giovedì 28 febbraio 2013

Non aprite quella porta 3D di John Luessenhop

Nelle sale dal 28 febbraio
Come recitano trailer e pubblicità varie, oggi torna nelle sale uno dei franchise horror più noti e amati di tutti i tempi. E qui si può riflettere un attimo sulla scelta di parole. Intanto, perché franchise e non saga ? Probabilmente perché quella di Non aprite quella porta non si può considerare tale, e qui urge un ripasso: nel 1974 esce il primo Texas Chainsaw Massacre diretto da Tobe Hooper, horror a bassissimo budget che per la prima volta ci porta tra i freak del profondissimo sud. Nel 1986 Hooper ne dirige un seguito, ma il tono comico-grottesco non convince il pubblico e il film floppa. Il materiale però è troppo buono e ancora troppo poco sfruttato, così nel 1990 esce un terzo capitolo che si può considerare a tutti gli effetti un tentativo di remake (o reboot, insomma i produttori di oggi non si sono inventati niente), seguito a ruota da un quarto film nel 1995. Poi nel 2003 è la volta di un remake ufficiale diretto da Marcus Nispel e co-prodotto da Hooper, che fa conoscere la saga ai giovinastri e rivitalizza il franchise, dando vita anche ad un prequel uscito nel 2006.
L'altra cosa interessante è proprio l'uso della parola franchise, perché ormai non usano nemmeno più i giri di parole, non ci vendono l'episodio di una saga cinematografica, non ci vendono un film, ci vendono un marchio, e noi naturalmente ce lo compriamo (mi ci metto anche io). E questo marchio ce lo siamo anche beccati in anticipo sui tempi, perché a quanto pare l'uscita italiana di Non aprite quella porta 3D (in originale Texas Chainsaw 3D, ma sulla questione del titolo ci torno dopo) è stata anticipata dalla metà di giugno a oggi dopo le “insistenze dei fan”. Ma quali fan ? E di cosa ? Perché un fan dell'originale dovrebbe volere l'ennesimo seguito di un film così profondamente radicato alla sua “epoca” ? E poi il Texas Chainsaw Massacre dei giorni nostri è già uscito, si intitola Killer Joe ed è molto più terrificante di questa fesseria.

domenica 24 febbraio 2013

Gangster Squad di Ruben Fleisher

Nelle sale dal 21 febbraio.
Ognuno di noi ha un'epoca storica preferita e connessa ad essa quella sensazione di essere fuori posto, essere nati troppo tardi o per alcuni troppo presto. C'è chi vorrebbe tornare ai tempi del medioevo e sgaloppare per lande infinite magari per finire a combattere le crociate, c'è chi vorrebbe rivivere la rivoluzione francese e tagliare qualche testa reale (mi associo, soprattutto in questa domenica elettorale), c'è chi vorrebbe vivere negli anni 20, magari nella New York degli immigrati, per vederla crescere e espandersi. Ognuno ha la sua, ma nessuno può raggiungerla. In soccorso, aspettando il viaggio nel tempo, arrivano il cinema e i videogiochi. Ecco io vado pazzo per gli anni '40-'50, come ben si capiva dalla rubrica Bianco e Nero, più nello specifico in America, non obbligatoriamente a Hollywood ma quasi.
Una nazione non toccata direttamente dalla guerra ma con una grande fetta di popolazione di ritorno dal fronte europeo, un periodo storico sempre più florido che mette nelle mani del paese delle stelle e delle striscie lo scettro di dominatori del mondo. Io adoro tutto di quel decennio/ventennio. Le macchine, inguidabili, enormi, ma dannatamente di classe, le pubblicità, ancora così in voga da essere imitate per il loro gusto retro, il cinema e i suoi grandi divi, l'idea della metropoli e della provincia, con le loro architetture, lo sfarzo e il grezzo. Il vero sogno americano al suo meglio.  
Quindi quando ho visto il trailer di Gangster Squad tempo fa, sono quasi entrato in coma orgasmico. Los Angeles 1949, la città è in mano a Mickey Cohen, un ebreo ex pugile dal volto segnato, violento e avido. Il suo obbiettivo è eliminare qualsiasi tipo di concorrenza. Ad ovest di Chicago bisogna fare i conti con lui. Per combattere il suo smodato potere viene istiuito un gruppo di poliziotti, in incognito e quindi senza nessun contatto con la sede centrale o con i colleghi, con un compito molto semplice: non arrestate Cohen, ma ridurlo sul lastrico, tagliargli le gambe sabotando ogni sua operazione in modo tale da sbatterlo fuori dalla città. Il tutto condito da una femme fatale e un sano umorismo, a volte da risata sguaiata addirittura. Ed ispirato da una storia vera.

sabato 23 febbraio 2013

Anna Karenina di Joe Wright

Nelle sale dal 21 febbraio

A quanto pare Hollywood sta riscoprendo i classici della letteratura. Certo non mi azzarderei a parlare di tendenza, ma è un dato di fatto che tra i candidati agli Oscar 2013 compaiano gli adattamenti di due dei più grandi romanzi dell'800, Les Miserables e questo Anna Karenina, due film molto più simili di quanto si potrebbe immaginare.
Proprio come I Miserabili, Anna Karenina è stato portato sugli schermi cinematografici e televisivi un incredibile numero di volte (circa venti), roba da far invidia ai reboot hollywoodiani dei film sui supereroi Marvel, sono così tanti che Greta Garbo ha potuto interpretare Anna per due volte, in un film muto del 1927 e in uno sonoro del 1935. Questa volta ci prova Joe Wright (anche lui inglese, come Tom Hooper) regista di Orgoglio e Pregiudizio, Espiazione e Hanna, ormai esperto di film in costume ed eroine femminili.
La storia è abbastanza nota, ma non si sa mai: l'esuberantissimo “Stiva” Oblonsky (Matthew MacFayden) ha appena tradito sua moglie Dolly (Kelly MacDonald, una professionista del pianto), e per arginare i danni invita a Mosca sua sorella Anna (Keyra Knightley) in modo che interceda presso la sposa disperata. Appena scesa dal treno Anna si imbatte nel giovane ufficiale di cavalleria Aleksej Vronsky e tra i due è subito amore, ma lei è già sposata con l'ufficiale governativo Karenin, e lui è a un passo dal chiedere la mano di Kitty (Alicia Vikander). I due cederanno alla passione sfidando le convenzioni della Russia di fine '800, ma il prezzo da pagare sarà alto.
Joe Wright e lo sceneggiatore Tom Holland (premio Oscar per Shakespeare in Love) da questo punto di vista non ci riservano sorprese e si limitano a ricalcare fedelmente la trama del romanzo, senza stratagemmi narrativi particolari o aggiunte sostanziose, ma anzi, riassumono il più possibile e tagliano brutalmente intere parti della storia non proprio trascurabili. La conseguenza più vistosa è che la storia d'amore tra Levin (Domhnall Gleeson, figlio di Brendan Gleeson) e Kitty, che nel romanzo funzionava da contraltare a quella tra Anna e Vronsky, diventa un elemento del tutto marginale, relegato a un paio di scenette e chiuso in fretta e furia nel finale.
E così la questione “fedeltà al romanzo” è liquidata, dopotutto stiamo parlando di classici della letteratura portati sullo schermo decine e decine di volte. L'unico motivo sensato per riesumarli è tentare di proporre qualcosa di nuovo, Tom Hooper con il suo Les Miserablés aveva portato il teatro e il musical nel cinema, Joe Wright invece porta il cinema nel teatro, letteralmente.

Oscar 2013 - I pronostici dei Filmbuster(d)s



Ormai siamo agli sgoccioli, domani è la grande notte. In attesa della puntatona live dedicata agli Oscar, potete dare un'occhiata ai nostri pronostici e alle nostre preferenze, e magari già che ci siete potete anche commentare segnalandoci i vostri favoriti.

Miglior film

Amour - Margaret Menegoz, Stefan Arndt, Veit Heiduschka e Michael Katz
Argo - Grant Heslov, Ben Affleck e George Clooney
Re della terra selvaggia - Dan Janvey, Josh Penn e Michael Gottwald
Django Unchained - Stacey Sher, Reginald Hudlin e Pilar Savone
Les Misérables -Tim Bevan, Eric Fellner, Debra Hayward e Cameron MackintoshVita di Pi - Gil Netter, Ang Lee e David Womark
Lincoln - Steven Spielberg e Kathleen Kennedy
Il lato positivo - Donna Gigliotti, Bruce Cohen e Jonathan Gordon
Zero Dark Thirty - Mark Boal, Kathryn Bigelow e Megan Ellison

Intrinseco: Qui è dura scegliere, ma di una cosa sono sicuro, l'intruso è Vita di Pi, una robetta accondiscendente che si meriterebbe giusto qualche candidatura per i premi tecnici. E la cosa mi turba ancora di più se penso che manca un colosso come The Master.
I miei preferiti sono Django Unchained, Les Miserables, Zero Dark Thirty e Amour, ma quest'ultima mi sembra più una candidatura simbolica, non credo possa vincere sia qui che tra gli stranieri. Escluderei anche Hooper e Bigelow perché hanno vinto di recente, e Tarantino che non deve vincere per tradizione.
Restano il favoritissimo Argo e uno Spielberg che vorrebbe vincere facile. Anche se far vincere il paraculissimo Re delle terre selvagge sarebbe un colpaccio...
Chi vorrei vincesse: Zero Dark Thirty
Chi vincerà: Argo

Il Monco (che aveva capito poche righe):  E' forse il primo anno in cui arrivo alla notte degli Oscar con tutti i film in concorso visionati. Se dovessi decidere io, Amour non avrebb rivali. Due se non tre spanne sopra tutti. Siccome deciderà l'Academy, dico vincerà Argo con minimo margine su Lincoln e Zero Dark Thirty. Purtroppo il miglior film non è in gara, Moonrise Kingdom
Chi vorrei vincesse: Amour
Chi vincerà: Argo

venerdì 22 febbraio 2013

La mia mamma suona il rock di Massimo Ceccherini

In sala dal 14 febbraio, ma in pratica in nessuna sala.
A nove anni dalla sua ultima fatica, La mia vita a stelle strisce, come regista e dopo tante comparsate in film di infimo livello o peggio (Operazione vacanze di Fragasso, Matrimonio a Parigi, Amici miei come tutto ebbe inizio), Ceccherini è tornato. no non iniziate a spernacchiare e a fischiare, il clown fiorentino, il lucignolo dalle mani coi calli è tornato molto in forma e è pronto a stupire tutti quanti.
Cristiano e Franco sono una coppia di stilisti omosessuali molto inquartati. Sono a un passo dal firmare un oneroso contratto con una super modella quando tutto va in pezzi. Cristiano, nonostante viva un vita felice e agiata con il suo compagno, sente un enorme mancanza: un figlio. Consapevole di non poterlo avere da Franco e impossibilitato dall'adottarlo a causa di grandi potenze come la chiesa cattolica e il governo italiano, finisce per deprimersi e avere un blocco creativo. Franco le prova tutte: l'animaletto esotico, un camaleonte rarissimo; il bambino africano adottato a distanza; il classico cagnolino batuffoloso. Niente, sono tutti placebo che non placano l'istinto materno dell'uomo. La crisi arriva a un punto tale che i due si mollano e Cristiano finisce per smettere di vivere, semplicemente sopravvive. Deambula per casa, dorme la maggior parte del giorno e vaga senza meta la notte. Proprio durante uno di questi viaggi incontra Massimo, il leader alcolista quarantenne di un gruppo rock-punk (i cui membri lo odiano), totalmente ubriaco. Scambiato per un barbone, lo porta a casa sua e lo tratta come il suo bambino appena nato. Lo culla, lo allatta, gli fa fare i bisognini. Massimo, rinchiuso in questa gabbia d'orata e intrisa di follia, tenta spesso la fuga.
Lasciate perdere i pregiudizi, lasciate perdere che è un film del Cecche, lasciate perdere tutto. Non è una trama interessantissima? Non è un dramma contemporaneo/sociale intriso, zuppo di Almodovar? Ceccherini tra una bestemmia e l'altra e tra una ciocca e l'altra (immortalata da un telefonino) riesce a tirare fuori (perchè è attore, regista e sceneggiatore) una delle idee più accattivanti degli ultimi anni. 
C'è una bella e accuminata critica al bigottismo italiano, uno stato controllato dal retrogrado vaticano, che non permette alle coppie gay di adottare un bambino; c'è una lucida analisi della follia umana sotto le spoglie del gigantesco Antonio Fiorillo, inquietante quanto credibile come malato mentale; e c'è infine la prigionia di un innocento che instaura un rapporto di amore odio con il suo genitore/carnefice, un tema che negli ultimi anni va per la maggiore soprattutto nel genere horror (Chained su tutti della Lynch).
Per certi versi La mia mamma suona il rock è il più interessante film di Ceccherini, senza dubbio, è il miglior pure sul lato dei contenuti. Peccato che sia invece, paradossalmente, il peggiore della sua filmografia se andiamo ad analizzarlo dal lato formale.
Strizza l'occhio al grande regista spagnolo, ammicca a Franju e finisce con una grande, veramente, sequenza d'addio al cento per cento burtoniana. Il trenino, il girotondo finale dei diversi sulla giostra, con tutto il paese e il Paese che li guarda schifati. Ma sono felici, soddisfatti e relizzati. Ognuno ha quello che vuole, i cattivi sono sconfitti e nessuno può farci nulla. Un ultimo fotogramma dal sapore di rivalsa, per tutti!

Tutta quella suggestiva sceneggiatura viene affossata da una regia scailba ricca di tempi morti, un umorismo bieco e che latita a partite, dei dialoghi di pessima fattura e soprattutto dei filtri fotografici da sottoprodotto televisivo che lo fanno apparire più come un corto da YouTube che un film per il grande schermo. 
Una produzione alle spalle più ricca e più severa in alcune scelte di Ceccherini (penso che la seconda parte sia più cafona, quasi in maniera imperdonabile, persino per un suo film) probabilmente avrebbero salvato ed elevato un film con ottime premesse. Invece in questo modo, il risultato finale è un brutto film, molto semplicemente, ma che riesce a entrare a pieno diritto nell'universo privatissimo dello strakult italiano. 
Anche sul lato attori ci si potrebbe lamentare, ma non mi sento in grado di dire nulla sul Cecche (sempre vestito da neonato, scene kultissime), il Monni (in un imperdibile parroco avvezzo al footinghe) e il Paci (in un piccolo ruolo come capo dei vigili urbani, la cui sorella è invaghita di Ceccherini) perchè loro sono dei personaggi e non attori. Stupido da Cristina Dal Basso, tanto scema da chiederci se ci fa o ci è. Memorabile il mitico pedinatore assunto da Paci (non so il nome, me possino) e le sue barzellette vecchie e che non fanno ridere, poi dette con quella voce suadente. Di Fiorillo ho già detto, inquietante e imponente. Vanno ricordati infine Lallo Circosta (anche nudo) abituè di Stracult e una Valeria Marini in comparsata.
Purtroppo il Cecche butta in trivialità una delle idee più originale dell'ultimo cinema italiano, rendendo un film ceccheriano veramente ceccheriniano quando invece, per una volta, non serviva il suo tocco. Chissà che un giorno qualche grande regista non lo ripulisca e lo riproponga in chiave più "seria". Occasione sprecata, ma da vedere, perchè merita più che una bocciatura a priori.

domenica 17 febbraio 2013

Die Hard - Un buon giorno per morire di John Moore

Nelle sale dal 14 febbraio

Non ci sono dubbi, per il genere action è tempo di revival a tutti i costi, soprattutto da quando Sylvester Stallone ha avuto la geniale intuizione di riesumare e riunire in un solo film le principali star del cinema d'azione hollywoodiano. E infatti, mentre il secondo capitolo di I Mercenari si apprestava ad arrivare nelle sale, hanno cominciato a fioccare news su tutta una serie di pellicole dedicate singolarmente a questi omoni attempati, un po' come negli spin-off dei cine comics Marvel. Tra quei vecchietti c'era anche Bruce Willis, ma in un certo senso lui non se n'era mai andato, e nemmeno il suo alter ego John McClane, che già nel 2004 era stato protagonista del quarto capitolo di Die Hard, senza dubbio il peggiore della saga, almeno fino a oggi. Proprio in questi giorni infatti è arrivato nelle sale Die Hard – Un buon giorno per morire, quinto capitolo della saga diretto da tale John Moore, che si è fatto le ossa con l'action dirigendo quella chiavica di Max Payne (ma anche i remake di The Omen e Il Volo della fenice), una garanzia insomma.
Dopo una breve sequenza introduttiva ambientata in Russia, il film ci mostra finalmente il nostro grinzoso eroe mentre fa pratica al poligono di tiro. Al suo fianco compare un collega e gli racconta che suo figlio John Jr (Jay Courtney), scomparso da anni, è stato arrestato per omicidio a Mosca. Così in un nanosecondo McClane Senior prepara le valige, saluta la figlia (sempre Mary Elizabeth Winstead, purtroppo in scena per pochissimi minuti) e arriva nella gelida Russia per... boh non è chiaro. Poco importa, perché McClane Junior è in realtà un agente della CIA infiltrato che sta cercando di salvare un pentito al centro di un complotto. Ebbene sì, anche Die Hard cade nel nuovo cliché dello scontro generazionale, quindi largo a decine di battutine sull'età del protagonista e sulla vecchia maniera che però funziona ancora alla grande.
La storia non sta in piedi, ma gli affezionati della saga sono abituati alle situazioni più improbabili, quindi si chiude facilmente un occhio su quello che è semplicemente un pretesto per mettere i protagonisti in condizione di provocare morte e distruzione in quantità. Quello su cui non si può chiudere un occhio è la messa in scena, e qui Die Hard 5 è un autentico disastro, probabilmente a causa di una sceneggiatura scritta in quarantacinque minuti, un'ora a essere generosi.
Nell'arco di due scene McClane decide di partire per Mosca. Non è ben chiaro cosa intenda fare per aiutare il figlio, ma a distrarci da queste domande inutili ci pensano un montaggio velocissimo e uno dei siparietti comici più tristi e stereotipati della storia. In meno di cinque minuti siamo davanti al tribunale e qui comincia la catastrofe: McClane Junior mette in atto il piano per salvare il super testimone, e McClane Senior senza rendersene conto fa di tutto per sabotarlo. Insomma il personaggio è stato trasformato in un vecchio rincoglionito: parla da solo, mette bocca dappertutto, sta lì a fissare gli altri che lavorano e soprattutto insiste a guidare anche se gli hanno tolto la patente perché non ci vede più bene. La conseguenza è un inseguimento di una tristezza sconfortante, dove Bruce Willis deve per forza tirare fuori un commento o una battutina ad ogni inquadratura; forse un modo di riempire i numerosissimi tempi morti, oppure un pessimo tentativo di rievocare l'ironia e le frasi ad effetto dei primi film, fatto sta che sentire in continuazione cose come “Io ci provo!” “Sono in vacanza!” “Questi sono pazzi!” è una vera e propria sofferenza, resa più intensa dal pessimo doppiaggio di Claudio Sorrentino che biascica frasi incomprensibili spesso coperte dal suono degli scontri e delle esplosioni, forse per colpa di un mixaggio audio da denuncia.
Ma in fondo si potrebbe soprassedere anche su queste tante “piccole” cose, dopotutto in un film del genere l'importante è assistere a una sana e liberatoria dose di distruzione, e invece niente, Die Hard 5 non concede nemmeno questo. L'azione vera è propria è concentrata in tre micro sequenze principali, ma nel mezzo c'è il nulla cosmico, la noia, cinque o sei linee di dialogo tra padre e figlio dilatate all'inverosimile con pause e silenzi che uccidono. E poi le frecciatine, una tristezza infinita, l'eterna menata “old school” contro “new school”, oppure gli stereotipatissimi cattivoni russi, che ancora ridacchiano di cowboy e americani arroganti, hanno un bel “CCCP” tatuato sulla schiena ma ci ricordano che “Non siamo più nel 1986, Reagan è morto!”. Ah, la sottile ironia...
Insomma Die Hard 5 è un film che ti porta all'esasperazione, talmente noioso e squallido che quando finalmente arriva al dunque non sei più disposto ad accettare il compromesso, non ti diverti, e allora vedi solo quanto sono profondamente stupide e mal realizzate quelle due o tre scenette d'azione, riprese con mano tremolante e senza un minimo d'ispirazione. E poi ti viene una gran tristezza, perché ti rendi conto che oggi è diventato difficile persino realizzare un action genuinamente divertente.
Die hard 4 era così profondamente brutto che non sembrava possibile fare peggio, e invece eccoci qua, con il peggior capitolo della serie e uno dei peggiori film d'azione degli ultimi anni. Una cosa giusta c'è, il titolo, questo è un buon momento per morire, per la carriera di John Moore e per la saga di Die Hard, ma quell'autocitazione in chiusura puzza tanto di nuovo inizio...

sabato 16 febbraio 2013

Kon-Tiki di Joachim Rønning, Espen Sandberg

Speciale Oscar 2013.

Candidato agli Oscar 2013 nella categoria Miglior film straniero. In uscita in Italia: probabilmente direttamente per l'home video, non c'è ancora una data.
Kon Tiki ci riprova. Era il lontano 1950 quando  Thor Heyerdahl portava a casa il primo (seguito solo da un secondo nel 2007 per un corto animato) premio Oscar nella storia della Norvegia per il miglior documentario. Una vera e propria impresa ma nulla in confronto a ciò che il documentario raccontava. Ovvero la spedizione di Heyerdahl stesso, insieme a un equipaggio di amici e colleghi, dal Perù alla Polinesia. Niente di che direte no? Ma soprattutto che senso ha un tale viaggio? Tutto iniziò nel 1946 quando il nostro Thor, in viaggio/ricerca con la moglie in Polinesia, si rese conto di qualche incongruenza nella flora locale.
Perchè un giorno si trovò in mano un'ananas, frutto tipicamente dell'america del sud. In principio non gli diede peso ma dopo una chiacchierata con un capo tribu, il dubbio e la curiosità aumentarono. L'indigeno gli raccontò che secondo le credenze del suo popolo, l'antico dio del sole Kon (in lingua Inca), arrivò nella Polinesia da est, e non da ovest, ovvero dall'India, come si è sempre creduto. Ma a est non c'è niente per migliaia di kilometri, fino a che non si arriva in sudamerica, dopo aver percorso un intero oceano contro corrente. Se tanto mi da tanto...  Heyerdahl  iniziò a unire i pezzi e teorizzò che l'originaria popolazione della Polinesia provenisse dal Perù.
Propose il suo trattato sull'argomento a diverse riviste e musei americani ma nessuno era particolarmente interessato. Era una teoria strampalata e surreale. Ma il nostro antropologo ne era convinto e l'unico modo per convincere anche gli altri era fare lui stesso quello che migliaia di anni prima fecero altri. Si recò in Perù quindi e costruì una zattera enorme, seguendo scrupolosamente le regole che avrebbero usato gli antichi seguaci del dio Kon per costruire un'imbarcazione. Solo legna, qualche filo e una tela a fungere da vela. L'unico apparecchio "hi-tech" sarebbe stato una radio di bordo per tenere collegato l'equipaggio con la terra ferma e i pochi finanziatori. Il 28 aprile 1947 partì da Callao alla volta dei numerosi atolli e arcipelaghi del sud Asia. Un impresa folle e scriteriata con una percentuale di fallimento e morte altissima.
Altro che un viaggio "spirituale" a bordo di una bagnarola con una tigre come sola compagnia, questa è la vera vita! Eh si è l'anno delle zattere e dell'acqua (The Impossible conferma) ma al contrario dei loro protagonisti difficilmente li vederemo trionfare tra una settimana.
Un film del genere si scrive da solo. Ha tutto quello che serve per trasformarsi in un successone: la storia vera, l'epicità, paesaggi da mozzare il fiato e molto rischio per tenere lo spettatore sempre rigido sulla seggiolina. Stranamente nessun americano ha mai pensato di mettere mano sopra a questa storia orgogliosamente norvegese (già portata in tv negli anni 70).
E direi per fortuna perchè, benchè ogni tanto il duo di registi cada in trappola dei classici cliches di genere, il risultato finale è un ottimo film di intrattenimento senza troppe esagerazioni e senza quei classici personaggi costruiti a tavolino con frasi fatti, gesta eroiche e qualche cromosoma in meno quando più conta.
Come detto ogni tanto casca nel già fastidiosamente visto, come se fosse obbligatorio mettere le classiche scenette, a mò di punti cardine per lo spettatore medio che sennò non riconosce il genere del film. L'action ha le sue, l'horror idem, l'avventuroso esotico anche. Dopotutto anche il background famigliare di Thor è stantio (seppur sincero) eppure è gestito e amalgamato in maniera più corretta e sopportabile.
Il ritmo è per l'intera durata sostenuto anche durante gli interminabili giorni di nulla a bordo del Kon Tiki. Senza inventarsi escamotage poco credibili, la regia tiene attento e interessato lo spettatore. Il resto lo fa il bellissimo, seppur misero, paesaggio oceanico. Persino quando entrano in campo i famelici quanto prevedibili squali o quando la zattera incontra la barriera corallina, non ci si lascia andare ad un eccessiva spettacolarizzazione ma si rimane fedeli a una semplice narrazione dei fatti.
La Norvegia va quindi ad inserirsi tra quelle innumerevoli nazioni, capaci di fare una pellicola del genere e di mettere in piedi un comparto video, tra fotografia e computer grafica, di notevole effetto, grazie anche a un budget di 15-16 milioni di dollari, al contrario di noi italiani incapaci di fare qualcosa di diverso o di andare a pescare nella nostra Storia vicende come questa. Viene il dubbio (già espresso durante la recensione di The Impossible) che noi non abbiamo mai fatto nulla di interessante. Facciamo il film sui marò! In ogni caso, occhio che dopo la Svezia degli ultimi anni, sta uscendo forte in vasca 4 anche la Norvegia con degli ottimi film come Headhunters per fare un esempio.

Il cast, in almeno un paio di casi, farà felice il pubblico femminile che potrà godere dei pettorali scuoltorei e abbronzati di alcuni "marinai". E segnatevi il nome di Pål Sverre Valheim Hagen, non solo perchè è difficile da ricordare, ma anche perchè è il Ryan Gosoling norvegese. I due sono due gocce d'acqua. Nessuno dei due è un discreto attore ma tengono la scena discretamente. Non spegnete o abbandonate la sala prima della fine però, perchè passeranno su schermo le mini biografie dei protagonisti post Kon Tiki, tutta gente larger than life, come direbbero gli americani.
Come Heyerdahl seguì con il suo Kon Tiki, la tratta originale, anche Joachim Rønning e Espen Sandberg (Bandidas, il loro film più celebre) tentano di seguire le orme di Heyerdahl agli Oscar e di portarsi a casa una bella statuetta dorata. Purtroppo per quanto buono sia il loro film, quest'anno se la dovrà vedere con quel colosso insormontabile di Amour (candidato anche all'Oscar principale) di Michael Haneke. Detto questo Kon Tiki è un'appassionante lavoro con alle spalle una storia troppo bella e incredibile per non colpire. Non è un film che merita particolare elogi o riconoscimenti ma intrattiene, e a volte, questo basta e avanza.

giovedì 14 febbraio 2013

Noi siamo infinito di Stephen Chbosky

In uscita nelle sale il 14 febbraio.
Questo è il classico film che a scatola apertissima (letta la trama visto il trailer, lette varie info a riguardo, notato le musiche e la frasi) avrei evitato più che volentieri. Siamo dalle parti del: già visto, teen-problems-movie, molta filosofia e canzoni pop. Poi complici buone recensioni e basta, mi sono deciso.
Noi siamo infinito, o per ora meglio conosciuto come The perks of being a wallflower (i vantaggi di essere tapezzeria, letteralmente, ovvero essere nascosti, non notabili dal gruppo, dalla massa) ha come protagonista Charlie, un adolescente molto problematico. Introverso, schivo, con un amico che si è appena tolto la vita sparandosi alla tempia (ma la cosa non viene molto approfondita e ci torno) e con diversi problemi psicologici, è pero molto intelligente e ragazzo modello. Si ritrova però davanti a una missione impossibile; sta per iniziare il liceo, ovvero 1300 giorni e spicci di totale follia, paura e disagio. Per fortuna incontra presto un ripetente impenitente, Patrick, divertententissimo, omosessuale e maltrattato da tutti, e sua sorellastra, Sam, molto carina, uno spirito libero e con un passato da semi zoccola.
Grazie a questi outsiders, e alla cerchia di loro amici di cui fanno parte fan dei vampiri, strafattoni e punkettone-buddhiste, il tempo al liceo passa più facilmente e per la prima volta nella sua vita, Charlie, inizia ad avere degli amici, ad andare alle feste, a provare le droghe, leggere eh, l'alcol, a provare la prima cotta e a divertirsi come un comune teen ager della sua età. Persino le sue malattie scompaiono. Ai lui però, i suoi amici sono tutti all'ultimo anno e lo abbandoneranno presto. Reggerà? Sopratutto anche quando un altro problema del passato riaffiorerà?

The perks of... è un libro di Chboski -no, l'ho scritto giusto, giuro- del 1999 che ottenne ai tempi un grande successo. E' il classico libro che, se letto da un ragazzo nella giusta fase della sua vita e nel giusto mood, può cambiargli la vita o accompagnarlo per un tratto di essa. Adesso Chboski ha deciso di farne un film e a differenza di tanti grandi scrittori e di tanti ottimi libri, è riuscito lui stesso a imporsi con gli studios e a dirigerlo lui, nonostante sia alla sua prima regia.
Primo problema. Il romanzo è in forma epistolare. Lo evinciamo da alcuni passaggi iniziali dove Charlie legge-scrive delle lettere a un amico ipotetico in cui gli fa un quadro della situazione. Questo è il primo grande pregio del film. Lascia una traccia della forma cartacea, ma, ovviamente, siamo al cinema, usa un metodo diverso, senza però far perdere forza e vigore alle sue parole e alle sue immagini nella trasposizione su pellicola. Non male per uno che non è un totale neofita. 
Secondo pregio è quello di creare un ambiente scolastico-adolescenziale molto realistico e credibile. E' vero, c'è il bullo, la stronza, i punk, il secchione, ovvero delle figure straabusate al cinema, ma è anche vero che dopotutto sono quelli gli elementi presenti in ogni scuola del mondo. 
I personaggi che escono, aiutati dalle ottime interpretazioni, salvo una, sono in primo luogo molto reliable, sinceri, e in secondo luogo trascinanti. Sono diversi, da Sam a Patrick a Charlie ma anche Brad e Mary Elizabeth, ma sono tutti ben scritti e ben approfonditi. Il confine tra il solito personaggio da teen movie e tra un buon personaggio da teen movie è molto labile ma quando si sconfina nel secondo, di solito si nota. Come qui. Sembra quindi di essere tornati ai tempi di John Hughes, ma in chiave molto dark. E qui serve approfondire.

I film di Hughes erano così ma molto più felici. Ma erano gli anni 80. Qui siamo negli anni 90, l'epoca della generazione X, della musica grunge di Seattle (echeggia nello sfondo) e del dolore giovanile. Non era tutti yeah! come Molly Ringwald o Andrew McCarthy. E questa è l'unica, seppur sostanziale differenza tra Perks e gli Hughes, tanto che ad un certo punti mi aspettavo di vedere una comparsata della Molly come madre (ma non come quella della Teenager americana).
Altro pregio ancora è quello di trattare temi scottanti come l'omosessualità, durante quell'età, l'abuso, la solitudine, la depressione e un altra cosa che non posso dire, con un certo tatto e una certa leggerezza, se mi si passa il termine. Senza finire nello sdolcinato o il patetico o peggio ancora il predicatorio, riesce a divincolarsela con molta delicatezza e tenerezza senza dimenticarsi una pesante vena di tristezza.
E' un film con personaggi e con un anima molto giovane, molto fresca. Riesce a rapirti coi suoi personaggi e con i suoi racconti, senza ammorbarti o annoiarti. Come una chiacchierata con un amico che può iniziare con lui che ha mille problemi ma che finisce inevitabilmente con tante risate nel mezzo, perchè è così che deve essere la vita.

Vabbè, passo a qualche difettino. Penso che Charlie, che in fin dei conti è si protagonista ma in un film che è anche molto ma molto corale, sia ben caratterizzato. Purtroppo, quando deve cedere il palcoscenico, e diventa quindi quella tappezzeria del titolo, perde un pò di qualità la sua essenza. E così per renderlo un pò più appetibile, cosa di cui non ha bisogno, Charlie deve essere quello che è, quello che ho descritto, ci si gioca un paio di volte la carta dell'ironia causata da biscotti alla marijuana o acidi, che abbassano un pò il livello. Inoltre non mi è piaciuta molto la gestione della scoperta del trauma della sua infanzia, non vado oltre, e dell'amico suicidato. Charlie ha dei problemi e questi sono causati da queste due cose, ma rimangono sullo sfondo e/o quando vengono a galla sono trattati velocemente. Ho detto prima che ho gradito il clima leggero e non ammorbante, ma quando ce vò, ce vò. Sennò sembra che Charlie g'ha ma' di bali, come diciamo dalle mie parti, cioè si lamenta per niente. Eh insomma, l'empatia per Charlie quindi, sia per questi motivi sia per la coralità del film, va a intermittenza.

Concludo con gli attori e tralascio una regia scolastica ma pulita. Grandissima prova di tutti e evidente segnale di una alchimia di gruppo fortissima. C'è divertimento e c'è molto coinvolgimento, anche con lo spettatore. Tutto merito, o quasi, di Ezra Miller (Patrick) semplicemente travolgente. Un tornado che sconquassa tutti ma anche molto bravo nelle sequenze più serie e riflessive. 
Molto bene Logan Lerman (Charlie) anche se quando te lo ricordi in Percy Jackson, ci ripensi... Se la cava meglio all'inizio e tende a scemare ma è notevole comunque. Male, ma non malissimo, Emma Watson e qui mi fulminerete. A me piace tanto ma nelle sue due prove (qui e Marilyn) post HP, non se l'è cavata benissimo. Come Hermione era bravissima, d'altronde c'è cresciuta con quel personaggio, ma altrove, la sua recitazione sembra sempre che abbia appena sentito una battuta di cattivo gusto: rigida, occhi stretti, bocca semi aperta e storta. Qui doveva essere un animo libero ma tende a essere un pò troppo rigidina, anche se nella scena del ballo da salotto da il meglio di se. Ecco se riuscisse a essere sempre così spigliata sarebbe davvero brava.
Bravo Paul Rudd come professore d'inglese à la Detachment (e vince contro Brody seppur con soli 10 minuti di scena), incredibile notare Tom Savini che fa il prof di falegnameria e altra protagonista è la musica, anche se io sono lontano da quel tipo di musica e l'ho notata molto poco (ecco la scena in cui sentono Heroes di Bowie in galleria, dove viene proferito il titolo italiano. Bella, visivamente e concettualmente, poi rende anche l'idea dell'epoca pre internet quando lei dice "che bella canzone ma cos'è?". Si, ma come, Heroes? Dai siete esperti di musica e non la conoscete?).

In definitiva, Noi siamo infinito, è un ottimo film sull'adolscenza, trattata con molto tatto e delicatezza, con un cast fenomenale. Certamente vale una visione quando uscirà in Italia.

lunedì 11 febbraio 2013

Speciale Oscar: la guida definitiva per la nottata

oscar"E vorrei ringraziare..."
L'inizio di migliaia di discorsi fino ad oggi.

Siete carichi?! E' di nuovo quel periodo dell'anno, siamo a fine febbraio e sta per arrivare la cerimonia degli Oscar! Evviva evviva. Nottata noiosa riassumibile in 10 minuti scarsi sto arrivando. Eppure non si riesce a starle lontani. Ogni anno è peggio, più lunga, più noiosa, più vuota e colma di pubblicità, ma ogni anno ci caschiamo. Come si fa a dormire mentre il nostro cervello continua a rimuginare su chi potrebbe vincere questo premio o quell'altro. Perchè nei giorni prima c'è la lista con le nostre previsioni, nelle settimane prima la corsa a vedere tutti ma proprio tutti i film, pure quello kazako nella categoria per gli stranieri. E si catalogano le prove degli attori, la bellezza dei costumi, la giustezza del montaggio audio e video, la solidità delle sceneggiatura.
E' una bella sensazione, è come la finale dei mondiali di un sport a cui teniamo. Si fa in compagnia, si fa il tifo da ultras, si commenta di tutto, persino gli abiti degli attori sul tappeto rosso. E poi tutto finisce e siamo tutti pronti a dire "eh ma gli Oscar non contano nulla, non premiamo mai chi merita davvero". Va sempre così, gli Oscar hanno importanza finchè non vengono assegnati.
Quest'anno sarà un'edizione molto interessante, sia per i film in gara (gli americanissimi Lincoln e Zero Dark Thirty, l'indie Re delle terre selvagge, il canoro Les miserables e tanti altri ancora (trovate tutto nel nostro blog)) sia per la conduzione, affidata a quel pazzo di Seth McFarlane che potrebbe essere molto scorretto e offensivo. Speriamo.
Dunque manca poco, due settimane circa, cerchiamo quindi di arrivare preparati. Negli ultimi giorni si sono snocciolati tanti numeri su questi Oscar. Io ve li o riassunti, insieme a tante curiosità e aneddoti. Godeteveli. E fate le vostre previsioni!
UPDATE: Qui un altro speciale sulla statuetta stessa e l'uomo che l'ha ispirata.

Non so perchè, ho scelto di usare ogni lettera dell'alfabeto per un argomento. Di solito lo aborro ma ...è andata così.

A: E visto che la A è la prima lettera dell'alfabeto, parto con il primo vincitore degli Oscar. Era il lontano 1929 e ad aggiudicarsi la statuetta più ambita per miglior film vinceva Ali (Wings) di William A. Wellman con Clara Bow, Charles "Buddy" Rogers e un giovana Gary Cooper (fidanzato con la Bow). Ali vinse a due anni dalla sua uscita nelle sale americane ed è rimasto per tanti anni l'unico film muto ad aggiudicarsi l'Oscar per miglior film. 84 anni dopo The Artist lo ha raggiunto in questo club privatissimo. Ai tempi il sonoro era appena nato e Il cantante di Jazz (il primo film sonoro) vinse un premio speciale.
Ali ha avuto una nuova distribuzione americana nel 2012.

domenica 10 febbraio 2013

Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow

Nelle sale dal 7 febbraio

Quasi non sembrerebbe, ma dall'11 settembre 2001 sono già passati più di undici anni, undici anni in cui il tema del terrorismo si è gradualmente allontanato dalle nostre pagine di cronaca fino quasi a scomparire, almeno qui in Europa. In America naturalmente le cose sono andate in modo leggermente diverso, e la questione è rimasta sempre a galla, spesso sussurrata con un po' di deferenza, ogni tanto gridata a squarciagola in qualche talk show dissacrante. Ma le domande erano sempre le stesse: che fine ha fatto il terrorista più pericoloso e ricercato del mondo ? E perché una potenza bellica come gli Stati Uniti dopo dieci anni non è ancora riuscita a stanarlo ?
Già nel 2008 Kathryn Bigelow aveva iniziato a tastare il terreno iracheno con il suo The Hurt Locker, che sicuramente ha rappresentato un buon campo di prova per la messa in scena realistica di operazioni militari più o meno complesse. Oggi, sempre affiancata dal cronista investigativo Mark Boal, porta sullo schermo questo Zero Dark Thirty (mezzanotte e mezza in gergo militare, l'ora in cui si svolge l'assalto), nato come ricostruzione di una ricerca infruttuosa durata oltre dieci anni e poi riscritto da zero in seguito all'eliminazione di Osama Bin Laden avvenuta il 2 maggio 2011.
I fatti più importanti li conosciamo tutti, ma la trama li costeggia dal punto di vista di Maya (Jessica Chastain, sempre più bella, ma come fa ? Come ?) personaggio liberamente ispirato alla vera agente della CIA che ha dedicato dodici anni della sua vita e della sua carriera alla ricerca di Osama Bin Laden, rendendo possibile il suo ritrovamento. E la prima metà del film riassume come meglio può questi dodici anni, soffermandosi in particolar modo sui principali attentati terroristici che li hanno segnati, da Madrid nel 2004 fino a quello di Camp Chapman nel 2008, in cui persero la vita vari agenti della CIA. Parallelamente assistiamo ad una lunga estenuante indagine che procede a passo di lumaca tra lungaggini burocratiche, scarsità di fondi e scandali sulla pratica della tortura, fino all'irruzione dei Navy Seals nella fortezza di Abbottabad.

sabato 9 febbraio 2013

Warm Bodies di Jonathan Levine


Warm Bodies streaming torrent
Nelle sale dal 7 febbraio.

Il modo peggiore di vendere un prodotto è renderlo oggetto di feroci pregiudizi e diffidenze: a chi si è occupato del marketing della trasposizione cinematografica di Warm Bodies, romanzo scritto da Isaac Marion, deve essere sembrata un'occasione ghiottissima quella di poterla accostare a un'altra famigerata trasposizione di grandissimo successo economico quale la saga di Twilight.
Stesso produttore, la Summit Entertainment, stesso concept di rielaborazione in chiave romantica di un mito del cinema horror, perfino l'approvazione dell'autrice Stephanie Meyer, innamorata del romanzo del collega!
Tuttavia, il rischio di scontentare tutti è altissimo: i detrattori della saga vampiresca e gli aficionados dello zombie movie, bene che vada, decideranno semplicemente di non vederlo, mentre le orde di teenager si ritroveranno per le mani qualcosa che non è esattamente ciò che gli era stato promesso.
Perché il pregio più grande di Warm Bodies è di non essere una copia carbone di Twilight.
La premessa è di quelle che fanno girare la testa (o qualcosa più in basso) ai fondamentalisti dell'ultra codificato genere: R è uno zombie che, sebbene non ricordi il proprio nome, conserva dentro di se un barlume di umanità e qualcosa che somiglia a un sentimento di rimorso nei confronti delle proprie pulsioni cannibalesche. Addirittura riesce a produrre, di tanto in tanto e grazie a enormi sforzi, dei suoni che sembrano parole. Si ciba del cervello delle proprie vittime per accedere ai loro ricordi ed avere una parvenza di vita e per non arrendersi alla propria condizione e diventare come le creature senz'anima affettuosamente ribattezzate Ossuti.
I pochi sopravvissuti all'apocalisse vivono barricati in una città fortificata da cui escono in piccoli gruppi solo per procacciarsi cibo e farmaci. E' durante una di queste pericolose gite che R divora il cervello di un malcapitato, acquisendone ricordi e sentimenti e innamorandosi, di conseguenza, della di lui fidanzata, Julie, al punto da salvarla dall'aggressione del branco e portarla con se. Per Julie che, essendo da sempre convinta dell'esistenza di una cura all'epidemia zombie, mal sopporta gli atteggiamenti da gestapo del padre, capo militare dei sopravvissuti, si presenta l'occasione di dimostrare la fondatezza delle proprie idee, nonché la possibilità di rivalsa nei confronti del genitore.
Cosa rendeva Twilight un film orribile?
I sentimenti strillati, le pose plastiche dei protagonisti, l'atteggiamento irrispettoso nei confronti del mito del Vampiro, la produzione sciatta e poco curata. Ma sopratutto la totale assenza di ironia.
Basterebbe dire che Warm Bodies non è nulla di tutto questo e chiudere la recensione qui, ma scendiamo nel dettaglio.
Innanzitutto, trattasi di pellicola fortemente auto ironica che non ha bisogno di stravolgere le caratteristiche  dello zombie, facendolo sbrilluccicare alla luce del sole, e che piuttosto scherza sui cliché del mostro, va detto non sempre in maniera intelligentissima ma concedendosi di tanto in tanto discese nello slapstick già percorso da altri (Shaun of the Dead). Essere una creatura ciondolante e verdognola non è né figo né degno di ambizione, non conferisce particolari abilità né offre prospettive desiderabili, anzi è piuttosto una condizione malinconica e degradante dal quale il protagonista tenta di sollevarsi tramite il più nobile dei sentimenti. Più Frankenstein che zombie classico, R è una creatura incompresa che anche quando riesce a tenere a freno i propri istinti resta un cadavere dagli occhi vitrei e la bocca sporca del sangue delle proprie vittime; i riferimenti alla tragedia di Romeo e Giulietta sono evidenti, come ogni amore impossibile che si rispetti, e si palesano nei nomi dei protagonisti e in una scena simbolo. 
Sorprende la bontà della produzione, nessun elemento denuncia la ristrettezza di budget (30 milioni di $) a parte alcuni effetti speciali digitali non esattamente riuscitissimi: buonissime la fotografia, la colonna sonora (a base di pezzi dei Guns 'n' Roses, Scorpions, Springsteen e Bob Dylan) e, sopratutto, le scenografie squisitamente desolanti e decadenti; decente la regia di Jonathan Levine, già autore dell'acclamato 50 e 50, che sebbene si conceda qualche ridondanza, non è affatto uno sprovveduto mestierante. Meritano una menzione anche le scelte di casting: se John Malkovich appare leggermente sprecato nella particina del padre padrone, i due giovani protagonisti convincono senza riserve, soprattutto Teresa Palmer. Evidentemente chiamata per la somiglianza con Kirsten Stewart, fortunatamente ne condivide solo l'aspetto e non le risibili doti recitative.
Qualcosa però non funziona, se nel già citato L'alba dei morti dementi l'equilibrio tra i vari registri era pressoché perfetto, in Warm Bodies spesso e volentieri la parodia e la love story tendono ad essere preponderanti nei confronti del dramma e dell'horror (quasi inesistente), conducendo la pellicola verso un finale a tratti accomodante e tutto sommato prevedibile. Sia chiaro, non si scade mai nella frase fatta stile Baci Perugina che contraddistingueva ogni singola battuta della saga vampiresca della Meyer, e considerato il target di riferimento è già tanto, ma resta un briciolo di rammarico per quello che aveva le potenzialità (non del tutto inespresse, brillante il ribaltamento di prospettiva e la scena madre del “sanguinamento”) per essere qualcosa di più di un buona teen rom-comedy.


giovedì 7 febbraio 2013

Filmbuster(d)s - Episodio #23

Si fa fatica a stare dietro a così tante uscite settimanali, specie se poi i film si rivelano, come sta succedendo in questo inizio di 2013, così buoni. Ma noi di Filmbuster(d)s siamo sempre qui, a guidarvi nel mare magnum di possibilità affinché scegliate il film giusto per passare una piacevole serata. Poi oh, l'avevate già capito da soli che un film d'azione con Schwarzenegger bolso e invecchiato era da evitare, no?


Nel 23° episodio di Filmbuster(d)s:

[00:02:00]The Last Stand
[00:06:35]The Impossible
[00:25:53]Les Misérables
[01:01:00]Looper








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La storia dello Studio Ghibli - 1 di 3

studio-ghibli-logo
"Alla base di ciò che vogliamo creare e che desideriamo mostrare non dovrebbe esserci qualcosa di prestabilito, dettato dalla moda. Ci dovrebbe essere qualcosa che ci portiamo dentro da sempre, è per questo che le mie idee sono così difficili da realizzare." 
- Hayao Miyazaki -





Gli inizi

Sebbene molti considerino Nausicaa della valle del vento il film d'esordio dello studio, in effetti la sua gestazione e la sua uscita nelle sale precedono almeno di un anno la fondazione e, anzi, fu proprio grazie al successo del film, tratto dal manga seriale pubblicato dalla rivista Animage, che il creatore Hayao Miyazaki e l'amico e collega Isao Takahata, in collaborazione con il gruppo editoriale Tokuma Shoten, trovarono i fondi necessari a mettere in piedi un'azienda dove avrebbero potuto muoversi nell'assoluta libertà creativa. Come molti sanno, Ghibli è il nome libico (la pronuncia corretta è gibli, in italiano Scirocco) del vento che soffia nel deserto del Sahara: fu così che vennero ribattezzati i Caproni ca.309, gli aerei da ricognizione italiani che sorvolavano la zona durante la Seconda guerra mondiale. Miyazaki, appassionato di aviazione, decise di battezzare così il proprio studio perché avrebbe simboleggiato alla perfezione l'ideale di portare qualcosa di nuovo e entusiasmante nel panorama dell'animazione giapponese. In parole povere, avrebbe soffiato un nuovo vento. E nuovo vento, effettivamente, soffiò: in Giappone si producevano sopratutto serie televisive o lungometraggi tratti da esse dal budget ridotto, che lasciavano agli autori spazi di manovra praticamente inesistenti. Studio Ghibli divenne non solo la casa di Miyazaki e Takahata, ma un rifugio sicuro anche per altri registi, magari meno conosciuti (sopratutto a causa di una distribuzione nei paesi occidentali meno capillare), come Yoshifumi Kondo (I sospiri del mio cuore), Tomomi Mochizuki, Hiroyuki Morita e i più recenti Goro Miyazaki (figlio di Hayao) e Hiromasa Yonebayashi, regista di Arrietty. Della “famiglia” fa anche parte il compositore Joe Hisahishi, autore delle colonne sonore della maggior parte delle opere dello studio nonché di moltissime pellicole del regista giapponese Takeshi Kitano. Il primo film dello Studio Ghibli, prodotto per un anno a partire da giugno del 1985 e uscito nelle sale giapponesi il 2 agosto 1986, fu Laputa - Castello nel cielo (Tenku no shiro Ryaputa) distribuito nelle sale italiane ben 26 anni dopo e per un solo giorno, il 25 aprile 2012, con il titolo Il Castello nel cielo.

Laputa-il-Castello-nel-Cielo-8137 Scritto e diretto da Hayao Miyazaki, il soggetto fu ispirato da una lettura giovanile del maestro, ovvero I Viaggi di Gulliver di Johnatan Swift, dove si raccontava di una città del cielo, Laputa appunto: Sheeta, una misteriosa ragazzina, è in possesso di una strana pietra che la salva da una caduta facendola fluttuare tra le braccia di Pazu, un giovane orfano che la aiuterà a fuggire dai suoi aguzzini, interessati a impossessarsi della pietra proprio per raggiungere il castello del cielo di Laputa, al fine di depredarne i leggendari tesori. Si possono già riscontrare i tratti distintivi del cinema di Miyazaki, sia dal punto di vista formale che contenutistico, fra tutti la cura per i dettagli maniacale e le influenze da culture occidentali. Le divise dei militari fanno il verso a quelle dell'esercito tedesco della prima guerra mondiale, mentre il villaggio è ispirato a un borgo del Galles che Hayao San visitò nel 1984 durante lo sciopero dei minatori: tornato a casa si dichiarò “Pieno d'ammirazione per quegli uomini che lottavano per il proprio lavoro e per la famiglia” e ammise l'intenzione di “riflettere la forza di tali comunità” nel suo prossimo film. Sul piano tematico, i macro argomenti, che tutti conoscono e che in futuro ricorreranno nella filmografia dell'autore, sono l'antimilitarismo e l'ecologismo; inoltre, è già possibile rilevare delle costanti dello stile narrativo di Miyazaki: la giovane protagonista femminile, l'amicizia con un coetaneo dell'altro sesso, l'avventura e il lavoro intesi come processo di crescita e maturazione nonché di emancipazione dal mondo dei bambini, le adorabili canaglie che finiscono per aiutare i protagonisti, l'avversione per la sete di potere umana. Sebbene il tratto e i fondali siano meno elaborati e dettagliati dei lavori più recenti, Il Castello nel cielo resta un meraviglioso esempio di animazione fantasy, immaginifico e potente, pieno di dolcezza e buoni sentimenti senza essere mai stucchevole; una pellicola che tutti dovrebbero recuperare e un ideale punto di partenza per i neofiti. In madrepatria fu un successo di pubblico, scongiurando le paure e i dubbi di Miyazaki stesso sulla sopravvivenza della propria azienda, e sopratutto di critica: ricevette infatti innumerevoli premi tra i quali il Noburo Ofuji Award ai Mainichi Film Award e il premio della rivista Animage come miglior anime dell'anno. Due anni dopo, nel 1988, Studio Ghibli si apprestava a distribuire due film che avrebbero dimostrato come la libertà di espressione e la molteplicità di stili e idee fossero dogmi incrollabili della politica aziendale.

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Difficile pensare che Il Mio vicino Totoro di Miyazaki e Una Tomba per le lucciole di Isao Takahata, usciti lo stesso giorno (il 16 aprile 1988) nelle sale giapponesi, fossero entrambi prodotti della stessa factory; e invece le due pellicole furono addirittura concepite come due mediometraggi da distribuire nelle sale insieme, in una Double Feature simile all'operazione Grindhouse di Tarantino e Rodriguez. Quando infatti Miyazaki propose il soggetto di Totoro alla Tokuma Shoten, i piani alti dell'azienda risposero con un secco no; piuttosto, il direttore di Animage, Hideo Ogata propose un film luminoso ed esaltante che parlasse della vitalità dei bambini giapponesi nel dopoguerra. Nell'attesa che si trovasse un soggetto adatto all'idea di Ogata, Toshio Suzuki, produttore che nel 1991 entrerà nello Studio Ghibli, lesse un racconto semi-autobiografico di Akiyuki Nosaka intitolato Una Tomba per le lucciole, basato sulle esperienze vissute durante la Seconda guerra mondiale, e ne propose la produzione alla Tokuma che rispose di nuovo con un no. Tuttavia la casa editrice del racconto, la Shinchosha, si dimostrò interessata a trarne una pellicola d'animazione. Fu così che nacque l'idea di accompagnare al mediometraggio da 60 minuti tratto da un bestseller (il racconto vendette ben un milione e trecentomila copie) quello della stessa durata basato sul misconosciuto soggetto di Totoro. Tuttavia durante la lavorazione i film si "ingigantirono" e nacquero i due lungometraggi indipendenti che oggi tutti conosciamo. Il Mio vicino Totoro è una pellicola bucolica, minimale e spensierata in cui due piccole sorelline, Mei e Satsuki, si trasferiscono insieme al padre in una città di campagna vicina all'ospedale dove è ricoverata la madre gravemente malata. Le lunghe giornate diventano così l'occasione per scoprire la natura circostante e fare la conoscenza con una serie di strane e simpatiche creature tra le quali il Totoro, uno spirito buono che assomiglia a un incrocio tra un orso, una talpa e un procione (e che diventerà il simbolo dello studio) e il Gattobus, un autobus con il muso di gatto e dodici zampe al posto delle ruote. Il film è in parte autobiografico, infatti quando Miyazaki era bambino fu costretto a trasferirsi insieme ai fratelli per stare più vicini alla madre, malata di tubercolosi spinale; le protagoniste del film sono ragazzine perché, secondo l'autore, sarebbe stato troppo duro scrivere e dirigere una pellicola del genere con personaggi maschili che gli avrebbero inevitabilmente fatto riaffiorare ricordi dolorosi. Inizialmente la protagonista doveva essere la sola Mei, nome giapponese per indicare il mese di maggio, ma poi la produzione decise di inserire una sorellina più piccola e di chiamarla Satsuki, che è il nome in giapponese arcaico dello stesso mese.

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Una tomba per le lucciole, scritto e diretto da Takahata, è invece uno dei film d'animazione più crudi, realistici e disincantati della storia del cinema. Denuncia tutta la sua spietata durezza sin dall'incipit dell'opera: a raccontare la sua storia è il fantasma di un adolescente morto di inedia per strada a Kobe il 21 settembre del 1945, fra l'indifferenza dei passanti. Tramite un flashback, Seita ci racconta di essere rimasto orfano, insieme alla sua sorellina Setsuko, durante il bombardamento aereo di Kobe nel giugno dello stesso anno e di aver dovuto sopravvivere senza l'aiuto di nessuno per mesi, fino all'epilogo che già conosciamo. Un film tremendo, che strapperebbe fiumi di lacrime a chiunque, ma anche un film che denuncia la mentalità retrograda e autolesionista della società giapponese bellica, nonché gli orrori di una guerra che non risparmia nessuno, nemmeno chi come i bambini andrebbe salvaguardato. All'uscita nelle sale il 16 aprile 1988, molte scene ancora non erano pronte e furono montate in bianco e nero; Takahata sostenne che fosse un effetto voluto, tuttavia i lavori furono terminati il 30 aprile e la versione definitiva vide luce solo successivamente in VHS. Altra piccola curiosità: i contorni dei personaggi sono colorati in marrone che, a differenza del tradizionale nero, rendono le figure più morbide e realistiche. I genitori dei bambini in lacrime, terrorizzati dalla crudeltà delle immagini di Una Tomba per le lucciole, non mancarono di protestare nei confronti di una scelta tanto infelice; ironico che senza questo film, la favola di Totoro non sarebbe mai potuta esistere. E' una delle geniali "contraddizioni" di uno dei migliori studio d'animazione della storia del cinema. [Continua...]

Articolo originariamente pubblicato sul sito www.themovieshelter.com

mercoledì 6 febbraio 2013

Re della terra selvaggia di Benh Zeitlin

Riproponiamo la recensione di Beasts of the southern wild pubblicata il 27 dicembre 2012 in vista dell'imminente uscita nelle sale italiane.

In uscita in Italia il 7 febbraio 2013.

Il film più premiato di questo uscente 2012. Ovunque sia stato invitato o abbia partecipato, ha portato a casa qualche premio. Da Cannes al Sundance, suo vero territorio di caccia, dal Deauville all'Hollywood festival fino ad essere inserito nelle top 10 annuali del British Film Institute (che gli ha anche conferito un altro premio) e dell'AFI. Non solo, è presente in quasi tutte le top 10 o top 5 dei maggiori critici oltreoceano, aspettando che anche quelli di qeusta parte del mondo lo vedano. E' ufficialmente il film dell'anno, da un certo punto di vista eppure, manca completamente ai Globe e agli Oscar (e qui tuoneranno i vari detrattori delle due manifestazioni).
In un clima del genere sono finalmente riuscito a vedere questo Beasts, ancora inedito in Italia ma già recuperabile in una copiosa versione Blu Ray. Aspettative alte, bollino Fox Searchlight come garanzia, personalissima top 5 annuale pronta ad essere aggiornata ma qualcosa è andato storto. Dunque vediamo...
Un assaggio di trama. Siamo in un futuro ipotetico/presente alternativo dove il mondo è formato da alcuni isolotti di varie dimensioni in seguito allo scioglimento dei ghiacciai. L'equatore è diventato letteralmente una enorme diga che divide il sud del mondo, povero e desolante, dal nord, industriale e ricco.
Le vicende di Beasts hanno luogo nel sud, più precisamente a Bathtub, vasca da bagno, un villaggio-comunità composta da alcuni illitterrati, poveri e socialmente inetti. Tra questi c'è Hushpuppy, l'eroina del film, un afroamericana di soli 6 anni che vive con papà Wink. Vive con per modo di dire perchè Wink non la vuole con sè, essendo malato terminale e ricordandogli lei la madre scappata proprio dopo la nascita. Un giorno la natura si ribella e un enorme inondazione spazza via tutto.
Rimangono vivi in pochi, poco prima di essere portati via da alcuni membri del "mondo del nord", in un ospedale e in una struttura per rifugiati. Qui Wink viene trattenuto per via della sau malattia, mentre Hushpuppy riesce a scappare e durante un lungo viaggio finisce forse per ritrovare la sua mamma, che tanto gli manca. E il tutto senza dimenticare gli auroch, queste belve gigantesche tornate in vita dall'ibernazione millenaria nei ghiacciai.
Opera prima del regista newyorkese trapiantato a New Orlens, Benh Zeitlin e del suo collettivo, di amici, familiari e artisti, Court 13, è una trasposizione dell'opera teatrale ad un atto di Lucy Alibar, Juicy and Delicious. Beasts of the Southern Wild (nome tratto dal poema del 1789 di William Blake, Little Blakc Boy) è un film in eterna sospensione tra favola e documentario, due elementi antitetici. Da una parte c'è una regia minimalista, artigianale, piena volutamente di imperfezioni, che traccia con un occhio critico un disegno della situazione di una certa parte del mondo. Dall'altra c'è Bathtub, gli auroch, un mondo immaginario. Nel mezzo c'è Hushpuppy, la tipica ragazzina di colore immersa in un ambiente di profonda povertà che vede e immagina un mondo tutto suo, grazie all'incredibile forza di ogni bambino della sua età. Salta subito in mente uno Sciuscià o Miracolo a Milano, il neorealismo che si fonde con una chiara analisi del tessuto sociale. Oggi lo chiamano realismo magico, fantastico.
Quello che però fà Beasts -in più- è realizzarlo tramite una metafora, un'allegoria per tutta la durata del film. Leggendo la trama non si può non pensare all'uragano Katrina, ancora di più se andando a fondo si scopre che il film è girato nella Lousiana, a pochi km da New Orleans, e che Zeitlin vi si è trasferito da qualche anno.
La suddivisione in base alle possibilità economiche in fasce o zone, un mondo costretto a essere sommerso e a scomparire, il riccone che prima chiude fuori il poveraccio e poi gli tende una mano quando è agonizzante, la natura che si ribella, soffocata dall'uomo. Una visione impietosa.
E però una visione attraverso gli occhi di una bambina -e il soffocamento potrebbe essere quello del mondo adulto su quello creato dall'immaginazione fanciullesca-. Potrebbe essere tutto semplicemente un'allegoria nell'allegoria, ma mi sento molto solo nell'avallare questa tesi, quindi la lascio lì nell'aria. Tuttavia tutti questi elementi politico-sociali non sono mai enfatizzati in maniera eccessiva.
Beasts si avvale di una grammatica e di un linguaggio tutto suo. Non è narrazione classica, si tratta più di una esperienza che di una storia, di un racconto per immagini, sconfina nel campo della poesia. Perciò, e può sembrare, strano è un film difficile da comprendere, non da capire, e da godere a pieno. Questo rende i suoi risultati ancora più sorprendenti perchè al contrario dei classici film indie, non è per un pubblico generalista. E' inutile quindi lamnetarsi della mancanza di concentrazione verso certi apsetti dello svolgimento della trama, della superficilità del rapporto tra padre e figlia o di alcuni passagi in generale. E' immune quindi a una critica ragionata.
E' grezzo nella forma a nel contenuto e non potrebbe essere diversamente. Anche per questo mi fanno sorridere alcuni paragoni, non necessari, con Tree of life.
Ho avuto parecchi problemi nel dare un giudizio definitivo su questo film. Non so se mi sia piaciuto molto o mi sia dispiaciuto. Rimango in una fascia a metà tra questi due estremi. Non sono abbastanza colto o dotato di necessaria esperienza, probabilmente, per comprendere oltre una semplice analisi. E' forse il film più particolare e innovativo dell'anno -sul più poetico posso tirare fuori esempi che ho gradito di più ma forse meno poetici in senso letterario-, e proprio per queste ragioni non riesco a metterlo nella mia top X.
Se però voi siete tra quelli impazziti per il film, vi consiglio di guardare Glory at the Sea (intero su Youtube), un corto sempre di Court 13 e Zeitlin che in pratica è un Beasts prima bozza in 25 minuti. E' sempre presente la voce fuori campo di una bambina come le eccezzionali musiche e un personaggio chiave, ed anche la citazione ai Campi Elisi, una delle chicche nel finale del film. Chiudo unendomi al coro degli entusiasti della giovane Quvenzhané Wallis, che come il suo babbo filmico Dwight Henry, è alla prima esperienza recitativa.

sabato 2 febbraio 2013

Filmbuster(d)s - Episodio #22

Se non ci hanno denunciato per quello che abbiamo detto nell'ultimo episodio vuol dire che siamo invincibili.
E cosa fanno gli invincibili il giovedì sera dopo cena?
Parlano via skype di Lincoln di Spielberg e di Flight di Zemeckis che, per farvi qualche anticipazione, ci sono anche piaciuti sebbene con qualche riserva.

Nel 22° episodio di Filmbuster(d)s:

[00:04:10]Lincoln
[00:43:15]Flight










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