venerdì 30 novembre 2012

Holy Motors di Leos Carax

Proiettato al Torino Film Festival 
Ma anche a Locarno qualche mese fa, e ancora prima a Cannes da cui, secondo molti recensori, sarebbe uscito come vincitore morale. Apprezzatissimo dalla critica americana, e infatti subito acquistato per una futura distribuzione, ed eletto miglior film dell'anno dai Cahiers du Cinema.
Holy Motors è il ritorno dietro la macchina da presa ( di quelle enormi, a cui serve ancora un bel “motore, ciak, azione!”) di Leos Carax che dopo Pola X, il suo ultimo lungometraggio, si era preso una pausa di ben 13 anni, interrotta soltanto dalla regia di uno degli episodi di Tokyo, film a sei mani realizzato insieme a Michel Gondry e Bong Joon-ho.
E proprio Carax è il protagonista della primissima scena del film: un uomo si sveglia in una camera da letto, si avvicina ad una parete ed apre una porta nascosta (la quarta parete ? una selva oscura ?), con un dito che è anche una chiave. La porta si spalanca su una sala cinematografica, una folla siede immobile e con gli occhi chiusi davanti ad uno schermo su cui scorrono immagini ottenute con il cronofotografo di Etienne-Jules Marey, fotografia in movimento, la prima forma di cinema.
Dopodiché fa la sua apparizione Monsieur Oscar (Denis Levant, attore feticcio di Carax e suo alter ego sullo schermo, il vero nome di Carax è infatti Alex Oscar Dupont), all'apparenza un ricco e cinico banchiere. All'apparenza perché appena sale sulla sua limousine bianca (alzi la mano chi ha pensato a Cosmopolis) e inizia a chiacchierare con la sua autista Celine (Edith Scob, protagonista dello stupendo Occhi senza volto di George Franju, a cui è dedicato uno dei tanti omaggi cinematografici del film) capiamo che quello del banchiere è solo uno dei tanti ruoli che Oscar è chiamato ad interpretare. Inizia quindi un'altra giornata di lavoro, e Oscar dovrà attraversare Parigi per vestire di volta in volta i panni di una vecchia mendicante, un attore di scene in motion capture, un musicista, un assassino o Monsieur Merde, lo stesso personaggio che interpretava in Tokyo.
E' difficile parlare di Holy Motors, perché è un film proteiforme e sfuggente come il suo protagonista, un uomo, forse un attore, che trascorre le sue giornate correndo di ruolo in ruolo, interprete per pochi istanti di storie sempre diverse, incontri fugaci, brevissimi spaccati di vita. Impossibilitato o forse incapace di fermarsi, è se stesso solo nel ventre della limousine, a contatto con Celine che forse è l'unica figura reale della sua vita, l'unica oltre al misterioso personaggio interpretato da Michel Piccoli (a cui Carax deturpa quel volto così fanciullesco con una grossa cicatrice) protagonista di un bel dialogo, anche questo fugace, in cui traspare un po' dell'Oscar sotto le maschere, interprete che ha perso la passione per un cinema fatto di macchine da presa sempre più piccole, ma che continua “per la bellezza del gesto” anche se la bellezza sta tutta nell'occhio di chi guarda. Holy Motors è un film sulla finzione e sulla recitazione, che diventa un mezzo per vivere e rivivere diverse esistenze, finché questa finzione non comincia a confondersi con la realtà, o più semplicemente finché la realtà non scompare del tutto e restano solo situazioni artificiali e personaggi fittizi, copie di copie che si incontrano in ruoli diversi sulla stessa scena.
Holy Motors è un film sul cinema e sull'amore per il cinema, anche quando tenta di decostruirlo, una corsa rocambolesca che attraverso le tante interpretazioni di Oscar ci accompagna in una decina di generi cinematografici differenti: fantascientifico, sentimentale, noir, musical (la scena di canto con la bellissima Kilye Minogue, ma anche il piano sequenza con le fisarmoniche) e comico-grottesco (la lunga scena con Monsieur Merde, forse uno dei momenti più alti dell'interpretazione di Levant, di una fisicità impressionante). E' un omaggio a un certo cinema del passato, come nei riferimenti più o meno diretti al già citato George Franju o a Rene Clair, ma è anche incredibilmente moderno e fuori dagli schemi classici, il film perfetto per risvegliare dalla catatonia gli spettatori che abbiamo visto all'inizio. Risvegliare in tutti i sensi, perché Holy Motors, grazie alla struttura episodica e al suo incredibile protagonista è anche genuinamente divertente, un film che fa sorridere di gusto e appaga lo sguardo con soluzioni visive audacissime. E poi c'è Denis Levant, volto bestiale e mimica esplosiva, capace di passare in un solo film attraverso un ventaglio ampissimo di ruoli diversi, una maschera malinconica nascosta sotto tante maschere.
Per la seconda volta in una settimana mi ritrovo a dover usare l'aggettivo "unico", ma non posso proprio farne a meno, quello di Carax come quello di Rob Zombie è un film unico, l'opera di un artista che può permettersi di giocare liberamente con il mezzo cinematografico, di sconvolgerlo e strapazzarlo a piacimento, sconvolgendo e strapazzando anche lo spettatore, per scuoterlo dal torpore di un cinema tutto uguale.

giovedì 29 novembre 2012

Ruby Sparks di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Visto al TFF ma già passato in altri festival precedenti. Nelle sale italiane dal 6 dicembre.
No adesso ditemi voi se la Fox Searchlight, studios che prolifera ogni anno svariati indie movies, ha mai sbagliato un film. Non dico che siano tutti capolavori, ma ogni volta sono prodotti di ottima fattura, con un solido e originale script dietro, con un casting eccezzionale e le musiche più adatte. Insomma ogni volta mettono al mondo l'indie perfetto, a regola d'arte. Sarà che io vado pazzo per questi filmettini non mainstream, ma ogni volta me ne innamoro, mi stregano sempre. Ruby Sparks non è da meno.
L'avevo già adocchiato a Locarno ma non so perchè, non mi fidai. Poi col tempo mi ha convinto sempre più e mi sono lasciato vincere. E che bella sorpresa! Una commedia alleniana con una spolverata di Sofia Coppola. Un gioco divertente e intelligente, metaletterario con un ritmo coinvolgente ed un gruppo di attori scelti a puntino.
Tutti noi abbiamo immaginato almeno una volta la donna/l'uomo dei sogni. Magari non abbiamo un'idea precisa di come debba essere (viso, colore dei capelli, colore degli occhi), è un'immagine sfocata che con il tempo si affina e si delinea meglio, in base anche alle nostre esperienze. Qualcuno di noi riesce addirittura a scriversi sopra, un racconto una immaginaria storia d'amore, una descrizione fin nei particolari di chi è, da dove viene, e soprattutto cosa le piace e cosa non le piace, della persona ideale. Scrivere diventa la creazione di un mondo dove quella persona esiste e noi viviamo con lei, e dove tutto è sotto il nostro controllo.
La stessa cosa è successa a Calvin Weir-Fields (W.C. Fields anyone?), diventato famoso in giovane età per aver scritto un romanzo capace di entrare direttamente nella storia della letteratura americana. Anni dopo lo troviamo con il classico blocco dello scrittore. Calvin è una persona schiva, con molte nevrosi e problemi nel relazionarsi con gli altri. Ogni notte sogna una ragazza, all'inizio vaga, poi più definita. Su consiglio del suo analista, scrive qualcosa su di lei. La cosa gli prende la mano, funziona alla grande e da una paginetta di prova, diventa un racconto di una quarantina di pagine, una vera e propria biografia. Intere giornate dedicate alla scrittura pur di "stare" con lei. Le da un nome, Ruby, un cognome, Sparks, una data di nascità, un luogo di nascità, un background, tutto. Poi un giorno, dal nulla, se la ritrova in casa. La sua mente ha partorito, realmente, una persona. Non è impazzito, non la vede solo lui, è li, in carne e ossa. Ed è proprio come la vuole lui, come l'ha descritta lui. Può nascere del vero amore da una relazione simile?
Essendo una creatura di Calvin, Ruby, può essere modificata in tutto e per tutto. Forme (quello che vorrebbe il fratello di Calvin), idee, orientamenti politici/religiosi/culinari, conoscenza delle lingue, personalità insomma. E qui si solleva un interessante discorso: quanto è moralmente, eticamente? Proprio il fratello, prima che Ruby uscisse dalla carta, ne parlava come una persona finta, costruita, non credibile perchè totlmente diversa dalle vere ragazze e critica la scarsa conoscenza dell'altro sesso di Calvin. Sua moglie, invece, è pazza, incomprensibile, ed è proprio questo a renderla reale. Questo non va bene a Calvin, che ricorre alla macchina da scrivere ogni volta che Ruby inizia a piacergli meno, vuoi perchè si sta stufando di lui, o perchè è troppo lagnosa o troppo appiccicaticcia. Ruby segue quindi gli ordini impartiti. Più sono approfonditi e più sarà sfaccettata lei.
Nonostante sia una sua opera, sfugge al suo controllo, è incapace di farsela piacere in maniera costante. Come una cosa, manipolabile, si stufa presto, la deve ritoccare forse solo perchè ne ha la possibilità. Il problema però non è Ruby, ma è chiaramente lui, così instabile, noioso e banale, rifiutato persino dalla sua stessa creazione. Molti argomenti interessanti e fonti di discussione per una "semplice" commedia romantica.

Zoe Kazan, non solo protagonista ma anche sceneggiatrice, dimostra di essere una degna erede del nonno e dei tanti talenti di famiglia. Scrive un'ingegnosa opera prima, arguta quanto solida e briosa, piena di deliziosi discorsi metaletterari e trovate intelligenti (come per esempio il fatto che Ruby non si materializzi tutto d'un tratto ma che ogni giorno compaia nella casa di Calvin un suo oggetto; mutandine, reggiseno, schiuma e rasoio per depilazione delle gambe).
Un'idea che potrebbe essere uscita dalla mente di Woody Allen, e di fatti, ci sono diverse citazioni, somiglianze con il classico protagonista dei suoi film. Calvin è un Allen di 25 anni, con occhiali a montatura classica, un pò goffo, capelli tendenti al rossiccio, una famigia che lo mette a disagio, continue nevrosi e persino un analista e una BMW decapottabile. Proprio come nel capolavoro di Allen, La rosa purpurea del Cairo, un personaggio esce dalla finzione e si materializza per il desiderio amoroso del fruitore. Non è originale, ma poco importa. Invece quando ci sono quegli inserti musicali, francesi (Une Fraction De Seconde, Ca Plane Pour Moi, Quand Tu Es La) sembra di essere piombati in un film di Sofia Coppola. E' un mix che funziona alla perfezione e accontenta i giovani come i nostalgici, dando parecchio spirito a una commedia che lavora molto di cervello. Una decisione azzeccata da parte dei registi Jonathan Dayton e Valerie Faris, marito e moglie, che riescono a bissare il successo dell'ottimo Little Miss Sunshine, e di trasporre la sceneggiatura con sensibilità e bravura.
Devo per forza poi parlare del cast. Ogni attore è stato scelto per un ruolo che solo lui/lei avrebbe potuto interpretare, incredibile. Dano (coinquilino per davvero di Zoe) nel ruolo del giovane scrittore è perfetto, Zoe Kazan in quello di Ruby idem, tanto caruccia e originale, e poi Max Casella nel ruolo del fratello (personaggio simile in Greenberg), annette Bening come mamma neo new age, Banderas che continua a fare lo spot del Mulino Bianco anche al cinema, e infine Steve Coogan nella parte dello scrittore approfittatore e marpione. Tutti bravissimi e perfettamente in parte e Elliot Gould (mitico) in quella dell'analista.
In definitiva, una grandissima sorpresa, una pellicola fantastica, intelligente e romantica senza essere melensa. Carico di brio e con un bel messaggio finale (meglio vivere che fantasticare) degno di entrare nella lista dei più bei film dell'anno. La Fox Searchlight colpisce ancora.
"Can we start over?". Oh si per favore!

mercoledì 28 novembre 2012

Chained di Jennifer Lynch

In visione al TFF #30 e non so in quali altri festival precedenti.
Ad aprire la sezione Rapporto Confidenziale (di cui fanno parte moltissime interessanti pellicole) di questo trentesimo Torino Film Festival, il 23 novembre, è stata chiamata Jennifer Lynch che ha presentato il suo nuovo film, Chained, in uscita in Italia, direttamente sul mercato home video dal 6 dicembre.
Dopo un pomeriggio passato al cinema, il piccolo Tim e la mamma prendono un taxi per tornare a casa. Purtroppo il conducente ha altri piani e dopo averli chiusi dentro li porta a casa sua dove uccide violentemente la donna. L'uomo è un killer seriale che rapisce le sue vittime e le porta nella sua dimora isolata dove le uccide e in seguito ci fa sesso. Accortosi del bambino decide di tenerlo e di usarlo come aiutante; dovrà pulire il sangue, mettere in ordine, non uscire mai di casa (quando ci prova viene incatenato, da cui il titolo) e preparargli la colazione, oltre che raccogliere tutti gli articoli di giornale che parlano delle sparizioni delle "sue" donne. Gli anni passano e Rabbit, così viene chiamato, levandogli persino il nome, diventa un teenager, istruito dal suo carceriere e sempre più succube. Un giorno l'uomo decide che è il suo turno, tocca a lui andare a caccia, diventare un uomo assaggiando una donna, ma Rabbit-Tim non riesce ad essere un tale mostro e cercherà in tutti modi di non nuocere a nessuno.
Buon sangue non mente, si usa dire. Solo nell'ambito del cinema vengono in mente tanti buoni esempi. Sofia Coppola e Jason Reitman sono i primi che mi vengono in mente e i più recenti. Jennifer Lynch è l'eccezione che conferma la regola. Giunta al suo quarto lungometraggio, fatica ancora a imporsi come una talentuosa regista e ancora meno autrice, incapace di seguire le orme del padre e come stile e come bravura.
Chained sfrutta malamente un'idea già vista ma comunque interessante. Tutta la premessa inziale finisce per perdersi in un ritmo assente e pesante che rende la visione un vero e proprio supplizio. Nessun stravolgimento in grado di dare forza a uno script piatto e nessuno scossone capace di svegliare lo spettatore dal torpore. E' un vero peccato perchè il film è pervaso da un'atmosfera malsana e claustrofobica (e qui si vede di chi è figlia, ma sembra più adottata) che funziona più che egregiamente ma che difficilmente colpisce il pubblico, perso ormai a circa un terzo di film e mai più recuperabile. Perciò le disturbanti sequenze di necrofilia dell'aguzzino o il macabro gioco di memory fatto con le carte d'identità delle vittime, non trova molti svegli e disgustati/deliziati.
Ci prova con un colpo di scena nel finale a metà tra il ridicolo, il patetico e il forzato, fatto solo per non chiudere in manera banale un racconto privo di mordente. Un classico stratagemma di questo genere di film che invece che salvare il salvabile, danno l'idea che la sceneggiatura sia stata scritta con un'idea inziale e un finale geniale -secondo l'autore- ma senza capire come riempire la parte centrale e come farne un lungometraggio.
Notevolissima la prova, anch'essa malata, dei due protagonisti. Un Vincent D'Onofrio spaventoso, con quella sua voce appena comprensibile e un fisico e un'incedere dondolantemente ipnotico. Ed il giovane Eamon Farren, convincente nella parte del fragile ragazzo.
Chained rimane quindi una pellicola "che avrebbe potuto" ma che non è. Difficile capire come e dove andrebbe migliorata (forse farla durare meno) ma facile dire che ce ne si fa a meno di storie di questo genere.

martedì 27 novembre 2012

V/H/S di Adam Wingard, David Bruckner, Ti West, Glenn McQuaid, Joe Swanberg, Radio Silence

Proiettato in anteprima al Torino Film Festival 
A quanto pare il 2011 è l'anno del grande ritorno agli horror a episodi, infatti V/H/S (di cui abbiamo già parlato nella puntata speciale di Halloween) va ad aggiungersi ad un gruppetto di film che purtroppo hanno raggiunto solo un ristretto numero di sale, magari di qualche festival, come in questo caso, o che più spesso sono stati distribuiti direttamente sul mercato home-video, parlo di pellicole come Deadtime Stories, Little Deaths e Theatre Bizarre, o dell'imminente ABCs of death, una raccolta di ben 26 cortometraggi diretti da 26 registi diversi (tra cui gli stessi di V/H/S di cui tra l'altro è già previsto un seguito), nell'attesa potete già dare un'occhiata a T is for Toilet, il simpatico cortometraggio di Lee Hardcastle selezionato tramite un contest: http://www.youtube.com/watch?v=UCmMebE0pIg
Ma veniamo a V/H/S, ovviamente si parla di videocassette, e visto che viviamo nell'epoca dell'horror POV (Point of View) e del mockumentary, il film è girato tutto attraverso delle telecamere a mano più o meno moderne.

Partiamo dalla cornice, che costituisce anche un episodio a se:

-Tape 56 di Adam Wingard (You're next, 2011)

I protagonisti sono un gruppetto di bulli che si divertono a filmare le loro prodezze per poi rivendere i nastri al mercato nero. Qualche macchina vandalizzata, finestre rotte, gonne alzate, pestaggi... ma niente che valga un bel gruzzolo, così accettano di irrompere in un'abitazione per rubare un misterioso nastro. In realtà ne trovano cinque (i cinque episodi), e ogni volta che uno di loro guarda un nastro sparisce nel nulla.
Su questo episodio c'è poco da dire, è più che altro un pretesto per raccontarci le cinque storie e per giustificare la trovata della visuale soggettiva, a parte questo è piuttosto noiosetto e ogni volta non si vede l'ora che venga inserito il nastro successivo.

-Amateur Night di David Bruckner (The Signal, 2007)

Tre ragazzi allupati, una camera d'hotel e un paio d'occhiali con una telecamera nascosta. L'obiettivo è far ubriacare qualche donzella indifesa, portarla in camera e filmare tutto il fattaccio, purtroppo i tre malintenzionati rimorchieranno la ragazza sbagliata...
Uno degli episodi più divertenti, si presta particolarmente al formato breve e ricorda moltissimo i classici racconti horror televisivi, dove il viscidone di turno da predatore si trasforma in preda e viene in qualche modo punito per le sue malefatte. Una computer grafica scadente ben mascherata dall'oscurità e dalle inquadrature mosse. Buona anche se un po' forzata la trovata degli occhiali, che permette di mostrare tutto senza dover giustificare la presenza della telecamera.
Da ricordare anche per la protagonista femminile interpretata da Hannah Fierman, una bellezza veramente straniante.

-Second Honeymoon di Ti West (The House of the Devil, Innkeepers)

Non sto neanche più a ripetere quanto adoro Ti West, ci tenevo a vedere questa antologia proprio per lui e invece il suo è stato l'episodio più deludente del mazzo.
Una giovane coppietta alle prese con la seconda luna di miele nell'ovest dell'America, tra Canyon, deserti e antichi villaggi del Far West. Una notte una ragazza bussa alla loro porta chiedendo un passaggio, loro rifiutano e la notte stessa qualcuno entra nella loro stanza e li film nel sonno con la loro stessa videocamera...
Non c'è nulla che non vada in questo episodio, è semplicemente fiacco e poco interessante. Forse il limite della visuale soggettiva non permette a West di muoversi come vorrebbe, ma è più che altro la storia a lasciare interdetti, quel colpo di scena poi...
Di positivo c'è tutta la parte iniziale, con il discorso tra i due sposini ancora turbati dalla visita notturna della ragazza misteriosa, lì la tensione si fa abbastanza palpabile e i due protagonisti riescono a tirare fuori un'interpretazione quasi spontanea.

-Tuesday the 17th di Glenn McQuaid (I sell the dead, 2008)

Il titolo dice tutto, ci troviamo di fronte ad uno strano omaggio a Venerdì 13 e a tutta quella serie di slasher ambientati in campeggi immersi nella boscaglia.
4 ragazzi decidono di campeggiare per qualche giorno vicino ad un lago. Come da copione uno di loro racconta che il posto è stato teatro di una strage, e ovviamente compare un pazzo in maschera per confermare la storia. Ma...
Banale nella storia ma non nella messa in scena, la prima buona idea è il colpo di scena che ovviamente non rivelo, la seconda è il fatto che ancora una volta la presenza della telecamera trova una giustificazione nuova e sensata, la terza è l'assassino, che per qualche inspiegabile ragione non può essere immortalato dalla telecamera e che quindi diventa una presenza fuggevole e ancora più misteriosa. Simpatico e divertente.

-The sick thing that happened to Emily when she was younger di Joe Swanberg (che interpretava il marito in Second Honeymoon)

Un modo originale di sfruttare il POV, la discussione via Skype tra due innamorati, idea che tra l'altro è stata sfruttata anche in Paranaormal Activity 4, nelle sale proprio in questi giorni.
James ed Emily sono fidanzati, e visto che lui è sempre in viaggio per lavoro comunicano attraverso Skype. La ragazza un giorno si sveglia con una strana escrescenza sul braccio che si gratta fino a provocare un'ulcera, la notte stessa sente degli strani rumori nell'appartamento e contatta James per mostrargli delle misteriose presenze...
Ecco a parte la buona idea di usare la webcam del computer come telecamera non c'è molto altro, sembra proprio di trovarsi di fronte a un Paranormal Activity breve, con un'atmosfera quasi disturbante e un paio di inevitabili salti sulla sedia. Peccato per il tono sconclusionato e involontariamente grottesco dei dialoghi, sorretti da interpretazioni ingessatissime. Ci sono un paio di topless che spiazzano.

-10/31/98 dei Radio Silence ovvero Matt Bettinelli-Olpin, Tyler Gillet, Justin Martinez e Chad Villella, che interpretano anche i protagonisti.

E' la notte di Halloween e tre ragazzi in maschera raggiungono la casa di alcuni amici per partecipare ad una festa. La casa però è deserta e molto più grande del previsto, i quattro decidono di esplorarla finché non raggiungono il solaio dove si sta svolgendo uno strano rituale...
Si conclude con l'episodio più spassoso e adrenalinico, quello del mucchio che riesce a valorizzare di più il formato breve, praticamente un Paranormal Activity senza tempi morti, parte tranquillo e poi si trasforma in un rapidissimo tunnel dell'orrore pieno di mani che sbucano dalle pareti, lampadine che scoppiano e porte che sbattono, veloce, confusionario e divertentissimo.

Insomma V/H/S come molti altri film a episodi è fatto di alti e bassi, e in generale non raggiunge mai vette qualitative entusiasmanti. Però svolge dignitosamente il suo lavoro, mette insieme sei storielle semplici semplici e ce le racconta brevemente, senza darci il tempo di farci troppe domande, come è giusto che succeda in un film antologico. E poi, cosa più importante, recepisce un fenomeno sfruttatissimo come il POV e riesce a riciclarlo in modo relativamente nuovo e intelligente, in pillole, tentando di dare varietà all'uso della telecamera a mano e giustificando in modo originale la sua presenza. Delle storie un tantino più ispirate e una maggiore omogeneità nei ritmi e nella qualità dei singoli episodi lo avrebbero reso un esperimento molto più interessante. Non resta che sperare nel prossimo capitolo...

lunedì 26 novembre 2012

Wrong di Quentin Dupieux + Bobby Yeah

Visto al TFF, ma già proiettato in diversi festival nel corso dell'anno.
No, non mi lamenterò più del caotico TFF e tirerò avanti. Dolph si sveglia una mattina (alle 7.60) e scopre che il suo cane, Paul, è scomparso. Dopo una chiacchierata con il vicino, in procinto di partire per sempre, e una telefonata a una pizzeria, in cerca di una voce consolatrice, sconfortato va al lavoro. Tornato a casa trova davanti alla porta un mazzo di fiori e un bigliettino, "Se vuoi rivedere il tuo cane, chiama questo numero". Quindi dietro alla sparizione del suo amato Paul c'è una banda ben organizzata che rapisce gli animali domestici. Intanto il suo giardiniere gli comunica che dovrà fare alcuni lavoretti nel suo giardino. Fin qui tutto normale no? Bene, adesso scenderò nei particolari. 
Il suo vicino di casa, nega con tutte le sue forze di fare jogging, nonostante lo faccia tutte le mattine da anni, e non riesce a parlare a Dolph se non a circa 50 cm di distanza. Dolph è stato licenziato dal lavoro da circa un mese ma vi si reca ogni giorno, tuttavia all'orario che vuole. Il suo luogo di lavoro è un normalissimo ufficio, se non fosse che piove, anzi, diluvia, dentro tutto il tempo, e nessuno ci bada. La ragazza delle pizze che ha chiamato, si innamora di lui, vuole fare sesso con lui, ma finisce a letto con il giardiniere, che si finge Dolph. La ragazza molla il marito per il finto Dolph e il giorno dopo scopre di essere incinta. La banda ruba-animali è comandata da un certo Mr. Chang, un guru che scrive libri su libri sui cani e la telepatia. Un detective viene assunto per trovare i rapitori del cane e ci riuscirà tramite un macchinario che legge la memoria degli escrementi canini. La palma che Dolph aveva nel giardino si è trasformata in un piccolo abete. Etc.. No, non sono pazzo, nè sto inventando, è tutto nel film.
Mr Oizo AKA Quentin Dupieux è tornato! Dopo aver stranito tutti con il suo Rubber, e allo stesso tempo ottenuto grande fama, il produttore discografico e musicista elettro-beat francese torna alla regia, per il suo quarto lungometraggio (bisogna recuperare i suoi primi due). Chi si era perdutamente innamorato di Rubber, come me, non tema, non è stato un colpo di genio, o un ictus, ma è proprio il modus operandi di questo folle parigino. Wrong, ovvero sbagliato, continua su quella linea surreale che contraddistingueva il precedente film.
E' difficile parlare delle sue opere senza citare ogni singola folle sequenza, perchè è un cinema prettamente fatto di scene, gag, situazioni, più che profondi contenuti o messaggi. Persino la trama, seppur sempre ben scritta e delineata, non ha una importanza centrale.
Il pregio maggiore, e riscontrabile in tutta (spero) la breve (qui invece spero cresca) carriera di Dupieux è quello di costruire un mondo totalmente assurdo, caotico, incredibile, ma allo stesso, paradossalmente, realistico, basato su regole, su una struttura contenitiva, che non solo limita e delimita il nonsense infinito ma lo rende più che accettabile. All'inizio, entrare in un suo film è un esperienza straniante, ma man mano che il tempo passa, si accetta tutto ma si deve andare oltre il semplice patto di finzione, di sospensione dell'incredulità, si firma un vero e proprio manuale di regole, assurde e sensate allo stesso tempo, per cui quando scatta fuori l'ennesima gag senza senso o il personaggio stralunato, non pensiamo che sia wrong, sbagliato, ma che si trovi nel suo contesto più ideale. Sarebbe folle dire che non ha senso o che è fuori posto.
Quindi Dupieux fa un film, appunto, sbagliato, ma così sbagliato che ha fatto tutto il giro ed è diventato giusto, o ggiusto come dicono i ggiovani.
Certo, c'è chi si lamenterà, anche giustamente, lo capisco, che è facile fare film del genere, mettere insieme una serie di gag à la Monty Pythons e dargli un tocco visionario, e che è un pò paraculo. Vero, ma un conto è fare un film del genere e un conto è fare un buon film del genere. Wrong è una commedia dell'assurdo, esilarante dal primo all'ultimo minuto, fatta si di infinite scenette che potrebbero essere a se stanti, ma soprattuto con una struttura (stessa cosa che aveva Rubber) e un inizio e una fine classici. Ovvero, dietro al divertissement più smaccato e sciocco, c'è comunque una storia con una trama. E' per questo che Oizo-Dupieux si distacca dai tanti squinternati che mettono insieme semplici carrellate di idee(ine).
Per concludere, Wrong farà impazzire sia i fans di Rubber che i neofiti. In sala c'era una risata continua contagiosa. per tutti i 90 i minuti. Forse il grande talento umoristico di Dupieux sta nel fatto di dire tante barzellette, con ottime premesse; prepararti alla fragorosa risata, ma poi non concludere la storia, ma tirarne subito fuori un altra. Si è sempre in trazione e in attesa del gran finale, che non arriva, lasciando spiazzati. Tuttavia sta nelle premesse il nocciolo della battuta.
Viva Dupieux e viva i folli come lui.

Prima del film è stato proiettato anche un corto di 20 minuti.
Bobby yeah di Robert Morgan.
Qui il trailer. E' un corto in stop motion totalmente folle che mixa David Lynch con Polanski, il Burton dei primi tempi e gli incubi notturni causati dalla peperonata della nonna. Inutile raccontarne la trama (c'è un simpatico sgorbietto simile a un diavolo che si ritrova con dei mostri mutaforme dotati di un pulsante capace di cambiare il mondo in cui vivono), va visto. Interessante anche il suo autore, Robert Morgan, un tipino, come si può capire dalla sua breve autobiografia. Stralunato e disgustoso, in senso buono, ha stranamente convinto tutta la sala.

domenica 25 novembre 2012

The Lords of Salem di Rob Zombie

Proiettato al Torino Film Festival.

Dei disagi e delle incazzature che bisogna superare per assistere a queste proiezioni se n'è già parlato, ma ci tenevo a raccontarvi brevemente questa brutta esperienza anche dal mio punto di vista, così, tanto per far sbollire un po' di rabbia, e poi in questi casi ripetere non fa mai male. Potrebbe andare per le lunghe, quindi se non siete interessati passate direttamente alla recensione più in basso.
Per evitare code e ritardi avevo deciso di approfittare della possibilità di acquistare un biglietto giornaliero online, visto che per il festival di Locarno si era rivelata una soluzione comodissima. Nel regolamento del Festival c'è scritto chiaramente che biglietti e abbonamenti acquistati online vanno ritirati alle casse dei multisala coinvolti nell'iniziativa, bene, arrivati a Torino scopro che queste casse non sono attive, quindi ci rechiamo all'unica biglietteria visibile (non segnalata) e ci imbattiamo in due code chilometriche. Io mi infilo in quella con l'indicazione “Abbonamenti e Pass” e dopo averla superata tutta scopro che il pass giornaliero va ritirato nell'altra cassa, quella dei biglietti singoli. Quindi il pass giornaliero è perfettamente inutile, devo spararmi un'altra coda interminabile solo per ritirarlo, e devo comunque ritirare i singoli biglietti per i film che intendo vedere. La coda ovviamente è completamente immobile, ci sono un sacco di problemi, le cassiere sono lentissime e molti clienti ne approfittano per comprare in blocco un sacco di biglietti.

sabato 24 novembre 2012

Torino Film Festival: la disorganizzazione è di casa

"Vergognatevi" "E' una truffa" "Mai vista una cosa del genere". Questi sono solo alcuni -i meno scurrili- dei molti inferociti commenti di alcuni spettatori del Torino Film Festival, giunto alla 30esima edizione quest'anno. Festival iniziato ieri e in tempo zero, già sprofondato in un mare di critiche provocate da una disorganizzazione esemplare. Ma andrò con ordine.
Questa mattina, in compagnia del collega Intrinseco, sono partita alla volta del capoluogo piemontese per la mia priva volta al TFF. Lui aveva già comprato un abbonamento online di tipo diurno, valevole per gli spettacoli tra le 9 e le 19, io lo avrei comprato alla prima biglietteria. Il nostro obiettivo era di vederci il tanto atteso Lords of Salem di Rob Zombie e Wrong di Quentin Dupieux. Avendo già partecipato a qualche festival, partivamo preparati (anche grazie a una lettura maniacale della guida) ma non saremmo mai stati in grado di prevedere quello che è successo.
Siamo arrivati alle 9.20 con il primo film, Zombie, alle 11 al Cinema Reposi, praticamente attaccato alla stazione di Porta Nuova. Ora cito il regolamento-guida "L’acquisto dei biglietti e il ritiro di quelli preacquistati avrà luogo presso le casse di tutti i cinema. Apertura casse: Cinema Massimo dal 23 novembre alle ore 13.00, Cinema Reposi e Cinema Lux dal 24 novembre. Le casse saranno aperte da 30 minuti prima dell’inizio della programmazione a 30 minuti dopo l’inizio dell’ultimo spettacolo. Presso le casse dei cinema potranno essere acquistati biglietti e abbonamenti sia a tariffa intera che a tariffa ridotta. Per questi ultimi è necessario presentare documenti (carta d’identità) o tessere convenzionate".
Memori di ciò abbiamo aspettato le dieci circa quando abbiamo trovato per caso un baracchino ufficiale del TFF dove si era già assembrata una discreta coda. Nessuna problema, noi andiamo al cinema e in poco tempo dovremmo sbrigarcela. Prima sopresa. Le case del Reposi non sono aperte, nemmeno uno, anzi una si, dove una signorina aveva l'unico compito di distribuire gli accrediti per i film BLU -una serie di film proiettati al pomeriggio, senza nessun'altra distinzione di nota dagli altri- ma impossibilitata da fare biglietti o abbonamenti. Ecco quindi che il regolamento non è stato rispettato. perchè le casse erano chiuse? Girava voce che è stato fatto perchè erano cinema piccoli -parliamo di multisala, altroche- e si voleva evitare code eccessivamente lunghe o ingorghi. Quindi cosa hanno fatto? Hanno messo una sola cassa per tutta la città, geniale.

Il bianco e il nero #24: L'impassibile Buster Keaton

*(causa impegni, lunghi viaggi e poco tempo, questa puntata andrà "in onda" in edizione breve).

"Il silenzio è degli dei: solo le scimmie ciaccolano".

Da discreto appassionato di film muti e fervente spettatore di commedie, uno dei miei attori (e registi) preferiti è il funambolico Buster Keaton. Con i suoi film riesce sempre a farmi spuntare un sorrisone a 32 denti e a spazzare via in un colpo tutte le delusioni di una giornata storta. La magia terapeutica del cinema! 
Aimè, Keaton è famoso si, ma vuoi perchè appartiene a quei "brutti filmacci senza audio" e vuoi perchè, normalmente viene eclissato dalla mole del collega Charlie Chaplin (anche lui silenzioso ma famoso anche e soprattutto per le pellicole sonore), non ha tutta quella gloria che meriterebbe, ed inoltre raramente il pubblico guarda interamente i suoi film. 
Con questo però non voglio sminuire Chaplin, un altro dei miei preferiti, nè voglio fare un'analisi delle diverse comicità dei due (forse più profonda e celebrale quella di Chaplin, mentre più fisica e malinconica quella di Keaton), voglio solo scrivere due righe su uno dei miei eroi e darvi dei link giusti.

Con una faccia simile si potrebbe pensare tutto di Keaton fuorchè sia un attore da commedia che ha fatto ridere milioni di persone e diverse generazioni. Eppure, senza mai fare la benchè minima espressione, è riuscito a firmare le più belle e divertenti pellicole della storia del cinema. Capolavori come Io e il ciclone, Io e la vacca, oppure Come vinsi la guerra, Calma, signori miei! ed ancora Il cameraman e Il navigatore sono in grado ancora oggi di surclassare commedie infarcite di grandi dialoghi e situazioni spassosissime. Grandi come Woody Allen, Orson Welles, e poi Maurizio Nichetti e Carmelo Bene hanno sempre sottolineato, e omaggiato talvolta, l'importanza di Keaton nel loro modo di fare cinema e di esprimersi. Molti invece hanno voluto lavorare con lui, come Wilder che l'ha inserito nel suo ritratto nostalgico del cinema del passato in Viale del tramonto, o Chaplin con cui ha fatto coppia nel celeberrimo Luci della ribaltà, o ancora Samuel Beckett nell'unico corto da lui scritto ed infine persino gli italianissimi Franco e Ciccio in Due marines e un generale.

Paranormal Activity 4 di Henry Joost e Ariel Schulman

Nelle sale dal 22 novembre.
E siamo a 4. La saga mockumentary horror più famosa del mondo aggiunge un altro, ennesimo, capitolo. Ma cosa si saranno inventati stavolta gli sceMeggiatori? Protagonista è una famiglia con due figli, Alex, una quindicenne molto bellina, e Wyatt di cinque o sei anni. Ogni giorno, da un pò di tempo, capita a casa loro Robbie, il bambino della casa di fronte. La giovane mamma è sempre via e sentendosi solo cerca in Wyatt un compagno di giochi. Una notte accade un incidente alla madre di Robbie e il bambino si trasferisce momentaneamente a casa dei vicini . Robbie è un bambino molto strano, non tanto perchè dice di avere un amico immaginario, un classico dell'infanzia, ma perchè rimane sveglio tutta notte e ha degli atteggiamenti molto bizzarri, talvolta pericolosi, con Wyatt. Proprio mentre è nella sua sua nuova casa, accadono le cose più strane. Lampadari che si sfracellano al suolo, forti colpi che provengono dal soffitto, apparizioni notturne. Cosa si cela dietro? Cosa è davvero Robbie? Si, ma soprattutto, come si ricollega ai prequels e alla storia principale? Eh...non spoilero nulla ma lo fa e in una maniera imbarazzante e tiratissima per i capelli. 
 Questa volta quindi si gioca la carta dei bambini terribili e degli amici immaginari che tanto immaginari non sono, buttando li anche una citazione palese a Shining. Non solo il collegamento agli altri capitoli è appiccicato come fosse un obbligo, ma sembra proprio che ci sia qualcosa che non va. E' altamente illogico perchè dal nulla, anche se è molto prevedibile, salta fuori un personaggio a noi già conosciuto. 
Ai tempi del primo capitolo fui uno dei pochi a prenderne le difese da attacchi e critiche abbastanza ridicoli incentrati tutti sul "eh ma non si vede/succede nulla". Poi quando uscì il secondo, tenni duro e continuai a difenderlo ma senza la stessa convinzione dell'anno prima. Quando venne il turno del terzo gettai la spugna. Non perchè fossi stanco, ma perchè ormai avevano ragione i detrattori.
Il giocattolo si è rotto (oltre a altri due oggetti sferici nella zona intima maschile). Questa lunga, lunghissima, se vogliamo contare anche i capitoli apocrifi come il Tokyo Nights e la trilogia fatta dal'Asylum, quindi più scopiazzatura che altro, non funziona più per diversi motivi. Prima di tutto perchè la presunta autenticità va a farsi benedire quando inizi a mettere un numerino a fianco del titolo. Non che sia un problema, nessuno credeva fosse vero manco il primo, e neanche il mitico The Blair Witch Project (insomma...però erano altri tempi), ma di certo ci crederanno molto di meno al capitolo numero quindici. Secondo perchè lo stato di tensione in cui ti mette il film, quelle lunghe sequenze in cui ti aspetti capiti di tutto, vuoi perchè sono di notte o vuoi perchè vuoi dare un senso alla visione e al tempo che stai sprecando, alla lunga si è usurato. Passino 90 minuti in cui non sai in cosa ti sei cacciato e quindi l'ignoto può fare effetto, ma dopo quattro interi lungometraggi, hai preso le misure e non ti accontenti più di aspettare e aspettare. Hai bisogno di qualcosa, diamine, qualsiasi cosa. Ed infine perchè il meccanismo è sempre quello; un ora e mezzo di nulla e l'unica volta in cui ti distrai quel mezzo secondo per scaccolarti, bam, ti perdi l'unico momento "de paura". I vari Paranormal si basano solamente su questo, quello spaventone istantaneo che proprio quando ti stai abbioccando ti fa risvegliare. Solo che appunto, sistematicamente te lo perdi. Ma non c'è problema, te lo fanno rivedere almeno due o tre volte, così, anche per chi fosse stato sempre attento e si fosse domandato "ma me lo sono immaginato o non è successo un ciuffolo?" avrà la risposta alla sua domanda.
Ad essere sincero, Paranormal Activity 4 non è un brutto film, è semplicemente al livello di tutti gli altri, anzi leggermente migliore del terzo. Non si inventanto più nulla e non hanno quasi più una storia da raccontare (forse non l'hanno mai avuta fin dall'inizio) ma non si fanno problemi, tanto in un modo o nell'altro ce la infilano la storia di Katie and co. . Ogni tanto assestano un bel colpo alla coronarie, ma parliamo di due scene a fronte di un intero film fatto di vuoto totale. Questa volta sono riusciti a usare una tecnologia moderna per aggiornare e modificare le solite tecniche di ripresa e di ripresa dei fenomeni paranormali (usano il Kinect che funziona sparando sensori cattura movimenti per tutta la stanza e se lo si riprende di notte, con visione infrarossi, si vede la stanza tutta disseminata di puntini. "Wow! Che figata ho scoperto! Ci faccio su un film!" avranno detto i due, ben due, registi) ma si tratta dell'unica innovazione, originale, ma l'unica.
In definitiva, se non siete sazi della saga, potete anche vedervelo, tanto non è così pessimo e qualche saltone sulla sedia lo provoca, ma se proprio non ne potete più meglio guardare V/H/S, e soprattutto il segmento The Sick Thing That Happened to Emily When She Was Younger, da cui forse hanno rubacchiato un pò? Può darsi, non importa. A questo punto dobbiamo aspettarci un 5? Non è da escludere, tanto potrebbe andare avanti all'infinito, soli un incasso minore, causa Twilight, potrebbe scoraggiare i produttori.

venerdì 23 novembre 2012

Dracula 3D di Dario Argento

Nelle sale dal 22 ottobre
Visto in versione 2D
 
Prima alcune doverose premesse. Cominciamo dal regista, Dario Argento, il maestro del brivido, con lui ho mosso i miei primi passi (letteralmente, perché ho cominciato molto piccolo proprio con Profondo Rosso) nel mondo del cinema horror. Poi sono cresciuto, anagraficamente e come spettatore, ma la passione per sangue, frattaglie e guanti di pelle nera è rimasta, e così col tempo ho conosciuto e approfondito registi come Lucio Fulci, Riccardo Freda, Antonio Margheriti e Mario Bava, che ad oggi è ancora uno dei miei preferiti. Ma mentre io crescevo, il cinema di Argento rimaneva ben fermo dove stava, idee e stilemi degli anni '70 riciclati senza vergogna, sceneggiature approssimative, interpretazioni che gridano vendetta (e con interpretazioni intendo per il 90% Asia Argento), ridoppiaggi che gridano vendetta ancora più forte... Insomma un porcaio, si passa da disastri pretenziosi come La Sindrome di Stendhal a veri e propri abomini come Non ho sonno, forse una delle migliori commedie italiane degli ultimi 20 anni. Dopo un film del genere chiunque avrebbe cambiato nome e sarebbe sparito dalla circolazione, e invece no, Argento continua imperterrito la sua discesa nel baratro, mentre intorno a lui una folla ancora incredibilmente ricca di ammiratori accoglie a braccia aperte ogni nuovo abominio. E quindi largo a schifezze come Il Cartaio, La Terza Madre e Giallo, un film rimasto in ballo per mesi perché nessuno aveva il coraggio di distribuire l'ennesima fatica del Maestro, mentre contemporaneamente Adrien Brody era impegnato a fare causa alla produzione perché non era ancora stato pagato. Ma almeno si ride, e pure piuttosto forte, però ogni volta, mentre cerco disperatamente di riprendere fiato, ripenso ai suoi primissimi film e mi chiedo: cos'è andato storto ? Sono stati dei casi fortunati (non proprio tutti eh) ? Argento è stato colto da una precocissima senilità ? Oppure quel poco di talento che c'era si è adagiato su una formula vincente senza sapersi rinnovare ? Non mi è dato saperlo e nemmeno mi interessa più.
L'altra premessa era la questione Dracula, ma visto che mi sono dilungato abbastanza mi collego direttamente alla trama e colgo due piccioni con una fava. Nel 2012, quando i vampiri ci sono stati riproposti in tutte le salse e le variazioni possibili, ha ancora senso uscirsene con l'ennesimo film sul papà di tutti i succhia sangue ? 7 film della Universal tra il 1931 e il 1948, 9 film della Hammer dal 1958 al 1974, senza contare tutta una serie di apocrifi, parodie e altri casi isolati, come il celeberrimo adattamento di Francis Ford Coppola.
E cosa tirano fuori Argento e gli altri tre sceneggiatori ? Niente, ambientano tutta la storia a Passburg (siamo in Germania ? Pare di si) e trasformano Jonathan Harker in un bibliotecario. Dracula lo assume per sistemare la biblioteca di famiglia e intanto terrorizza gli abitanti del luogo, finché ovviamente non compare Mina e succede quello che deve succedere.
Mi direte voi “A chi interessa la trama di un horror di Dario Argento ?”, e avete ragione, a nessuno sano di mente, quindi vado dritto al punto: Dracula 3D è una delusione in tutti i sensi, lo è stato per me, che mi aspettavo un trash involontario esilarante, e lo sarà per molti altri che andranno al cinema sperando in una festa di frattaglie e violenza, perché Dracula 3D è semplicemente noioso. La dose di effettacci splatter per esempio non va oltre il livello a cui ci hanno abituato gli horror indipendenti italiani degli ultimi anni, e il ritmo non aiuta per niente, al punto che tra una risata e l'altra è una vera impresa trattenere gli sbadigli, o il sonno, come nel caso degli altri 4 spettatori nella mia sala.
Allora passiamo alle cose importanti, le risate. Purtroppo sono una rarità, soprattutto perché le scene veramente significative sono quelle che abbiamo già visto decine di volte nei trailer e nelle clip che circolano da mesi su internet (ricorderete tutti il troiler, quella cosa grezzissima senza post-produzione che mostrava persino il finale del film). Quello che balza subito all'occhio è una computer grafica imbarazzante e tremendamente invasiva, ci sono mosche, calabroni, ragni, ragnatele, gufi, lupi e intere stazioni ferroviarie ricreate nel peggiore dei modi, si tratta di fotogrammi davanti a cui è davvero impossibile rimanere seri. E poi c'è una delle apparizioni più attese, la mantide gigante, che però colpisce soprattutto per il suo essere completamente fuori luogo.
Subito dopo vengono regia e fotografia. Con l'eccezione di qualche scena particolarmente dinamica le inquadrature sono praticamente tutte identiche: piano americano di due personaggi ripresi di profilo mentre parlano, e quanto parlano... il solito concentrato di didascalismo e teatralità.
La fotografia condisce tutto alla perfezione, è così brutta che le scenografie reali sembrano degli sfondi digitali, e la luce è usata in modo così strano che gli elementi della scena sembrano appiccicati sgraziatamente su questi sfondi terribili. Probabilmente la cosa dipende dal fatto che il film è studiato per essere proiettato in 3D, ma il risultato è talmente antiestetico che si sposa alla perfezione con tutto il resto
Nel mucchio ci metto anche la solita Asia Argento, che insiste a recitare con la bocca piena di minestra, e un paio di topless talmente goffi e gratuiti che sembrano prelevati di peso da un film porno di quart'ordine, come le musiche di Simonetti.
Tirando le somme, Dracula è un disastro, ma non il disastro che mi sarei aspettato, se non fosse per questo incomprensibile abuso di CG potrebbe essere considerato addirittura un passo avanti rispetto agli ultimi due lavori di Argento. E' pessimo ma non per le solite ragioni. Ecco, si potrebbe persino dire che lo stile di Argento ha subito una svolta, le nuove tecnologie gli hanno offerto nuovi entusiasmanti modi di fare pessimo cinema.
E potrei fermarmi qui, perché non c'è molto altro da dire e perché è sempre piuttosto difficile parlare in maniera costruttiva di pellicole del genere, però ci tenevo a riportare alla memoria un'intervista che risale a quando Dracula 3D era ancora in fase di produzione. Ricordo che in quell'occasione uno dei giornalisti quasi sghignazzando chiese ad Argento cosa ne pensava del Dracula di Francis Ford Coppola e in cosa sarebbe stata diversa la sua versione, e lui si limitò a rispondere con un sorrisetto complice e un'aria di superiorità. Ecco, quel momento mi fece particolarmente schifo.

PS: Il fatto che il sottoscritto e Il Monco non siano stati accettati come comparse in questo film non ha influenzato il giudizio complessivo, ma il dolore ci lacera l'anima.

Presto chiudetela!

mercoledì 21 novembre 2012

Filmbuster(d)s - Episodio #17

Attenti che il 17 porta sfiga. Io (alexdiro) avevo proposto di saltarlo a piè pari e passare direttamente al 18 per poi farvi impazzire su internet alla ricerca della puntata perduta, ma sono stato gambizzato per questo. Comunque sia, Ben Affleck, quello che ci vuole per battere Maccio Capatonda, ha fatto 3 su 3 regalandoci l'ennesimo buon film; per il resto si parla di pellicole mal distribuite nelle sale italiane, quindi preparate il vostro fegato a sonore incazzature.

Nel 17° episodio di Filmbuster(d)s:

[00:04:00]La collina dei papaveri
[00:24:00]Red Lights
[00:37:30]Argo
[01:02:40]Ballata dell'odio e dell'amore



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lunedì 19 novembre 2012

The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 2 di Bill Condon


Nelle sale dal 14 novembre.
La saga di Twilight è morta, evviva la saga di Twilight. Dopo aver guadagnato cifre surreali per ogni capitolo cinematografico e editoriale, l'ennesima saga teen arriva al suo termine. Almeno in questa occasione sia i detrattori della saga che i fans più accaniti sono accomunati dagli stessi sentimenti di gioia e estasi. Anche io ho sgomitato tra ragazzine brufolose e cicciotelle, coppie capitate li per caso in cui la ragazza ha letto tutti i libri e ha obbligato il fidanzato a "godersi" l'ennesima puntata annuale al cinema, ragazzo che odia l'occasione ma che sui forum dibatte animatamente per far notare le incongruenze con il materiale letterario di base, classici imbecilli così emozionati da dimenticare il codice della prenotazione o addirittura invadere, non solo tutte le file possibili delle casse del cinema, ma anche le uscite di tali file. Prima del riassunto necessario (?) svelo un altarino: io il primo Twilight non solo l'ho visto al cinema, ma addirittura ho letto pure il libro. Ero innamorato, ma non della saga, e avrei fatto di tutto. Bene, quel Twilight, che rimane il migliore, era un filmetto brutto ma il cui successo era piuttosto comprensibile. Storia d'amore adolescenziale tra una imbranatella e un vampiro strafico con annesse complicazioni. Molto semplice, molto banale. Forse troppo, perchè la Meyer (autrice dei libri e che ora già riscuote altri dindi grazie alla trasposizione di The host, altra sua creatura) non si è fermata li, eh no, ha dovuto creare un triangolo amoroso con un licantropo e parlare di altri clan di vampiri, oltre ai Cullen, di cui non interessa niente e nessuno, tanto meno alle lettrici più appassionate.
In ogni caso, capitolo finale. Dopo due film interi in cui non succede nulla ma proprio nulla (New Moon e Eclipse. Si certo, c'è sto triangolo ma poteva essere riassunto in 12 minuti), si arriva a quello che era prevedibile dopo la fine del primo capitolo; i due si sposano, Bella diventa una vampira, hanno una bambina e il licantropo se lo piglia in quel posto. Ovviamente essendo la figlia una mezza umana e mezza vampira, qualcuno storcerà il naso e arriverà a rompere le balle alla povera neo coppia. Tre film e dico tre film (compresa la prima parte di Breaking Dawn) per perdere tempo, incassare il triplo e diluire una storia banalissima e prevedibilissima che non ha molti contenuti fondamentali. E poi qeusto scontro finale obbligatorio tanto per arrivare a un finale ben definito.
E' molto facile fare una recensione simpatica e perculante, e lo hanno fatto tutti, molto più interessante però è scrivere perchè il film (e la saga) non funzionano. Mi vien da paragonare questa epopea alla pornografia, in primis. Perchè, come qualsiasi amante dell'eros spinto, lo spettatore assiduo (e quindi di sesso femminile) di Twilight, se ne frega dei vari risvolti della trama, di vulturi e imprinting, ma vuole vedere i suoi protagonisti, Bella e Edward, tutti appiciccati a farsi coccole o vedere il lupo mannaro a torso nudo che ... non so cosa fa, non ha importanza. Infatti tutto il resto della storia è assente, sono solo scenette che fanno da collante a queste sequenze dove la libido della ragazzina schizza a mille. Come i film porno.
E poi, data la piega presa in questa ultima parte, la paragono ai film di supereroi. Infatti anche qui sono usciti fuori superpoteri, clan con buoni e cattivi, scontri finali con battaglie campali. I maschietti hanno Iron man e Capitan America, adesso le ragazzine hanno il loro corrispettivo. Un passaggio al supereroristico che para il culo su mille problemi che la trama mostra, in questo capitolo finale, perchè ogni critica che gli si potrebbe fare, viene parzialmente rispedita al mittente, venendo spiegata da superpoteri, patti e doni ancestrali.
Il problema poi è che a parte essere molto ignorante in materia (cosa non fondamentale, ne per me, molto lontano dal farmi prendere, ne per l'appassionato vero, che se sapesse qualcosa di più sui vampiri, non sarebbe tale), non ha nulla da dire. E' vero che è diluita ed è evidente che è fatto per tirar fuori dalle tasche degli spettatori, più soldi possibili. In massimo un paio di film, si chiudeva l'intera faccenda, dall'arrivo di Bella nel nuovo paesino alla conlcusione ultima. Addirittura dividere in due Breaking dawn è una presa per il culo intollerabile.
Si si si, ma com'è sto Breaking dawn? Brevissimamente, tanto è una recensione fatta solo per racimolare visite, è il classico capitolo finale. C'è uno scontro, che lascerà scontenti moltissimi, ma non le ragazze, perchè a parte essere trash è molto girli, riesce a chiudere il triangolo in poche scene, dopo che Bella stava per ammazzare Jacob, e soprattutto riesce a far sì che la bambina procreata (la terribile Renesme, con terribile CGI) sia figlia di tutti e tre. C'è poi una classica reunion non richiesta, c'è un riassuntone finale della storia d'amore, non richiesto, e c'è tanta commedia e simil-parodia, non richiesta. 
In definitiva, dopo un viaggio in Italia, la portiera di un furgone ammaccata, una festa di compleanno con del sangue, una cantante dei Black Eyed Peas che cambia volto, del sesso violento, un matrimonio di sogno e uno reale fatto nel mondo degli Ewoks, i terribili lupi mannari fatti al computer e mille voli su quel cazzo di bosco (e poi perchè prendono la macchina per spostarsi? sono tanto veloci) siamo arrivati alla fine. Piangono gli esercenti dei cinema che ora dovranno aspettare un altra saga del genere per poter guadagnare benino (e magari distribuire qui film d'autore che nessuno va mai a vedere), piangono di gioia i fans e piangiamo noi per aver speso dei soldi e del tempo. O forse no?
Volevo concludere con una lista di cose migliori di Twilight saga (l'olocausto, una verruca sul pene, una colecisti) ma evito, tanto mi basta che cliccate.

Il bianco e il nero #23: Godzilla, le origini di un mito.


"E' possibile che un altro Godzilla appaia di nuovo, da qualche parte, nel mondo", frase finale del film.

Cinquantotto anni, ventotto capitoli (saga più longeva della storia del cinema*) più uno apocrifo americano e un altro in produzione con uscita nel 2014, molte apparizioni in videogiochi, fumetti, serie televisive, ha dato il via ad altre saghe famose (quelle dei suoi rivali) a copie o parodie, ha combattuto contro King Kong, ha vinto contro la crisi petrolifera, è passato attraverso gli anni 60-70 e la loro psichedelia, si è fatto due lifting (e altri ritocconi), è diventato buono, il paladino di adulti e piccini, ha rivoluzionato il modo di fare cinema in Giappone ed infine per i suoi 50 anni gli hanno regalato la stella sulla walk of fame a Hollywood. Questa ventitreesima puntata la voglio dedicare a uno dei miei miti, Godzilla, parlando proprio del primo capitolo, non un misero kaiju eiga (monster movie), bensì un dramma storico vero e proprio e un interessante ritratto del Giappone post bomba atomica. Si poi c'è un varano di 30 metri, ma non c'è solo quello, è un film intimista e antimilitarista di grande impatto, emotivo e visivo. E' ora di dire tutta la verità su Godzilla.

The beginning of a journey.
Dissolvenza che si apre su un molo. All'orizzonte si intravede una nave, partita da poco. Panoramica che passa dall'acqua e ritorna al molo dove si vede un cartello con la scritta "Benvenuti in Indonesia", in lingua locale. Un ruggito primordiale squarcia il cielo. La scritta Godzilla appare, a lettere capitali, sullo schermo tremolante. Non è l'inizio di Godzilla del 1954 ma come vorrei iniziasse visivamente questo episodio.
Ora siamo sulla nave. Un ometto sulla quarantina, un pò tarchiato, cammina su e giù per il ponte. E' sconsolato. Questo viaggio in Indonesia è stato una delusione, adesso dovrà tornare in patria, in Giappone, con una brutta notizia da dare: il progetto precedentemente messo in piedi tra i due paesi è andato a monte e quindi non si farà più. Si appoggia alla balaustra e guarda giù verso le acque dell'oceano, negli abissi più oscuri. Ripensa a quel progetto, un film. Lui è un produttore con qualche successo alle spalle (ma sarà il futuro a portergli ben più fama e gloria) e il film in questione doveva parlare di una barca giapponese che si era avvicinata troppo a un test nucleare americano, una storia ispirata da un evento realmente accaduto.
Anche il suo umore sprofonda sempre più giù, nel buio più nero. Ed è allora che forse sente quell'urlo, quel ruggito, che proviene proprio da là sotto, in quel mondo misterioso e inesplorato. Si chiede "che cosa c'è la sotto? O meglio, cosa potrebbe esserci?". Ci pensa e ci ripensa, gli vengono in mente le cose più strane, poi, forse influenzato da un film americano che ha visto recentemente, immagina un enorme lucertolone che esce dalle acque. L'aria minacciosa, le fauci aperte che sputano fuoco, la lunga coda poderosa, in lontananza una megalopoli come campo da battaglia. L'idea non è male e dopotutto potrebbe ricollegarsi benissimo con quella storia della "barca nucleare" che aveva in mente prima. Hum, dopotutto perchè no? E' un'idea, se ne può parlare.
La nave adesso scivola via, trasportata dalla corrente e dai potenti motori. Noi siamo scesi, ma paradossalmente siamo finiti in su, in alto, ci libriamo nel cielo diretti verso il Giappone, qualche mese dopo.

domenica 18 novembre 2012

7 Psicopatici di Martin McDonagh

Nelle sale da giovedì 15 novembre
Difficile a credersi, ma in questi giorni al cinema ci sono altri film oltre all'ultimo capitolo della saga di Twilight, basta superare sgomitando quelle code interminabili e disordinate per sbirciare in una delle sale superstiti. E tra i vari tentativi di suicidio commerciale potete trovare 7 Psicopatici, l'ultima fatica cinematografica del commediografo inglese Martin McDonagh, che dopo una pausa di quattro anni dal suo lungometraggio d'esordio In Bruges – La coscienza dell'assassino torna nelle sale con un nuovo film e una vecchia sceneggiatura, perché Seven Psycopaths McDonagh se lo teneva nel cassetto ormai da sette anni (un caso ? O sono male informato ?), pronto per diventare il suo primissimo film ma accantonato in attesa di raggiungere una maggiore maturità tecnica e artistica.
E questa in un certo senso è anche la trama del film, la storia di uno sceneggiatore che non a caso si chiama Marty (Colin Farrell) e che è impantanato su una sceneggiatura intitolata proprio Sette Psicopatici. Il titolo c'è, ed è di sicuro effetto, ma manca tutto il resto e come se non bastasse Marty non sa quello che vuole veramente, se una storia spettacolare di sangue, pistole e violenza o qualcosa di più europeo e introspettivo. Ad aiutarlo ci prova Billy (Sam Rockwell) amico di vecchia data, attore fallito e rapitore di cani, che fa di tutto per fornirgli materiale per il soggetto, finché un giorno lui e il suo complice Hans (Christopher Walken) rapiscono il cane sbagliato, lo shih-tsu di Charlie (Woody Harrelson), un pericolosissimo boss della mafia che ama il suo cane più di ogni altra cosa.
E' difficile catalogare lo stile di 7 Psicopatici e di Martin McDonagh, qualcuno ci vede un po' di Quentin Tarantino, probabilmente per la mole di dialoghi surreali che affollano le varie scene e per il sottofondo pulp, altri ci vedono qualcosa dei fratelli Coen, per via dell'onnipresente humor nero e dei personaggi sopra le righe. L'impressione è che McDonagh abbia effettivamente subito e assorbito più o meno consapevolmente queste e altre tendenze cinematografiche, e le abbia poi digerite e rielaborate in modo abbastanza personale da non risultare troppo derivativo.
7 Psicopatici in particolare sembra voler esasperare ulteriormente tutto quello che avevamo già visto in In Bruges, riuscendoci fino ad un certo punto. Quello che colpisce di più è sicuramente la sceneggiatura e l'aspetto metacinematografico (o metaletterario ?), la storia di un film senza storia e di uno scrittore in crisi che cerca di trovare ispirazione nella realtà e nei personaggi che gli gravitano intorno, finché storie e personaggi non si animano di vita propria e sfuggono ad ogni controllo dando vita ad un vero e proprio film nel film. E tutto questo funziona anche e soprattutto grazie ad attori e personaggi. I sette psicopatici, che in realtà sono molti di più, arricchiscono la trama di tante piccole sotto-trame che si intrecciano e si confondono come le idee di uno scrittore durante la stesura di una sceneggiatura, c'è il magnetico Sam Rockwell, forse il più psicopatico di tutti, che praticamente regge sulle sue spalle una buona metà del film tra sproloqui folli e volgarità gratuite, forse sacrificato da una pessima scelta di doppiaggio. L'altra metà invece se l'accolla Christopher Walken, che è un po' l'antitesi del personaggio di Rockwell, lo psicopatico buddhista che ha raggiunto la pace dei sensi e dispensa pillole di saggezza e battutine disarmanti. E poi ci sono tutti i personaggi di contorno, Colin Farrell, sceneggiatore/spettatore passivo di una storia che gli sfugge dalle mani, Woody Harrellson che gira e rigira finisce per interpretare sempre lo stesso ruolo, ma lo fa così bene che glielo si perdona, e Tom Waits, un volto che non può mancare in nessuna squadra di pazzi che si rispetti, anche se fa piacere per una volta vederlo in un ruolo meno istrionico come questo (a proposito, non scappate appena vedete i titoli di coda come stavano facendo molti rimbambiti nella mia sala).
Sette psicopatici è un cocktail gustoso di personaggi bizzarri, battutacce al vetriolo e scene di uno splatter che non ti aspetti. Fa un uso intelligente e spassosissimo dell'elemento metacinematografico ed è autoreferenziale al punto giusto (mi viene in mente il discorso sul trattamento riservato alle donne nella sceneggiatura e l'effettivo trattamento riservato alle donne nel film), insomma su carta funziona alla perfezione, purtroppo però tra una risata e l'altra balzano all'occhio tutta una serie di difetti che spingono a ridimensionare un giudizio altrimenti entusiastico: regia e sceneggiatura faticano a tenere insieme una storia così frammentaria o a tirare le somme quando arriva il momento, e di conseguenza la parte conclusiva non è all'altezza del resto, l'ironia tende a perdere forza e si finisce per indugiare un po' troppo su situazioni mielose e prevedibili.

sabato 17 novembre 2012

Filmbuster(d)s - Episodio #16

Puntata quasi totalmente dedicata all'ultimo episodio della cinquantennale saga di James Bond, Skyfall, che ci è piaciuto tanto. In apertura 20 minuti di commenti e illazioni sulla notizia che ha sconvolto grandi cinefili e piccini: Star Wars Episodio VII sarà presto fra noi. :O


Nell'episodio #16 del podcast di Filmbuster(d)s: 

[00:03:00]Disney acquisisce Lucasfilm
[00:24:30]Skyfall









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giovedì 15 novembre 2012

The Angel's Share - La parte degli angeli di Ken Loach

Nelle sale italiane dal 13 dicembre, in concorso a Cannes 2012.
"All'alcol! La causa di e la soluzione a tutti i problemi della vita!" è un famoso motto di molti alcolisti coniato da Michel Zamacoïs. Che l'alcol sia un problema serio lo sanno bene nel Regno Unito dove la lotta alla sbronza, soprattutto a livello giovanile, è all'ordine del giorno. Nella patria dei pub, degli hooligans e della pinta i dati sull'alcolismo, o per meglio dire sull'abuso di alcolici, sono surreali. Solo nel 2011 sono stati 200mila i ricoveri ricollegabili a drinks, cocktail e birre, mentre nel solo 2007 sono stati spesi 2,7 miliardi di sterline (3,3 miliardi di euro) dal servizio sanitario nazionale per assicurare cure, trattamenti e servizi agli etilisti. Potrebbe sembrare uno stereotipo razzista ma i dati parlano da soli. Il problema è stato spesso sottovalutato dal governo britannico che ora sta correndo ai ripari con aggiunta di tasse su ogni sostanza alcolica e ingenti divieti e controlli per evitare che anche i minorenni si "sballino" in questo modo.
Quello che è ovvio, tuttavia, è che l'alcol non è di per sè un male. Quando avviene un abuso, qualsiasi cosa diventa un male. Ken Loach, il prolifico regista inglese (e speriamo continui a esserlo. Prolifico, non inglese. Inglese lo rimarrà sempre) è uno dei più attenti osservatori della realtà contemporanea mondiale ma soprattutto nazionale. Da sempre impegnato nel portare al cinema vari aspetti della classe operaia britannica, e recentemente impeganto anche a livello politico con il partito Respect, dopo aver trattato il difficile tema del precariato e della globalizzazione in In questo mondo libero..., decide di buttarsi sull'alcol.
Prende il motto iniziale di Zamacoïs e invece di parlare di cause di problemi, parla piuttosto di alcol come soluzione ad essi. Protagonisti sono quattro ragazzi sui vent'anni, tutti molto problematici che sono riusciti a scampare la galera e che dovranno scontare la loro pena con dell ore di lavoro socialmente utile. Robbie sta per diventare padre, ma finisce sempre in risse violente, a volte causate dal suo caratterino, a volte solo perchè è odiato dall'entourage famigliare della sua fidanzata. Ragazzo intelligente, vede nella nascita del figlio un motivo per rigare dritto e essere un padre modello. Albert è un beone, per lui ubriacarsi è la normalità, lui che di normale non ha nulla. Rhino sembra ed è una persona sanissima ma si diverte a imbrattare i monumenti nazionali. E infine c'è Mo, taccheggiatrice incallita, ruba cose di cui neanche ha bisogno. E' una vera malattia.
Vengono presi sotto l'ala protrettrice di Albert, il simpatico responsabile del gruppo per cui dovranno lavorare. Albert ha una passione, il whisky, e per lui l'alcol è appunto un motivo di studio, di condivisione, è una gioia non una necessità per evadere dalla realtà. Un giorno decide di portare i suoi sottoposti a una gita premio a una distilleria, un rischio dato che molti alzano facilmente il gomito. Per Robbie è una rivelazione, conosce un nuovo mondo che lo salverà. Un mondo dove ci sono molti esperti e collezionisti, dove si assapora e si giudica, non si ingolla e si vomita, dove c'è rispetto e rigore e non casino e sbornie del giorno dopo. Dove infine, una bottiglia di buon whisky può costare anche 1 milione di sterline ed è qui che la sua mentalità criminale entra in gioco. Un furto per sistemare la sua vita e quella dei suoi amici, e tuttavia un furto senza troppe vittime.

E' inevitabile che mi esprima ora in due scontatissime quanto adatte metafore. Ken Loach è come il buon vino, più invecchia e meglio è. Succede spesso che più un artista invecchi e più la sua lucidità e la sua grandezza appassiscano. Nessuno li costringe a ritirarsi, ma nessuno costringe il critico o lo spettatore a roteare gli occhi e a pensare al glorioso passato. Non è il caso di Loach che più passano gli anni e più continua a sfornare fenomenali film e per di più con una certa regolarità.
Inoltre il cinema di Loach sta a un ottimo vino o a un ottimo whisky, come un filmaccio di cassetta sta a una birra da supermercato. Il secondo va visto così tanto per, a tempo perso, magari mentre si fa altro, magari perchè non c'è altro da vedere. Rimane poco dentro di noi, e soprattutto non rimane il sapore, l'esperienza. Tutto il contrario di un buon vino, un buon Loach, che va assaporato, fatto decantare, a cui va data la giusta attenzione e il giusto rispetto. Ogni sua pellicola è una piccola perla che fa breccia nel nostro cuore. Ogni volta, con quel suo mix di facce, umorismo, impegno sociale e corretta e spietata analisi della società moderna, riesce a infiammarci come un buon alcolico che scende piano piano nell'organismo. E siamo inebriati, felici e soddisfatti.
E' notevole come in questo caso riesca a trasformare un argomento spinoso in una commedia di grande profondità. Una pellicola che andrebbe mostrata ai tanti ubriaconi britannici come programma di riabilitazione, perchè ammantata di un amore e un fascino, di una passione per il whisky, che trasformerebbe anche il peggiore dei tracannatori. Invece di mostrare storie tristi e di riscatto, Loach usa un altro stratagemma, prende un'altra strada, molto più funzionale. Prende per la gola e con la curiosità lo spettatore, tramite aneddoti (the angel's share non è altro che la parte di alcol che viene fatta evaporare, circa il 2% ogni anno, dalle enormi botti di whisky lasciate a riposo per decine di anni. L'alcol disperso nell'aria viene regalato agli angeli) e descrizioni particolareggiate composte dai nasi dei sommelier più acuti.
Con quel finale poi, dopo una storia che prende una piega tra le più surreali dei suoi film, chiude dicendo che comunque non basta la passione e un gruppo fidato di amici, ma serve anche un cervello e chi ce l'ha può continuare sulla buona strada imboccata, mentre chi non ce l'ha, torna quello che era prima.
Ancora più realismo è dato dal classico uso del regista di attori non professionisti. Nessuno eccelle ma sono tutti dei volti perfetti e in alcuni casi simpaticissimi, soprattutto il terribile Gary Maitland nella parte di Albert (come si fa a non odiarlo a pochi minuti dalla fine!). Inutile poi sottolineare come un film del genere andrebbe visto in lingua originale, in quello scozzese così incomprensibile. Vederlo doppiato sarebbe come aggiungere dell'acqua al proprio drink. Va bene adesso le ho finite tutte le metafore.
The Angel's Share -uscirà sicuramente in Italia, grazie alla BIM, ma in un periodo sovraffolato di blockbuster e film prenatalizi- è in definitiva una dei migliroi film dell'anno, una di quelle pellicole europee sottotraccia che fanno impallidire le maggiori produzioni hollywoodiane. Un film con grande cuore, una commedia divertentissima e una pellicola che rimane dentro e che lascia molto su cui riflettere.
Viva Ken Loach, regista da assaporare senza alcuna moderazione.

martedì 13 novembre 2012

Ballata dell'odio e dell'amore di Alex de la Iglesia

Nelle sale dall'8 novembre

Si, avete letto bene, 8 novembre 2012, Balada triste de trompeta va ad aggiungersi all'ormai sostanziosa lista di film sbarcati in qualche festival più o meno prestigioso, in questo caso la Mostra del cinema di Venezia dove si porta a casa Leone d'Argento e Osella d'oro per la miglior sceneggiatura, e poi spariti nel nulla, tanto che avevamo pensato di parlarne nella puntata di Filmbuster(d)s dedicata ai film dispersi. E invece no, perché secondo una recente abitudine tutta italiana ce lo ritroviamo in sala con due anni di ritardo (all'anagrafe il film è del 2010), che non sarebbe neanche tanto male se non fosse arrivato soltanto in una decina di cinema in tutta Italia, misteri delle insondabili logiche distributive... ma passiamo al film:
Spagna, 1937, il paese è lacerato dalla guerra civile. Nemmeno il mondo del circo viene risparmiato, e un pagliaccio si ritrova suo malgrado reclutato tra le truppe repubblicane per poi essere arrestato da quelle franchiste. Il figlio Javier organizza un attentato per liberarlo ma l'uomo rimane ucciso nell'esplosione. Da adulto Javier (Carlos Areces) decide di seguire le orme paterne e si fa assumere in un circo, ma con un passato del genere non può che interpretare il Pagliaccio Triste. Qui incontra il suo opposto, Sergio (Antonio de la Torre), il Pagliaccio Tonto, entrambi amano l'equilibrista Natalia (Caterina Bang) e arriveranno a distruggersi l'un l'altro pur di averla.
Dopo l'ingiustamente snobbato Oxford Murders, de la Iglesia dirige per la prima volta una pellicola interamente scritta da lui senza l'aiuto del fidatissimo Jorge Guerricaechevarrìa, e ne approfitta per ritornare al grottesco e al black humor dei suoi primi lavori. Eppure è difficile catalogare e descrivere un film come Balada triste de trompeta, c'è l'azione, la sessualità animalesca, l'orrore, la comicità, i freaks (viene in mente l'omonimo film di Tod Browning, ma anche il suo Lo Sconosciuto) e c'è persino un po' di storia. Anzi, nonostante la maschera deformata e deformante da pellicola di genere lo si può considerare un film storico, una metafora barocca della Spagna franchista. Barocca perché comunque questa maschera deformante c'è e si fa notare, e la metafora non è di certo qualcosa da ricercare, in Balada triste de trompeta infatti tutto è grezzo, stilizzato ed esasperato, i volti dei protagonisti sfigurati a colpi di tromba, ferri da stiro e soda caustica sono chiaramente il volto della Spagna martoriata dalla guerriglia e dalla dittatura, una risata o un'espressione triste perennemente incise nella carne. Oppure gli stessi Javier e Sergio che all'inizio sono solo due folli innamorati ma che quasi subito dimenticano amore e vendetta per trasformarsi in due bestie, due mostri pronti a fare a pezzi se stessi e l'oggetto del loro desiderio, che sia la Spagna o la bella Natalia.
Il sonno della ragione genera mostri insomma, e 35 anni di dittatura sono un sonno bello lungo, un incubo assurdo in cui la violenza diventa parte della quotidianità, qualcosa a cui incredibilmente prima o poi ci si abitua, e allora forse l'unico mezzo per svegliarsi dal torpore o per esorcizzare il tutto è una farsa altrettanto assurda, una ballata macabra di clown che corrono per strada vestiti da preti armati di mitragliatrici, è rozza, iperbolica e ridicola ma forse era l'unico modo per rappresentarla.
In conclusione, Balada triste de trompeta (fatico ad usare il titolo italiano) è un film difficile costruito su contrasti forti, quello più evidente che riguarda i due protagonisti, oppure quello che oppone la forte ironia tragicomica di certe situazioni alla violenta drammaticità di altre; persino la fotografia tende spesso ad accostare colori caldi e colori freddi con un effetto che sottolinea l'aspetto onirico e surreale della storia. Così l'occhio e lo stomaco dello spettatore vengono continuamente sollecitati da uno spettacolo caotico e brutale, che però è anche una favola terribile quanto bella.

Intanto Alex de La Iglesia non è stato con le mani in mano, proprio quest'anno è uscito il suo La chispa de la vida, di cui però non ho sentito parlare in toni particolarmente entusiastici, mentre per quanto riguarda il futuro sta lavorando ad un lungometraggio e ad un film a episodi insieme a gente come Emir Kusturica, Amos Gitai, Hideo Nakata e Guillermo Arriaga.

Argo di Ben Affleck

Nelle sale dal 8 novembre.
La gente non ride più. Ben Affleck è diventato un "artista" o per meglio dire uno dei tanti lavoratori nel magico mondo del cinema a cui va portato un minimo di rispetto e di cui si può dire di essere sostenitori, anche in un luogo pubblico. I tempi di Gigli o di Daredevil sono finiti. L'Academy Award Winner (va ricordata la sua statuetta condivisa con Matt Damon per Will Hunting - Genio ribelle, che risponde alla domanda "quanti bellocci di Hollywood servono per scrivere una sceneggiatura di un film di Gus Van Sant?") ormai giunto a 40 splendide primavere, si è scrollato di dosso la status di sex symbol e ha incominciato a fare del buonissimo cinema passando dall'altra parte della cinepresa. E' esploso lasciando perplessi tutti con Gone Baby Gone cinque anni fa e ha proseguito con l'adrenalinico The Town  tre anni dopo. E' un clichè fin troppo abusato ma va utilizzato anche stavolta: Affleck era atteso alla prova del nove con Argo (il primo dei suoi film non scritto da lui) e si può dire senza ombra di dubbio che abbia superato alla grande il test.
Argo racconta di una storia realmente accaduta e di un film immaginario. Siamo nel 1979, in Iran, all'apice della rivoluzione. Da pochi mesi il governo dello Shah, Mohammad Reza Pahlavi, imposto dagli americani e dagli inglesi con un colpo di stato e contraddistinto da opulenza (personale) e da una spiccata occidentalizzazione della cultura locale, nonchè di un controllo del potere supportato dalla violenta polizia interna, è stato rovesciato e al suo posto si è insediato l'ayatollah Khomeini. Siete ancora svegli? Tranquilli, non è così difficile stare dietro alla storia, soprattutto perchè ve la raccontano a fumetti, lasciando già trapelare la predominanza dell'infotainment come stile per il film, e poi perchè capite le cose più basilari (Shah messo dalla CIA cattivone, Ayatollah cattivo ma s(u)opportato, americani odiatissimi e da tirare fuori dal paese) non serve ricordarsi altro. Ecco in questa situazione, un ufficio governativo americano viene assaltato dai rivoluzionari. Una ottantina circa di persone viene fatta prigioniera. Per la liberazione vogliono che Pahlavi torni in Iran e si faccia processare (era fuggito in America per curarsi, cancro). Sei persone però sono riuscite a fuggire e adesso si nascondono nell'ambasciata canadese. Dopo circa due mesi, quando il rischio di farsi beccare è sempre più alto, la CIA decide di dargli una mano.
Tony Mendez, un esperto esfiltratore, se ne esce con un'idea bizzarra ma che batte tutte le altre proposte: tirarli fuori fingendo che siano tutti parte di una troupe cinematografica canadese andata in Iran per scovare delle location per un film di fantascienza. Funzionerà? Non aggiungo altro, ma ricordo che trattasi di storia vera.

Argo è nè più nè meno dell'ottimo e solido cinema made in Usa. C'è il buon script dietro, fatto appunto di tanta information ma molto più entertainment, che per osmosi insegna qualcosa anche allo spettatore che manco saprebbe localizzare l'Iran su una cartina, ma c'è anche tanta azione, tanto sano divertimento e un finalone carico di suspance e calamitante (se non si conosce la conclusione della vera vicenda). E poi diamine, un'idea così cinematografica che basta raccontarla per fare colpo.
Difficile trovare una pecca o cercare di fare breccia in questo granitico prodotto. Non sto diecndo che è un capolavoro ma che ha tutto al posto giusto; ritmo, cast, regia, sceneggiatura, montaggio, location. Ci si potrebbe lamentare che non eccelle in nessuno dei campi, ma non si può assolutamente dire che sia scarso in nessuno ugualmente. Il pregio principale a mio modo di vedere sta nella gestione e nella scrittura dei tre atti canonici, ognuno con diversi meriti. Il primo, dove viene introdotta una storia che solo sulla carta può sembrare di difficile comprensione. Al contrario di me, se la cava in molto meno tempo e senza tralasciare nulla o peccare di superficialità. Il secondo, con l'intreccio e lo svolgersi della storia, dove riesce a tenere un ritmo serrato (davvero un'impresa annoiarsi durante la proiezione) e far ridere con un Alan Arkin straripante e aiutato massicciamente dal doppiatore italiano. Infine la parte finale dove tutto è dosato nelle proporzioni giuste, si rimane incollati fino alla fine, con il fiato sospeso e anche se casca nei soliti triti e ritriti stratagemmi usati in questi casi, glielo si perdona, perchè funziona.
A essere sincerissimi sembra mancare quel cent da farlo essere uno dei primissimi film dell'anno. Ha tutto talmente al posto giusto che manca quell'elemento fuori dal normale, che lo proietti oltre. Per questo dico che è solido ma non vado oltre con i complimenti.
Forse Affleck doveva osare di più? La sua regia merita una menzione speciale. Prima di tutto sappiate che dietro c'è un lavoro minuzioso fatto per rendere il film il più realistico possibile. Ha voluto girarlo su pellicola vera, niente digitale, e su ogni fotogramma ha svolto un ulteriore lavoro di post montaggio. Inoltre ha copiato e studiato tutti i movimenti di macchina del film Tutti gli uomini del presidente, per le scene in interni e per gli esterni da L'assassinio di un allibratore cinese, due cult movie anni 70. Questo denota una grande cura dei particolari, facilmente riscontrabile durante il film. Il pupo ha fatto i compiti a casa insomma.
Per una volta passa quindi in sordina la sua recitazione loffa, anche se io non sarei così cattivo in questa occasione. In ogni caso, per fortuna sua, si è troppo impegnati per notarlo, a causa della spassosa coppia Goodman-Arkin o dell'ottimo make up usato per i magnifici 6 reclusi (quei baffi, quegli occhialoni), davvero assomiglianti agli originali. Anche il resto del cast è scelto oculatamente. Kyle Chandler e Victor Garber hanno piccoli ruoli ma sono i volti perfetti per quell'epoca.
Potrei andare oltre ma mi fermo, ci risentiamo durante il podcast, e tiro le conclusioni.
Con una storia simile è facile fare goal ma è ancora più facile farsela bruciare tra le mani. Per fortuna Affleck tira fuori un più che discreto risultato, soprattutto sul lato formale, capace anche di intrattenere e emozionare. Una ascesa continua quella del bisteccone che ci fa ben sperare e attendere spasmodicamente per il suo prossimo lavoro.
"Argo vaffanculo!"

Parte per chi ha visto il film.
Anche il Canada è stato grande, lo è stato per poco, non ha fatto granchè, ma agli occhi del mondo, per pochi giorni, il Canada ha salvato il culo a degli americani. Più o meno. Alla prima proiezione del film al Toronto International Film Festival (in Canada well duh?!) Ben Affleck ha dovuto addirittura rispondere alle critiche ricevute per aver minimizzato l'importanza dell'operato canadese nella vicenda, il che lo ha portato a aggiungere qualche bella scritta bilanciatrice alla fine. Crisi internazionale evitata! Pfiu!

lunedì 12 novembre 2012

Red Lights di Rodrigo Cortés

Nelle sale dall'8 novembre

A un paio d'anni dallo scolastico Buried, il regista spagnolo Rodrigo Cortés decide di ritornare dalle parti del thriller dirigendo e scrivendo il suo terzo lungometraggio e la sua seconda co-produzione ispano-americana, che questa volta gli permette di accedere ad un cast di tutto rispetto, e con “di tutto rispetto” intendo “senza Ryan Reynolds”. Senza Ryan Reynolds ma con Robert De Niro, e qui è giusta e necessaria la solita precisazione, da ormai una ventina d'anni De Niro e il suo agente hanno fatto il possibile per accaparrarsi tutti i ruoli più degradanti nei peggiori film disponibili sulla piazza, è un fatto matematico riconosciuto. Insomma le premesse per questo Red Lights (sto temporeggiando ma ne parlerò, fidatevi) non erano proprio le migliori, senza contare che il film arriva in Italia con i consueti 2-3 mesi di ritardo rispetto al resto del mondo libero, portandosi dietro tutta una serie di giudizi molto poco entusiastici, le aspettative quindi non potevano essere più basse di così.
Margareth Matheson (Sigourney Weaver) e il suo assistente Tom Buckley (Cillian Murphy) sono due esperti di paranormale che tra una lezione universitaria e l'altra attraversano l'America per rintracciare e smascherare i peggiori ciarlatani del paese, due scettici professionisti insomma. Dopo anni di carriera Margareth non ha mai incontrato un fenomeno paranormale che non sia riuscita a spiegare, l'unica eccezione è Simon Silver (Robert De Niro), un mago non vedente dotato di capacità sorprendenti scomparso dalla scena per vent'anni dopo la morte di un giornalista avvenuta durante uno dei suoi show. Quando Simon Silver ricompare per quello che sarà il suo ultimo spettacolo Tom decide di affrontarlo da solo.
Sulle doti tecniche di Rodrigo Cortés non ci erano rimasti dubbi particolari, Buried (per chi non lo sapesse, un film interamente ambientato in una bara) a suo modo era stato un esperimento coraggioso affrontato dignitosamente, purtroppo, preso atto di questo, il film aveva poco altro da offrire a parte una sterile dimostrazione del fatto che è possibile ambientare un thriller in una bara e venderlo ad un pubblico da blockbuster. All'inizio l'ho definito scolastico, e l'aggettivo si presta bene anche per descrivere questo Red Lights, dove almeno dal punto di vista registico tutto è al posto giusto, così giusto da risultare antipatico e noioso, scolastico appunto. Per il resto sembra quasi che Cortés da quella bara non ne sia ancora uscito, perché Red Lights è grigio, buio e opprimente, ma se in determinate situazioni la cosa può funzionare, in altre suona piuttosto ridondante e inappropriata, la tipica fotografia dai toni freddi che si vede in tutti questi thriller prodotti in serie.
La novità è che questa volta Cortés è anche sceneggiatore, il risultato però è lo stesso, superate le intriganti premesse i due impassibili detective del paranormale vengono bruscamente catapultati in una situazione che mette in dubbio le loro certezze, e Red Lights da semplice thriller si trasforma in un thriller soprannaturale che prevedibilmente tenta di instillare nello spettatore lo stesso dubbio che affligge i personaggi. Il problema è che non ci riesce, o meglio, il problema è che, sapendo di non riuscirci, tenta di sorprenderlo e spiazzarlo con salti sulla sedia poco efficaci, scene volutamente ambigue che acquistano senso solo a film finito (come un improbabile incontro tra Tom e Simon poco prima del finale. Ma che mi sono perso ?) e colpi di scena carpiati figli bastardi del cinema di Shyamalan. Ma a conti fatti i reali difetti non sono tanto questi mezzucci furbacchioni, quanto più il fatto che in un film sul dubbio e sulla magia non si respiri né l'uno né l'altra, perché Red Lights è scritto esattamente come è diretto, noioso e poco coinvolgente.