival di Locarno fino ad oggi, eppure la cittadina è qui a portata di mano, a meno di due ore di macchina, e nel corso degli anni mi sarà capitato di visitarla almeno una decina di volte. Forse è colpa della mia proverbiale pigrizia o forse dipende dal fatto che mi aspettavo di trovare un traffico terrificante, tanta folla e prezzi da denuncia, invece quest'anno abbiamo finalmente rotto gli indugi e ho avuto la possibilità di ricredermi.
Intanto Locarno è bella come la ricordavo, una città a misura di festival, abbastanza piccola da non farti sentire spaesato e da permetterti di raggiungere con facilità le circa dieci sale cinematografiche che ospitano le varie proiezioni. All'inizio effettivamente un po' di smarrimento lo si prova, ma poi si arriva in Piazza Grande, che ospita il gigantesco schermo per le proiezioni notturne, e ci si orienta subito, anche perché è pieno di punti informazioni, percorsi guidati e ragazzi dello staff.
Non so come sia durante il resto dell'anno ma in questi giorni (il Festival si svolge dall'1 all'11 agosto) Locarno è anche piuttosto cosmopolita, tra tedesco, francese ed inglese bisogna proprio sforzarsi per sentire qualche voce italiana, e la sensazione è piuttosto piacevole. Nulla di preoccupante comunque, non ho beccato nemmeno un cassiere che non parlasse un discreto italiano.

Visto che ho parlato di casse passiamo subito al tariffario:

Per le singole proiezioni il prezzo è di 15 Franchi, circa 12.50€, un prezzo piuttosto alto considerando che nella maggior parte dei casi si tratta di retrospettive. Per assistere alle proiezioni serali in Piazza Grande invece bisogna sborsare 32 franchi quando c'è un solo film e 42 quando ce ne sono due.
La soluzione più comoda è ovviamente il biglietto giornaliero, e con quello le cose si fanno decisamente più interessanti. Con 42 Franchi (47 se le proiezioni serali sono due) potrete accedere a tutte le proiezioni della giornata, e se come me siete studenti universitari con meno di 30 anni potrete cavarvela con circa 26€ esibendo la vostra tessera universitaria.
Visto che comunque tra benzina e biglietti qualcosina si spende, abbiamo pensato di scegliere due giorni e di farceli bastare. Per fortuna avevamo le idee abbastanza chiare e la decisione è stata relativamente indolore ma il programma di quest'anno era comunque molto sfizioso: oltre ai film in concorso infatti si poteva scegliere tra una ricchissima retrospettiva su Otto Preminger, una più modesta su Renato Pozzetto (premiato con il Pardo alla carriera) e un sacco di ghiotti ospiti: Johnnie To, Roger Avary, Ben Wheatley, Charlotte Rampling, Ornella Muti (eh si), Gianni Morandi, Elio Germano, Valerio Mastandrea, Valeria Bruni Tedeschi, Alain Delon e tanti altri.

Ma passiamo al riassuntone delle due giornate:

sabato 11 agosto 2012

Locarno 65 - Visione monca

Scrivo questo breve e sottospecie di diario di viaggio post datato per condividere quello che è stato questo 65esimo Festival del Cinema di Locarno. Avevo in mente di fare una cosa da giornalismo (brutto) moderno, tipo associare a ogni lettera dell'alfabeto una cosa inerente al festival (tipo A di Avary e buttare giù due righe, B come Buffa etc...) ma mi sono accorto che per alcune erano troppe e per altre erano forzate. Non sono Vincenzo Mollica, e mi sta anche antipatico.
Quindi a ruota libera più totale.

Innanzitutto scrivo quando il festival deve ancora concludersi (in questo momento mi sto perdendo la conversazione con tanto di Pardo alla carriera a Renato Pozzetto) e lo faccio senza fare considerazioni varie su chi per me avrebbe dovuto vincere o quale film era più meritevole e quale meno.
In primis perchè ho vissuto la rassegna in maniera diversa, puntando agli incontri con gli autori e alle retrospettive. In secondo luogo perchè ho visto davvero poco, da cui la visione monca, non solo per il mio pseudonimo.
Se dall'1 all'11 agosto passate da Locarno noterete che in piazza grande c'è uno schermo enorme (il più grande d'Europa) e 8000 posti a sedere. Noterete anche che la città è particolarmente leopardata. E' periodo di festival, ma cos'è e che si fa?
Il piatto forte è il concorso internazionale con film inediti da tutte le parti del mondo che si danno battaglia per il Pardo d'oro. Poi ci sono i cineasti del presente, quei giovani registi alla loro opera prima o al massimo la seconda. I fuori concorso, come in ogni festival, quelli denominati Piazza Grande, prime visioni internazionali di sicuro successo al botteghino (non lo so, quest'anno c'è Magic Mike di Soderbergh o Bachelorette che arriveranno da noi in autunno), i Pardi di domani dedicata ai cortometraggi di artisti emergenti e infine Open doors per il cinema di quei paesi in via di sviluppo.
Da non dimenticare gli incontri con gli autori, gli speciali sui film d'epoca e le retrospettive e gli omaggi. 

Argomenti vari:

venerdì 10 agosto 2012

L'immondo profondo #9: Barbara Steele

Di lei vi ho già parlato un pò in una delle rubriche precedenti, è considerata la prima Scream Queen del cinema italiano, eppure nella sua carriera d'attrice era lei a provocare le urla di terrore delle sue vittime, che però in molti casi erano interpretate sempre da lei. I terribili occhi neri, la lunga chioma corvina e quello sguardo magnetico l'hanno resa un fenomeno di culto ma l'hanno anche relegata in un tipo di cinema che le stava stretto.
Barbara Steele nasce a Birkenhead nel Regno Unito il 29 dicembre 1937 o 1938. Da ragazza studia pittura ma nel 1958, forse proprio per la sua inconfondibile presenza fisica, si ritrova con un contratto firmato dalla Rank Organization, una società di produzione e distribuzione fondata da J. Arthur Rank proprio nel 1937, e che in pochi anni arrivò ad inglobare gran parte delle case di produzione inglesi, tra cui la Gaumont-British, e molte delle principali sale cinematografiche del paese. Dopo una rapida preparazione nella scuola di recitazione della Rank, Barbara esordisce nel 1958 con la commedia Uno straniero a Cambridge e negli anni successivi si ricava qualche particina in pochi film più o meno dimenticabili, tra cui forse spicca I 39 scalini, sorta di remake shot-by-shot di Il Club dei 39 diretto da Alfred Hitchcock nel 1935.
Rank però non è in grado di valorizzare la giovane attrice e infatti poco dopo cede il suo contratto alla 20th Century Fox. Per Barbara è un'occasione d'oro, dopo meno di due anni e qualche comparsata in pochi film è già sbarcata ad Hollywood, ma la fabbrica dei sogni delude tutte le aspettative e la giovane attrice rimane per due anni senza lavorare. Finalmente nel 1960 prende parte alle riprese di Stella di Fuoco, probabilmente il miglior tra i film in cui compare Elvis Presley, ma le delusioni non sono finite, Barbara litiga con il regista Don Siegel e abbandona il set per non fare più ritorno, la sua parte viene poi assegnata a Barbara Eden.
Destino vuole che proprio in quei giorni ad Hollywood sia in corso uno sciopero degli attori, per Barbara quindi l'unica soluzione per tornare a lavorare è rivolgersi all'estero. L'ennesima occasione le arriva proprio dall'Italia ma le premesse non potrebbero essere meno incoraggianti, un ruolo da protagonista in un horror, la proverbiale ultima spiaggia, e come se non bastasse dietro la macchina da presa c'è un esordiente, uno che fino a quel momento ha fatto solo l'aiuto regista o il direttore della fotografia, un certo Mario Bava. Il film si intitola La Maschera del Demonio e approda nelle sale nel 1960, contrariamente alle aspettative costituirà una vera e propria svolta per l'attrice, un successo ma anche una condanna, perché Barbara troverà il ruolo che la consacrerà e anche quello in cui rimarrà per sempre incagliata.
La Maschera del Demonio si ispira vagamente al racconto Il Vij di Nikolaj Gogol, e racconta la storia della contessa Asa Vajda, una nobildonna processata e condannata come strega dai suoi stessi familiari che torna in vita dopo due secoli per vendicarsi sui suoi discendenti. La Steele, costantemente sullo schermo, compare addirittura in un doppio ruolo, quello della strega Asa e quello della sua pronipote Katia, la fluente chioma corvina, la carnagione pallida, e il suo sguardo penetrante diventano un marchio di fabbrica. Il film è un successo inaspettato, soprattutto all'estero, Bava ha confezionato un horror particolarmente esplicito e raffinato, il primo vero esponente del gotico all'italiana, un genere che godrà di moltissima fortuna negli anni successivi, anche grazie alle interpretazioni della stessa Steele, quasi sempre nelle vesti della strega in cerca di vendetta. Il suo stile piace così tanto che persino Roger Corman la affianca a Vincent Price per il primo dei suoi film ispirati ai racconti di Edgar Allan Poe, Il pozzo e il pendolo del 1962. Si racconta che durante le riprese dell'ultima scena Price la afferrò per il collo così forte da ferirla gravemente.

giovedì 9 agosto 2012

La congiura della pietra nera di Cho Bin Su e John Woo

Nelle sale dal 3 agosto.
Ogni volta che guardiamo un film western, è pressochè impossibile non paragonarlo a un qualsiasi capitolo della trilogia del dollaro di Sergio Leone. Questo vale per noi italiani e vale per una gran parte di cultori di cinema, John Ford permettendo. E alla fine, il western in questione, o se ne esce con le ossa rotta o strappa un pareggio d'oro. Insomma Leone ci ha abituato troppo bene, si diceva, ed ha quasi ammazzato un genere manco fosse uno dei suoi pistoleri.
La stessa considerazioni si può fare per i wuxiapian (per chi non lo sapesse dal cinese wuxia, eroe delle arti marziali, e paragonabile a un cappa e spada orientale) e Zhang Yimou. Dopo, guarda caso anche qui, la sua trilogia composta da Hero-La foresta dei pugnali-La città proibita, non solo ha ridato vita a un genere spettacolare e poco commerciabile all'estero, ma ha posato una pietra di paragone con cui chiunque prima o poi ci si deve confrontare.
John Woo, che non è l'ultimo arrivato, ma che da poco è tornato trionfalmente a Hong Kong, dopo la fortunata impresa (eh si, il termine non è esagerato) di La battaglia dei tre regni, ci riprova. Ma da buon generale stagionato rimane dietro le quinte e dirige e aiuta sapientemente la giovane recluta, Cho Bin Su, taiwanese, con una carriera non certo sfolgorante per ora.
E' vero è difficile capire dove finisce la mano di uno e inizia quella dell'altro, ma direi che il risultato finale è piuttosto buono al contrario di quello ottenuto dall'ex mentore, collega e amico di Woo, Tsui Hark con il suo recente Flying swords of dragon gate, un casino di effetti speciali più che una buona amalgama, dove a farla da regina era una spettacolarità spicciola e sintetica. Sarà stato l'uso del 3D che richiede una certa quantità di effetti o sarà stato il film in se, più storico che wuxia (come lo stesso La battaglia dei tre regni), ma Tsui Hark mancava pienamente l'obiettivo.
Infatti Woo pensa più a un wuxia terra terra, più simile ai classici, con tante acrobazie e tanto uso di cavi e trampolini. Di CGI non se ne vede traccia, se non in piccoli ritocchi. Persino i set sono completamente reali e toccabili con mano. Da questo punto di vista è quindi una grande vittoria, dall'altra, e qui torna l'impietoso paragone con Yimou, perde nell'incapacità di mostrare senza soffermarsi.
Yimou non ha bisogno di mostrarti alla perfezione una cosa, un movimento, un dettaglio. La sua coreografia e narrazione fluida gli permettono di piroettare via con una grazia sorprendente e allo stesso chiarissima. Woo o Cho Bin Su, deve invece soffermarsi brevi istanti sulla spada acqua sferzante o sugli aghi lanciati da uno dei temibili assassini (al quale dedica dei veri e propri fermo immagine). In un wuxia, in una coreografia perfetta, si preferirebbe andare spediti e armoniosi, piuttosto che fermarsi.
Però sono righe e righe che blatero e ancora non si sa di cosa. Bene, la trama dulcis in fundo. Tutto parte dal più classico dei McGuffin, la ricerca di un oggetto magico (in questo caso si tratta di una vera e propria salma divisa in due parti) che se recuperato dona incredibili poteri. Ma il punto non è questo, è appunto un semplice elemento trascinante, dinamico. Quello di cui si vuole parlare è altro, una killer efferata che cambia aspetto, letteralmente, dopo un operazione chirurgica e cerca di crearsi una nuova vita, normale, in pace. Si sposa, pensa a una famiglia, ma dal passato non si sfugge e la setta segreta di cui faceva parte, questa cacchio di Pietra nera, torna a farsi viva e minaccia la sua tranquillità, ma ancora di più quella dell'ignaro e innocente maritino.
Il cinema è pieno di questo genere di storie, e questa va poi a finire inesorabilmente nel revenge movie, bisogna semplicemente sapere come trattarla, gestirla. E qui ancora una volta pollice in su. Perchè quando la storia mostra i suoi primi colpi di scena, i suoi plot twist, tutto prende sapore e corpo. In effetti la sceneggiatura è molto più spettacolare dei combattimenti, comunque ottimamente coreografati, ed è il vero punto di forza del film. 
In definitiva è un wuxia da non lasciarsi sfuggire che vede al centro l'eterna Michelle Yeoh, sempre agilissima e  Woo-sung Jung, il nuovo idolo delle giovani cinesi. Se si riesce a non cercare paragoni con Yimou, si può godere di quasi due ore pregne di spettacolo e degna narrazione.

lunedì 6 agosto 2012

Il bianco e il nero #8: La donna dagli occhi viola, Liz Taylor


It was like a punch in the stomach to see her for the first time” Un amico.

La mia prima volta con Liz fu qualche anno fa, con Cleopatra e soprattutto con una scena: l'entrata a Roma della regina egiziana che si inchina davanti all'amato Cesare. Sono 9 minuti di goduria visiva, di manifestazione di potenza hollywoodiana e si concludono con lei, che scende una mini sfinge e fa l'occhiolino, con quegli splendidi occhi viola. Fu subito amore.
Poi vennero tutti gli altri film e l'ammirazione per una delle più grandi e intense attrici da me mai viste.
In questa mini biografia cercherò di parlare il meno possibile dei suoi svariati matrimoni, perchè c'entrano molto poco con il cinema (a parte qualcuno, come il doppio Burton) e perchè Liz non era solo quello, era tutt'altro. E poi li conoscete meglio di me, quindi inutile riparlarne.

Elizabeth Rosemond Taylor nasce il 27 febbraio 1932¹ a Hampstead in Inghilterra da genitori americani, papà mercante d'arte e mamma ex attrice teatrale. La famiglia, originaria di Arkansas City, si trova molto bene in Inghilterra, tanto da non volerla più lasciare, ma l'inizio della seconda guerra mondiale fa cambiare loro idea e nel 1939 si trasferiscono a Los Angeles dove il padre può riaprire presto una galleria d'arte.
Il cambio di indirizzo sembra una cosa temporanea però e la cosa si evince da una circostanza, quando mamma Taylor rifiuta di far fare dei provini a Liz per il ruolo di  Diletta Blue, la figlia di Scarlett O'Hara in Via col vento, ricordando che tanto, una volta finita la guerra, sarebbero tornati a casa nel Regno Unito. Liz però è una bambina troppo carina e amici e gente del settore tampinano la madre per farle accettare uno straccio di colloquio con qualche studios.
Prima incontra Cowdin, capo della Universal (è addirittura Hedda Hopper a presentarli) poi va alla MGM dove L.B. Mayer da l'ordine di metterla subito sotto contratto. Ricordiamo che è pur sempre una bambina di 8 anni. Saputo dell'interessamento della MGM, Cowdin la blinda con un contratto di ben sette anni, senza neanche aver visto il provino, vincendo la battaglia. 
Il suo primo e unico film con la Universal è There's One Born Every Minute del 1942, in pratica storicamente insignificante se non fosse per la sua presenza. Unico film, dicevo, perchè dopo meno di un anno viene licenziata per ragioni sconosciute, anche se si pensa che non fosse all'altezza delle aspettative e che solo quando le fecero un vero provino capirono l'errore. Arrivano persino a criticare i suoi bellissimi occhi, perchè secondo loro la invecchiano. Sarà, eppure è opinione comune descrivere questa bambina come matura, "un'anima vecchia". Nell'epoca di Shirley Temple, è una caratteristica non richiesta.
Nonostante tutto arriva una grande opportunità con la MGM. Babbo Taylor amico di uno dei dirigenti, viene a sapere che stanno cercando un'attrice per il film Lassie e siccome c'è interesse reciproco e Liz era stata trattata molto bene in precedenza, decide di accettare un contratto a lungo termine con loro. Inoltre qui c'è Benny Thau, produttore a cui sarà molto legata e di cui si fiderà ciecamente.

venerdì 3 agosto 2012

L'immondo Profondo #8: Dan O'Bannon Parte 2

Dove eravamo rimasti ? Ah giusto, Dark Star trova un distributore, Carpenter si prende tutto il merito del progetto e O'Bannon rimane con un pugno di mosche. Dopo aver smaltito l'incazzatura però l'artista non rimane con le mani in mano e inizia subito a lavorare su una nuova sceneggiatura, e ancora una volta sceglie un soggetto fantascientifico.
Mi piace pensare che la decisione non sia casuale, forse O'Bannon ha ancora in mente l'idea originale alla base di Dark Star, ovvero quella storia fantascientifica a cui aveva lavorato con John Carpenter e che con il tempo si è trasformata in una parodia a basso budget. O forse, e questa è la possibilità più intrigante, sta cercando di rifarsi della delusione economica e personale di Dark Star; tirando fuori una sceneggiatura geniale dimostrerà agli altri e a se stesso di non avere niente da invidiare a Carpenter, e soprattutto attraverso il suo talento potrà provare che Dark Star è anche farina del suo sacco. Insomma il giocanotto vuole soddisfazione, e si può dire che in un certo senso se la sia presa, perché come vi ho anticipato nella prima parte lo script in questione è quello di Alien di Ridley Scott. Il ragazzo che in Dark Star aveva creato un alieno con un pallone da spiaggia e un po' di vernice è lo stesso che ha contrinuito a creare una delle creature più celebri dell'immaginario horror.
Dan O'bannon e Hans Ruedi Giger
Contribuito perché come sicuramente saprete il design del terribile xenomorfo è stato ideato da Hans Ruedi Giger ma Dan O'Bannon ci ha comunque messo lo zampino. Secondo quanto racconta in varie interviste fu infatti lui a proporre alla Fox di affidare il lavoro all'artista svizzero, la casa di produzione però non prese la cosa troppo seriamente e così O'Bannon fu costretto a contattarlo personamente e a pagarlo di tasca propria per realizzare dei disegni dimostrativi per il design dell'alieno. Sempre secondo le sue dichiarazioni, qualche tempo dopo ricevette una telefonata dalle autorità doganali dell'aeroporto di Los Angeles che lo contattavano riguardo ad una busta indirizzata a lui contenente “illustrazioni pornografiche”. La pornografia in questione erano i primi schizzi del celeberrimo facehugger, evidentemente abbastanza impressionanti da far cambiare idea alla Fox. Giger venne subito coinvolto nel progetto e visto che si dedicò immediatamente alla realizzazione dello xenomorfo fu proprio O'Bannon a rifinire il facehugger secondo le richieste di Ridley Scott.
Ma facciamo un salto indietro di 14 anni e qualche migliaio di chilometri, siamo in Italia nel 1965 e al cinema sta per uscire Terrore nello spazio (Planet of the Vampires in America), il primo e unico film fantascientifico diretto da Mario Bava. La trama si ispira vagamente al racconto breve Una notte di 21 ore di Renato Pestriniero (Bava come O'Bannon è un voracissimo lettore di racconti fantascientifici), e secondo molti ha a sua volta ispirato la sceneggiatura di Alien.
Effettivamente i punti in comune sono numerosi e abbastanza evidenti, piuttosto che elencarveli preferisco farvi un breve riassunto della trama, sperando così di mettervi un po' di curiosità:
L'artigianalissimo Terrore nello spazio
Due astronavi, la Argos e la Galyot, atterrano su un pianeta sconosciuto completamente ricoperto di nebbia (ovviamente i mezzi a disposizione del regista sono limitatissimi, ma non si scappa, la morfologia del pianeta è quella) attirate da un segnale radio indecifrabile (in Alien era una richiesta di soccorso), ma durante la discesa i membri dei due equipaggi perdono i sensi e, quando si risvegliano, iniziano ad uccidersi l'un l'altro senza motivo. L'equipaggio della Argos viene però salvato dall'intervento del capitano (Barry Sullivan) che è riuscito a rimanere cosciente durante la discesa, ma il deflettore di meteore della nave, indispensabile per viaggiare nello spazio, è andato distrutto. Così i superstiti devono raggiungere la nave gemella per recuperare pezzi di ricambio e ripartire, ma improvvisamente i soldati caduti tornano in vita e iniziano ad uccidere.
Dopo poche scene i protagonisti realizzano che i morti resuscitati sono in realtà posseduti da forme di vita aliene incorporee che possono sopravvivere solo all'interno di un ospite (anche qui è difficile non notare una grossa somiglianza, qui si tratta di entità eteree che si appropriano di un corpo, in Alien una creatura si serve di un ospite per completare la sua fase embrionale). Ad un certo punto del film scopriamo anche che questi parassiti avevano già attirato altre vittime sul pianeta, e infatti i protagonisti si imbattono in una nave aliena popolata da scheletri giganteschi che ricordano parecchio lo space jockey (per i non addetti: il gigantesco cadavere alieno che vediamo all'inizio di Alien).
Chi vi ricorda ?
Ho parlato di ispirazione ma si può tranquillamente dire che Alien sia una versione riveduta e corretta del film di Bava, un Terrore nello spazio ad alto budget con tutte le conseguenze del caso, ma queste forme di “ispirazione” sono piuttosto frequenti nel mondo del cinema, l'importante non sono tanto le idee quanto più il modo in cui queste idee vengono utilizzate, o'bannon e Scott comunque dichiararono di non aver mai visto Terrore nello spazio. Resta solo il dubbio su cosa avrebbe potuto fare uno come Mario Bava se avesse avuto gli stessi mezzi a disposizione, ma di questo magari si potrebbe parlare in una delle prossime rubriche.
Tornando a O'Bannon, con Alien arriva finalmente il colpaccio che tanto aspettava e che gli permette di diventare a tutti gli effetti uno sceneggiatore hollywoodiano, negli anni successivi collabora alla realizzazione degli altri episodi della saga degli xenomorfi, compresi i terrificanti Alien vs Predator, e tra le varie cose scrive film come Tuono Blu, Atto di forza, Screamers – Urla dallo spazio, Hemoglobin e Space Vampires.
Nel 1985 scrive e dirige il suo primo film, Il ritorno dei morti viventi, a metà tra horror e parodia romeriana. I fatti di La notte dei morti viventi sono realmente accaduti, ma Romero (anzi, “quello lì” come lo chiamano i protagonisti) ha dovuto cambiare e ridimensionare la storia dopo aver ricevuto pressioni dall'esercito. I morti viventi sono stati incapsulati e spediti in varie località, alcune delle capsule però sono andate perdute e alcune sono finite proprio nel magazzino di materiale sanitario in cui lavorano i protagonisti. Ovviamente i due liberano inavvertitamente uno dei morti viventi provocando la solita inarrestabile reazione a catena che farà risvegliare tutti gli abitanti del vicino cimitero. E qui sta l'innovazione di O'Bannon, i suoi zombie corrono (ma forse il primato spetta a quella chiavica di Fragasso o al Lenzi di Incubo sulla città contaminata, anche se in questo caso non si tratta di veri e propri zombie) non possono essere uccisi con un colpo in testa (anche ridurli in pezzi serve a poco) e sopratutto parlano, anzi, si lamentano di quanto è terribile essere morti e di quanto sia necessario mangiare cervelli per placare la loro tremenda agonia. Uno stranissimo mix di humor e dramma insomma, e secondo me questa citazione vale più di mille parole:

-Hai mai pensato a quanti modi ci sarebbero per morire in maniera violenta ? Oppure Spider, hai mai pensato a quale sarebbe la morte più atroce ?
-Ma io a morire non ci penso per niente.
-Secondo me il modo peggiore sarebbe circondata da vecchiacci, che mi mordono... mi sbranano... mi mangiano viva...
-Si, e poi ?
-Prima mi strappano i vestiti...
-Hey, portate qua le torce, Trash ci fa un altro spogliarello...

Nel 1992 fa un secondo tentativo alla regia con The Resurrected, ispirato ad un racconto di H.P. Lovecraft, ma i produttori gli tolgono il film dalle mani e lo completano con scene che lui aveva precedentemente deciso di tagliare. La cosa lo tormenterà per anni e contribuirà a peggiorare le sue condizioni fisiche e psicologiche, verrà colpito da varie infezioni intestinali che i conoscenti attribuiranno ad una grave forma di ipocondria. Dopo la sua morte, avvenuta il 17 settembre 2009, la moglie rivelerà che O'Bannon soffriva del morbo di Crohn da quasi 30 anni.