domenica 30 settembre 2012

Reality di Matteo Garrone

Nelle sale dal 28 settembre
Vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2012

Luciano Ciotola (Aniello Arena) è un padre di famiglia napoletano, per vivere gestisce una piccola pescheria insieme all'amico Michele (Nando Paone), e nel tempo libero tenta di arrotondare lo stipendio con una complicata truffa organizzata insieme alla moglie Maria (Loredana Simioli). Nel suo quartiere lo conoscono tutti, un po' per il mestiere che svolge, un po' per il suo carattere esuberante e chiassoso con cui si guadagna l'ammirazione di figli e parenti, che approfittano di ogni occasione per spingerlo a mettersi in mostra con giochi e travestimenti. Un “personaggio” insomma, e come tale decide di presentarsi ad uno dei provini del Grande Fratello, sempre sotto pressione da parte dei famigliari. All'inizio prende la cosa come un gioco, un modo di accontentare i capricci insistenti dei bambini, ma col passare del tempo e il susseguirsi di telefonate e provini comincia a crederci veramente, intanto però la conferma da parte della produzione tarda ad arrivare, e Luciano inizia a vivere l'attesa in modo molto poco sano per lui e chi gli sta accanto.
Con questo Reality Garrone riprende il discorso più o meno da dove l'aveva lasciato con Gomorra, e se all'apparenza i due film non potrebbero sembrare più distanti nei toni e nelle storie che raccontano, in realtà condividono molto più di quanto si potrebbe pensare. Intanto c'è la materia prima, Reality si ispira a un fatto di cronaca esattamente come il libro di Saviano si ispirava a vicende vere o verosimili, poco importa comunque che i fatti siano realmente accaduti, ciò che conta è lo spaccato di vita. Subito dopo c'è lo sfondo, la città di Napoli osservata da punti di vista diametralmente opposti ma non per questo meno autentici, lì c'era il mondo del crimine organizzato o disorganizzato, qui c'è l'individuo comune alle prese con un fenomeno di costume che in quel particolare contesto assume una rilevanza particolare. E poi i toni, perché anche se Reality viene venduto e promosso come commedia, graffiante o agrodolce a seconda dei casi, sarebbe più giusto parlare di black comedy, o addirittura di film drammatico, perché a quella prima parte colorita e spensierata che intravediamo nei trailer ne segue presto una più cupa e tragica, che si fa sempre più scura con lo sprofondare del protagonista nelle sue insane ossessioni, quando anche le macchiette e le situazioni tragicomiche viste in precedenza assumono una connotazione patetica.
Anche Reality è quindi un film freddamente realista, il gelido affresco di una napoletanità fatta di squallore, furberie e ignoranza, dove a dominare sono i contrasti forti, come lo stridore tra la bianca modernità di un gigantesco ipermercato e il degrado degli interni di un quartiere popolare. La distanza tra l'essere e l'apparire non è più quindi quella del reality show, che nel film è solo elemento accessorio, ma quella degli spettatori su cui questo fenomeno si ripercuote, quando la speranza nella grande occasione sembra l'unica cosa in cui è ancora possibile credere. Emblematica in questo senso tutta la prima parte del film, una festa di nozze di un cattivo gusto abbagliante seguita dallo svestimento delle vecchie zie, che nello sfacelo delle loro case si liberano dai vestiti terribilmente appariscenti mostrando le carni cascanti. Qui come nel resto del film la regia di Garrone si fa discreta, un vero e proprio pedinamento da film neorealista, con la macchina da presa sempre distante che si limita a spiare i gesti e le azioni degli attori, avvicinandosi solo per studiare qualche particolare o quei volti grossolani che sembrano quasi maschere.
E a proposito di maschere, portentosa quella del protagonista interpretato brillantemente da Aniello Arena, che regala al personaggio grande spontaneità e naturalezza, oltre alla forza di uno sguardo quasi infantile che riesce a spaventare ed intenerire. Vale la pena spendere qualche parola sull'attore, Arena è infatti un membro della Compagnia teatrale della Fortezza e un detenuto del carcere di Volterra condannato all'ergastolo nel 1991 per aver partecipato alla strage di Piazza Crocelle a Barra, Garrone avrebbe voluto utilizzarlo anche in Gomorra, ma la magistratura non concesse l'autorizzazione. Il resto del cast non è assolutamente da meno, e non parlo della fedina penale.
Volevo chiudere con una piccola riflessione: qualche settimana fa mi è capitato di parlare (molto male) di Bella Addormentata di Marco Bellocchio, che secondo qualcuno non avrebbe vinto/convinto al Festival di Venezia perché troppo italiano per essere compreso da un pubblico, o in quel caso una giuria, di stranieri. Ecco su quel film ho già detto la mia e non intendo ripetermi, ma non si può fare a meno di sollevare la stessa questione per Reality, una pellicola che come Gomorra racconta una realtà profondamente italiana, anzi, una realtà che potrebbe addirittura risultare distante per un italiano che non conosce particolarmente bene il sud. Quello che fa la differenza in questo caso è la forma, Garrone gira due storie provinciali (passatemi il termine) senza risultare provinciale, Bellocchio gira un film su un tema internazionale come l'eutanasia, lo fa molto male, e ha anche l'arroganza di affermare che solo gli italiani possono capirlo.

sabato 29 settembre 2012

Senza Freni - Premium Rush di David Koepp

Nelle sale italiane il MAI.
Eh già, non so quanto stavate aspettando di vedere questo film, di potervelo godere al cinema sbocconcellando un pop corn dopo l'altro e condividere l'esperienza con un gruppo di spettatori infoiati e sudati, ma purtroppo non potrete farlo. Mai e poi mai. MAI! Sarebbe dovuto uscire il 7 settembre, quindi tre settimane fa, ma in concomitanza di quella data la Warner Bros. Italia ha deciso di non fare uscire il film nelle sale ma direttamente in DVD-Blu Ray. Una scelta consequenziale al mezzo flop subito in America (dove doveva uscire a gennaio, poi ritardato a fine agosto, per motivi incomprensibili). E così mentre ci gustavamo il trailer italiano, scorgevamo fuori dai cinema le locandine 2 metri X 50 centimetri, ce l'hanno tolto di bocca. Per ora rimane una vaga data, 29 novembre, che dovrebbe essere quella della release home video, però ancora nulla è certo. Aspetteremo, di nuovo. No aspetterete, io l'ho visto.

Devo ammetterlo, uno dei miei grandi sogni sarebbe quello di vivere a New York. Senza necessità di lavorare, per carità, in modo da potermi alzare ogni giorno quando mi pare e fare il giro di ogni singolo centimetro della più bella città al mondo, dalla penisola di Manhattan fin su su nello Yonkers, dalla parte più bassa di Staten Island fino a Montauk, dagli hipster di Brooklyn fino ai terruncelli di Bed-Stuy. E per fare tutto ciò mi servirei della mia amata mountain bike, così da evitare il traffico più congestionato e poter tagliare senza problemi per Central Park o per uno dei mille parchi cittadini. Quindi mi pare ovvio che un bell'action-thriller con un biker a tutta velocità per le strade della grande mela, fosse un pò il film che apettavo da tempo.
Senza Freni racconta le peripezie di Joseph Gordon-Levitt nella parte di Wilee, un corriere molto espresso di cui si possono chiedere i servigi per consegne di oggetti molto piccoli e confidenziali; buste, fascicoli, carte di vitale importanza. Wilee fa parte di un gruppo molto nutrito di sgambettatori che non conoscono la parola pericolo. Tutto il giorno pedalano in mezzo al traffico a velocità folle per evitare oltretutto di farsi soffiare la commissione successiva da un collega inzeppato di steroidi.
Un giorno Wilee si caccia in un guaio. Deve prendere una busta da una studentessa asiatica, su su alla Columbia University sulla 118esima strada e portarla a Chinatown in un lampo. Proprio mentre sta per ripartire viene fermato da un fantomatico detective che vorrebbe indietro il contenuto della busta e la motivazione sarebbe che sta investigando su quella ragazza. Wilee non gli crede e fugge alla volta della destinazione già impostata sul GPS. Per caso scopre che l'uomo è davvero un detective, per giunta corrotto e pieno zeppo di debiti di gioco con alcune bische clandestine di Chinatown. Inizia così un adrenalinico inseguimento tra la Madison e la decima, passando per Central Park e la quinta. Macchina della polizia contro mountain bike. Riuscirà Wilee a fare la sua consegna?

Dato il flop statunitense (ma la media su IMDb è comunque notevole) mi aspettavo il peggio, e la mia principale paura poggiava su una trama insulsa e esagerata, soprattutto perchè dal poco che si riusciva a evincere dal trailer poteva davvero scadere in un mega complotto da classico thriller americano con questo povero tapino sulla bici e dietro degli elicotteri Harrier con missili puntati, per evitare che la CIA venisse scoperta fare chissà quale nefandezza (e si, ci vedevo anche una scena di tortura con elettrodi sulle palle). Ed invece per fortuna è molto semplice e godibile, addirittura banale, ma stiamo parlando di un film che deve vivere di corse e sgommate, non di parole. 
L'altro timore era rappresentato da un eccessiva azione che poteva sfociare in una vaccata alla Torque Circuiti di fuoco o simili. Quindi evoluzioni sulla bici al limite del fisicamente impossibile e salti lunghi quanto il Brooklyn Bridge. Anche qui invece, tutto promosso. David Koepp (non di certo un regista di genere se si scorre la sua filmografia) è abbastanza abile nel sfornare un prodotto tutto adrenalina, con una trama esile ma non per questo stupida e soprattutto non troppo invasiva, gestito con buonissimi ritmi e una regia piena di soluzioni grafiche accattivanti.
Notevole la scelta di usare una sorta di Google maps per mostrare a chi non è avvezzo al labirintico piano urbanistico newyorkese il percorso più veloce da un punto A a un punto B, come notevole è il rallenty, per fortuna non abusato, che ogni volta scatta fuori quando Wilee si trova a un difficile incrocio, tutto intrafficato e deve decidere in tempo zero, causa anche l'assenza di freni -non servono, anzi sono dannosi, ricorda il protagonista- quale via è la migliore, quale mi eviterà di finire sotto una macchina o di investire quella donna sulle striscie con tanto di passeggino.
Ogni tanto se la sbriga facile con l'uso di un pò di CGI per simulare le auto in corsa, ma il più delle volte è tutto vero e puro -chiedere a Levitt che si è fracassato per bene, 31 punti di sutura su tutto il corpo, a seguito di una rovinosa caduta in bici ma comunque felicissimo, "Fuckin cool" il suo commento, e desideroso di tornare a girare di corsa e usare riprese del suo corpo realmente danneggiato per il film. La mdp segue a stretto contatto i corridori senza perderli un secondo e senza il bisogno di scadere in riprese amatoriali alla Youtube.

Cast ottimo, e tutti i complimenti vanno a Levitt, sempre più divo numero uno a Hollywood -in attesa di Looper- se non altro per i lividi che ha riportato e il ritmo forsennato a cui pedale per tutta la durata del film -FATEJE ER TEST ANTIDOPINGHE!- e a Michael Shannon nei panni del detective Monday. Shannon è divino e per una volta non deve fare il classico pazzo, non è un detective alla Harvey Keitel di Cattivo Tenente, ma è un povero scemo, imbranato e nei guai fino al collo. Stronzo ma non così tanto da incutere timore. Riesci a ridergli in faccia, anche se poi ti pesta a sangue. Un attore che andrebbe messo in qualsiasi film. Completano il cast Dania Ramirez e Wolé Parks (se non erro, vero corriere newyorkese).
Dispiace quindi ancora di più che tale prodotto, godibile non trascendentale, puramente d'intrattenimento (ma di quello bello come dice il Baffo) capace di far spegnere il cervello per un 90 minuti, arrivi direttamente in home video. Consoliamoci che almeno a casa nostra riusciremo a vederlo, e se al supermercato compriamo i pop corn e invitiamo un mucchio di estranei chiassosi, sarà come vederlo al cinema. Suvvia!

Se poi si è interessati al tema -e magari si vuol venire a pedalare con me a New York- nello stesso periodo di riprese stavano girando anche il documentario Triple Rush tutto incentrato sui veri corrieri biciclettari di New York ed inoltre esiste il libro Ultimate Rush di Joe Quirk - che ha fatto pure causa al film per plagio.

lunedì 24 settembre 2012

Resident Evil: Retribution di Paul W.S. Anderson

In sala dal 28 settembre.

Retribution riprende il discorso esattamente dove si concludeva l'episodio precedente, Afterlife: Alice, dopo aver abbattuto l'acerrimo nemico Albert Wesker, si trova sull'Arcadia, la nave dei sopravvissuti all'apocalisse, mentre all'orizzonte si stagliano i plotoni di elicotteri della Umbrella Corporation, pronti a distruggere qualsiasi cosa respiri.
La sequenza d'apertura mette in scena, a ritroso e con il rallenty, il massacro perpetrato dalla cinica compagnia ai danni dell'equipaggio dell'imbarcazione. Nel tentativo di fermare il nemico, a causa dell'esplosione di uno degli elicotteri, la protagonista interpretata da Milla Jovovich viene proiettata in acqua priva di sensi, per poi risvegliarsi in una struttura della Umbrella da dove tenterà di fuggire con l'aiuto inaspettato di un villain dalle motivazioni oscure.
Giunta ormai alla quinta iterazione, anche e sopratutto grazie allo stratosferico successo sui mercati esteri (in america l'episodio più remunerativo ha incassato poco più di 60 milioni di $), la saga cinematografica di Resident Evil ha ormai definitivamente perso i connotati dello zombie movie intravisti nel primo e tutto sommato godibile episodio, per trasformarsi in un becero filmaccio action dove l'azione è un misero pretesto per permettere ai bellissimi protagonisti di spararsi pose plastiche da fotomodelli. Qualche appassionato di videogiochi puntualizzerà che si tratta della stessa evoluzione (o involuzione) subita dalla saga videoludica da cui è tratto il film, io rispondo con la massima “se qualcuno si butta dal ponte non sei costretto a farlo anche tu”.
Non si tratta di facile ironia, questo Retribution sembra avere più affinità con l'ennesimo patinato spot di un profumo piuttosto che con altri film di genere: stesso stile pacchiano, stesso abuso di effetti visivi atti a esaltare la statuaria bellezza dei corpi degli attori, tutto pulito e lindo, con un bianco dominante in lungo e in largo, zero spazio al gore o alla sporcizia.
Resta difficile per il sottoscritto, trattare una pellicola di questa risma senza tenere in considerazione alcuni elementi della produzione, come il fatto che Paul W.S. Anderson (da non confondere con Paul Thomas), regista sceneggiatore e produttore della pellicola, abbia scritto il film basandosi su sondaggi condotti su twitter dove si chiedeva, in barba alla continuity della saga e a eventuali morti, quali protagonisti i fan volessero veder tornare su schermo; e infatti Retribution assume le sembianze di una gigantesca e scriteriata rimpatriata, con personaggi che tornano dall'oltretomba sotto forma di cloni, facce senza carattere appunto, e spezzoni di film presi di peso degli episodi precedenti che vengono rielaborati in qualche maniera.
Glisso volentieri sui dialoghi pessimi e sotto testi inesistenti, del resto come si è già detto siamo lontani dallo zombie movie in genere, figuriamoci da quello di stampo romeriano: piuttosto vorrei concentrarmi su un elemento che dovrebbe essere il punto cardine inattaccabile di produzioni simili, cioè il ritmo. Come se non bastasse l'abuso di rallenty a spezzare l'azione e sfilacciare la narrazione, Anderson ha pensato bene di far fermare i personaggi ogni dieci minuti circa per mettere in scena spiegazioni didascaliche su ciò che sta succedendo su schermo e su come possa ricollegarsi agli episodi precedenti. I primi quaranta minuti sono uno strazio da questo punto di vista; non che dopo il film decolli, sia ben chiaro, ma hanno dato fastidio a me, che del resto della saga ho ricordi piuttosto sbiaditi quindi target prediletto di questo didascalismo, figuriamoci agli aficionados che si trovano costretti a “ripassare” il tutto ogni due per tre.
Nemmeno la struttura “a livelli” di stampo videogiocoso funziona, con tanto di schermata briefing dove la Regina Rossa spiega (di nuovo) come intende fermare i nostri beniamini, anzi contribuisce a spezzettare lo storytelling, rendendo fallace in tal senso il bizzarro, ma quantomeno suggestivo (bisogna dargliene atto) espediente narrativo con il quale vengono messe in scena le location più disparate, da Tokyo a New York, passando per Mosca dove zombie vestiti da soldati dell'armata rossa sparano (?) ai malcapitati di turno.
Se cercate il punto di contatto tra film e videogioco, insomma, rivolgetevi altrove: un fior fior di autore, Edgar Wright, senza doversi affidare a licenze altisonanti ha realizzato la pellicola che fa per voi, Scott Pilgrim vs. The World.
Ultimo appunto, se siete masochisti, segnatevi il nome di Johann Urb, attore semi-emergente (dal 2007 ha partecipato a un numero comunque considerevole di produzioni) qui interprete di Leon S. Kennedy, che sfoggia una performance degna di un pezzo di legno con la pettinatura del personaggio videoludico.
Se il vostro masochismo ancora non si sente appagato, sappiate che il film termina con l'ennesimo, inutile, ridicolo e insensato cliffangher che garantisce la continuità della saga con il sesto episodio già in produzione. Ci vediamo fra un paio d'anni circa per l'ennesima stroncatura.

Il bianco e il nero #15: I comunisti invadono Hollywood

"Questo è l'inizio dei campi di concentramento americani!" Dalton Trumbo.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1945, gli Stati Uniti sperimentarono un'intensa agitazione politica. La preoccupazione dominante era la diffusione del comunismo, ed in seguito alla vittoria comunista in Cina nel 1949 e l'inizio della guerra di Corea, la paura si intensificò andando ad'interessare tutti i livelli della vita americana, tra cui l'industria cinematografica di Hollywood.
Ci furono inoltre problemi correlati, come l'opposizione allo sviluppo di un settore a livello sindacale a Hollywood e la determinazione dei gruppi conservatori e di destra nello smantellamento di molti dei programmi liberali sviluppati durante la presidenza Roosevelt.
A partire dal 1947, elementi della sinistra liberale di Hollywood furono sottoposti a forti pressioni, e molti furono costretti a lasciare il settore, mentre altri subirono l'umiliazione di denunciare i loro orientamenti e fornire alla Commissione Parlamentare per le Attività Antiamericane (HUAC) nomi di amici e colleghi. Alcuni sono stati anche invitati a lavorare per l'Anti-communist Film come Howard Hughes con il suo Ho sposato un comunista (1949), che uscì anche con il titolo Donna al molo 13. Altri, meno fortunati perchè non collaborativi, ebbero un destino diverso (e parlerò proprio di uno di loro).

Il cambiamento del clima politico dopo il 1947 ha fatto sì che film come Odio Implacabile (1947) e Barriera Invisibile (1947), con le loro critiche di antisemitismo negli Stati Uniti, non fossero più possibili. In realtà, era praticamente impossibile la produzione di film con evidenti, o letterali, sentimenti liberali dopo il 1947-1948. Film di questo tipo sono stati sostituiti da un ciclo dei cosiddetti caper film (o heist movie, film di rapine o colpi criminali insomma), che, in alcuni casi, hanno comunque mantenuto quella capacità dei film noir di critica ai vari aspetti del capitalismo - anche se queste critiche furono pesantemente camuffate.
Il genere noir era figlio di una comunità composta da comunisti, socialisti e liberali che andavano tenuti strettamente sotto controllo d'ora in poi, in un periodo post-guerra ancora difficile e pieno di contrasti. Attori, scrittori, registi e produttori come Jules Dassin, Edward Dmytryk, Robert Rossen, Abraham Polonsky, Dalton Trumbo, Elia Kazan, Clifford Odets, Nicholas Ray, Cy Endfield, John Garfield, Lee J. Cobb, Howard Da Silva, Karen Morley, Sterling Hayden, John Huston, Humphrey Bogart, e Robert Ryan furono tutti toccati dal maccartismo e in alcuni casi iscritti a una lista nera, che non permetteva più di lavorare a meno che non si emigrasse dagli Stati Uniti. 
Trattati come traditori e spie, queste persone venivano allontanate da qualsiasi studios e benchè il periodo sia durato relativamente poco, per molti significò la fine della carriera e l'oblio perenne.

venerdì 21 settembre 2012

Filmbuster(d)s - Episodio #13

Sogno o son desto? 2 episodi del podcast di cinema namber uan in una settimana? Ebbene si, come promesso dovevamo farci perdonare dei problemi tecnici del precedente episodio, eccovi quindi il tredicesimo episodio di Filmbuster(d)s, tutto dedicato ai 2 film del momento: il fresco vincitore del Leone d'Oro, Pietà di Kim Ki-duk, e l'oggetto di feroci discussioni sull'Internet, Prometheus di Ridley Scott.
In coda, dopo i saluti, una discussione più approfondita sulla trama piena zeppa di spoiler. Uomo avvisato...

Nel 13° episodio di Filmbuster(d)s:


[00:04:30]Pietà di Kim Ki-duk
[00:26:20]Prometheus di Ridley Scott
[01:06:30]L'angolo della posta
[01:21:32]SPOILER Prometheus




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giovedì 20 settembre 2012

I Bambini di Cold Rock di Pascal Laugier

Nelle sale dal 21 settembre

Ve lo ricordate Pascal Laugier ? Insieme a Xavier Gens, Alexander Aja, Alexandre Bustillo e Julien Maury fa parte di quella new wave che qualche anno fa ha richiamato l'attenzione del pubblico internazionale sul cinema horror francese, letteralmente rinvigorito da una massiccia trasfusione di sangue giovane.
E' proprio Laugier a dirigere una delle pellicole più fortunate e rappresentative di questa breve parentesi, Martyrs, un horror molto atipico che nell'arco di poche scene passa dal truculento spinto al mistico, sconvolgendo gli spettatori più sensibili e tutti quelli che dell'horror hanno una visione piuttosto stereotipata. Da appassionato del genere devo ammettere di non essere un grande ammiratore di questo filone, però sempre da appassionato, e soprattutto da italiano, non posso fare a meno di ammirare l'originalità e la vitalità del cinema francese (e spagnolo).
Dopo Martyrs Laugier sparisce dalla scena per quattro anni (salvo forse per un rumor su un possibile remake di Hellraiser), e oggi torna nelle sale scrivendo e dirigendo questo The Tall Man, produzione franco-canadese che gli assicura la partecipazione di un'attrice come Jessica Biel, oltre ad una serie di attori americani meno celebri (Jodelle Ferland, Stephen McHattie e William B. Davis, il mitico “Uomo che fuma” di X-Files), un po' la stessa cosa capitata a Xavier Gens con il suo The Divide, che vi consiglio di recuperare.
La Cold Rock del titolo italiano è una città morta, la classica cittadina mineraria che inizia lentamente ad appassire dopo che la grande miniera intorno a cui è cresciuta viene chiusa. Alla crisi e al degrado si aggiunge presto un'altra tragedia, i bambini di Cold Rock iniziano a sparire, rapiti nel cuore della notte da una misteriosa figura che i locali chiamano The Tall Man. Un vero e proprio orco che fa la sua drammatica apparizione ogni due mesi secondo una macabra tradizione a cui i cittadini sembrano quasi essersi rassegnati. Su questo sfondo si muove Julia Denning (Jessica Biel), un'infermiera costretta a vestire i panni troppo grandi del defunto marito, medico e pilastro della comunità. Ma i due mesi dall'ultimo rapimento sono trascorsi, e suo figlio David diventa la nuova vittima del rapitore.
A raccontarlo così sembrerebbe il più classico degli horror americani, e infatti i cliché ci sono tutti, la città mineraria, i bambini rapiti, la madre coraggiosa che non vuole arrendersi al mostro di turno... Ma in The Tall Man di classico c'è solo la struttura, e quella premessa così poco originale e interessante si rivela presto qualcosa di più complesso, attraverso una serie di colpi di scena che disorientano lo spettatore capovolgendo in continuazione il suo punto di vista. Perché, contrariamente a quanto suggerisce la locandina e a quanto si potrebbe intuire sentendo il nome del regista, I bambini di Cold Rock non è un horror ma un vero e proprio thriller, e se la componente horror è comunque abbastanza marcata, sono i toni drammatici a dominare di più.
Mi rendo conto di essere un po' troppo evasivo, ma è difficile parlare dei meriti di un film del genere senza incappare nei proverbiali spoiler, però qualcosa la devo pur dire, perciò vi basti sapere che ad una prima parte tutto sommato misteriosa e intrigante, che potrebbe benissimo costituire un film a se, ne segue una emotivamente più coinvolgente basata tutta su una serie di rivelazioni più o meno sorprendenti, a partire da ciò che non è stato detto piuttosto che da qualcosa che è stato spacciato per vero agli occhi dello spettatore, per esempio con dei flashback volutamente ambigui. Il motivo per cui questa seconda parte funziona così bene è proprio l'assenza di soluzioni narrative eccessivamente didascaliche, tutto ciò che lo spettatore non può intuire da se viene semplicemente suggerito, o raccontato in modo più diretto in contesti che rendono queste spiegazioni abbastanza giustificate. A questo si aggiunge un'ottima gestione dei tempi narrativi, sia quando il ritmo è più disteso, come nella parte introduttiva e in quella finale, sia quando si fa più concitato, come nell'inseguimento centrale, un climax piuttosto intenso che incredibilmente pur essendo inserito a metà film non compromette l'interesse per la seconda parte, che anzi si fa via via più appassionante.
The Tall Man sembrerebbe quindi uno di quei film che esauriscono tutta la loro forza ad una prima visione, dopo che i colpi di scena hanno svolto il loro compito; e in un certo senso è così, ma c'è qualcosa di più, la componente emotiva di cui parlavo prima, quella che nella maggior parte degli horror e dei thriller viene quasi sempre meno, anche quando si parla di vicende estremamente drammatiche; tutto quello che muove i personaggi sulla scena e riesce a farci entrare in sintonia con loro persino in mezzo allo squallore di una storia del genere, a interrogarci come loro sul valore di quello a cui abbiamo appena assistito, a rimanere con qualche dubbio, perché le cose spesso sono più complicate di quello che sembrano. E se si è disposti ad accettare qualche compromesso in un mix così particolare di adrenalina, mistero e dramma, I bambini di Cold Rock è un film che riesce ad emozionare come raramente succede quando si parla di orrore.
Nota di merito a Jessica Biel, prima di tutto per essersi prestata a qualcosa di così distante dalle sue solite partecipazioni, e poi perché nonostante tutto se la sbriga discretamente, struccata e imbruttita il giusto per immergersi al meglio in uno sfondo così desolante.

lunedì 17 settembre 2012

Filmbuster(d)s - Episodio#12

ATTENZIONE! La registrazione dell'episodio che state per ascoltare è stata funestata da un fastidioso ticchettio di fondo, stile metronomo, che ha scandito le nostre voci per tutta la durata del podcast. E' fastidioso da ascoltare, parecchio, abbiamo cercato in tutti i modi di eliminarlo ma siamo solo riusciti a ridurlo. Per farci perdonare pubblicheremo in settimana anche l'episodio 13. Scusateci per l'inconveniente.

Nel 12° episodio di Filmbuster(d)s:

[00:05:55]Venezia 69
[00:25:40]La Bella Addormentata
[00:37:20]Eva
[00:42:00]Babycall
[00:46:50]La Faida
[00:53:00]The Bourne Legacy
[01:13:45]Ribelle - The Brave


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domenica 16 settembre 2012

Il bianco e il nero #14: Gli ultimi giorni di James Dean

-Gig Young: "Un'ultima domanda. Hai qualche consiglio speciale per i giovani che guidano?"
-James Dean: "Guidate con prudenza. La vita che salvate potrebbe essere la mia".
Conclusione di uno spot speciale per una Pubblicità Progresso contro l'eccesso di velocità del 28 luglio 1955, due mesi prima del suo incidente mortale. Doveva concludere con "La vita che salvate potrebbe essere la vostra", ma la personalizzò.

Il 30 settembre 1955, giorno della sua morte, James Dean era un divo nascente. Il suo primo film, La valle dell'Eden, era uscito da qualche mese nelle sale, Gioventù bruciata stava per uscire e le riprese del terzo film, Il gigante, stavno per terminare. Tra il secondo e il terzo film non prese neanche un giorno di pausa e corse a Marfa, una piccola, torrida, cittadina del Texas per le riprese. Gioventù bruciata lo aveva sfibrato fisicamente e psichicamente, immerso in un ruolo complesso e in un film che, stando a Dennis Hopper, "aveva diretto praticamente lui. Ray gli lasciava fare di tutto".
Nato cinematograficamente sotto Kazan e Ray, scolasticamente con il metodo Starsberg, Dean mal sopportava i modi di George Stevens, regista de Il Gigante, e Stevens non poteva vedere Dean. Il giovane ribelle gli da del "ciccione", il regista della vecchia guardia contava sistematicamente tutti i minuti di ritardo che faceva accumulare alla produzione e un giorno, vedendolo sempre gironzolare con la sua cinepresa Super 8 gli disse "Impara a usarla bene. Perchè saranno gli unici film che riuscirai a girare. Farà in modo che nessuno ti faccia più lavorare a Hollywood".

Durante una breve pausa, torna a casa, a Los Angeles con un obbiettivo preciso in testa: una corsa automobilistica. Eppure gli avevano fatto firmare un contratto in cui era specificato che non avrebbe mai dovuto partecipare a una corsa automobilistica durante le riprese del film.
Quel venerdì mattina era elettrizzato e teso. Si svegliò presto la mattina, dopo poche ore di sonno causa ore piccole, pronto per andare a Salinas dove avrebbe corso per la prima volta con il suo nuovo bolide, una Porsche 550, ottenuta in cambio della precedente, una Speedster.
Il nuovo giocattolo lo aveva rodato un poco nei giorni prima durante qualche giretto con l'amico attore Bill Hickman (che diverrà poi stuntman in film come Bullit o Il braccio violento della legge) appassionato come lui di corse. Aveva soprannominato la Porsche Little Bastard e lo aveva scritto su una delle fiancate. Al ritorno, si erano fermati al Villa Capri, noto ristorante di celebrità come Bogart, Bacall, Sinatra, Marilyn, Judy Garland (quando c'era il pienone gli preparavano un tavolo in cucina. Era uno di casa).
Poco prima di partire, come se sapesse, sistemò alcune questioni. Prima di tutto il gatto, Marcus, come lo zio, regalatogli da Elizabeth Taylor, lasciato a una amica con una lista rigida di regole da rispettare. Poi stipulò una polizza sulla vita: 100 mila dollari in caso di morte spartiti così, 85 mila agli zii, 10 mila alla scuola del cuginetto e 5 mila ai nonni.

Prometheus di Ridley Scott

Nelle sale dal 14 settembre
Dopo mesi di attesa, quando l'uscita del blu ray è ormai imminente (11 ottobre per chi fosse interessato) e il film è stato scaricato in tutte le forme possibili dagli spettatori italiani più impazienti, Prometheus arriva finalmente anche nelle sale nostrane (anche in 3D, ma questa recensione si riferisce alla versione 2D) e l'accoglienza non è proprio delle migliori.
Pianeta sconosciuto, data sconosciuta, una creatura umanoide con le fattezze di una statua in stile art deco ingerisce uno strano liquido scuro e si decompone all'ombra di una gigantesca nave spaziale.
Anno 2089, nelle Highlands scozzesi l'archeologa Elizabeth Shaw (Noomi Rapace) e il suo compagno Charlie Holloway (Logan Marshall Green, ma io sono ancora convinto che sia Tom Hardy) scoprono l'ultima di una serie di pitture rupestri raffiguranti esseri umani in adorazione davanti a delle figure gigantesche che indicano una costellazione sconosciuta, forse un invito a comunicare da parte dei creatori della razza umana.
Dopo l'ennesimo brusco salto, ritroviamo i due archeologi a bordo della nave spaziale Prometheus, in una spedizione scientifica finanziata dal defunto Peter Weyland che ha l'obiettivo di raggiungere il sistema solare di cui sopra per mettersi in contatto con questi misteriosi “ingegneri”. A bordo insieme a loro ci sono la gelida Meredith Vickers (Charlize Theron), il comandante Janek (Idris Elba) un gruppetto di militari e scienziati, e David (Michael Fassbender) l'androide platinato ossessionato dal film Lawrence D'arabia, che ha l'incarico di decodificare la lingua aliena a partire da quelle terrestri. Naturalmente le cose andranno nel peggiore dei modi, dopotutto si tratta di un prequel alla saga di Alien.
Una responsabilità non da poco, e un fattore che sicuramente avrà pesantemente influenzato il giudizio di molti, eppure Ridley Scott ci ha tenuto fin da subito a dichiarare che Prometheus non è da considerare semplicemente come un prequel del suo Alien, ma come qualcosa che a partire dal film del 1979 (sfruttandone anche la popolarità, perché no) cerca di intraprendere una direzione nuova e diversa, e personalmente ritengo che almeno in parte ci sia riuscito. E' vero, le strizzatine d'occhio e i riferimenti alla saga originale abbondano, e le trame sono innegabilmente intrecciate, ma, considerando che questo Prometheus si pone come incipit di una nuova saga, mi piace interpretarlo come un trampolino di lancio verso il futuro e un congedo dal passato, un modo per avvicinarsi allo spettatore con qualcosa di familiare per poi portarlo altrove e sviluppare qualcosa di più personale. E questo secondo me si fa ancora più evidente nel finale, che, salvo svolte impreviste nei prossimi capitoli, ho voluto provvisoriamente leggere come un addio di Scott alla “sua” stessa creatura, insomma lo xenomorpho l'avete visto, qualche idea sulle sue origini ve la sarete fatta, lo sfizio ve lo siete tolto, adesso fatemi fare qualcosa di differente.
E io a Ridley Scott un po' di fiducia glie la voglio dare, prima di tutto perché Prometheus è un'autentica goduria per gli occhi, tecnicamente maestoso, e in secondo luogo perché è riuscito a farmi sentire piccolo piccolo con le sue astronavi mastodontiche e con le sue creature misteriose e imponenti, che creano e distruggono la vita per ragioni del tutto sconosciute, o forse per ragioni che l'uomo potrebbe trovare estremamente banali e deludenti, come ci ricorda il diabolico David. La casualità per esempio, il corpo in decomposizione di una creatura aliena che inaspettatamente genera la vita nelle acque di un pianeta disabitato.
Sicuramente non è un film esente da difetti, la parte introduttiva per esempio è un po' tagliata con l'accetta, con quelle due false partenze che non danno modo di assaporare come si deve l'impatto della primissima scena. E poi ci sono tutta una serie di problemi che iniziano a farsi sentire nella seconda parte, quando si entra nella fase più concitata della narrazione, insomma i soliti cliché, le solite disattenzioni, i soliti improbabili diversivi comici che non fanno ridere più nessuno e devastano l'atmosfera, eppure non è così difficile mantenere la sospensione dell'incredulità in mezzo al precipitare degli eventi, dove tutti sembrano perdere il controllo tranne l'enigmatico David, androide senz'anima che forse senz'anima non è. Alla fine se ne esce più che sazi, con la giusta dose di curiosità per ciò che c'è ancora da dire, e, cosa abbastanza rara, senza sentirsi in qualche modo truffati per ciò che ancora non è stato detto.


Ah giusto, qualcosa sul cast...
Noomi Rapace rossa mi conturba ancora di più.

sabato 15 settembre 2012

Pietà di Kim Ki-duk

Nelle sale dal 14 settembre.
Kim Ki-duk è tornato e non solo formalmente -quello lo aveva già fatto un anno fa con Amen, un prodotto troppo personale che non lo convince e lo ritirò dalla visione al pubblico dopo poco tempo- ma letteralmente. Ne è valsa la pena aspettare quattro anni, tanto è passato dal suo ultimo film, Dreams, per poter godere a pieno del meraviglioso Pietà.
Ancora più gioia si prova nel vederlo trionfare alla 69esima mostra del cinema di Venezia dove ha sbaragliato la concorrenza composta da nomi come P.T. Anderson e Terrence Malick e festeggiare intonando un piccolo assaggio di Arirang.
Kim è rinato, dopo una pausa autoimposta in seguito a un incidente accaduto sul set (proprio di Dreams) che ha causato una crisi sia produttiva sia esistenziale. Non si riconosceva più, non capiva in che direzione il suo cinema e la sua vita stessero andando. Ha avuto il bisogno di isolarsi, di una lunga autoriflessione per comprendersi e anche perdonarsi (qualora ci fossero delle reali colpe), per perdere quella pressione che sentiva sulle spalle, diventato in pochi anni il più fulgido esponente del cinema asiatico post 2000, con una folla sempre più grande e sempre più in attesa del suo prossimo lavoro. Lo ha fatto nell'unico modo che conosce, con la macchina da presa, in Arirang.

"I bastardi siete voi, che vi indebitate senza ragionare e poi non saldate i debiti".
Torna con un film rischioso, come hanno sottolineato molti. Un'opera contemporanea, legata al presente e alla situazione economica che la nostra epoca sta attraversando. Un film fortemente sentito, viscerale e capace di colpire in più punti, al cuore, allo stomaco, al cervello. 

Lee Kang-do lavora per uno strozzino che ogni giorno lo sveglia con la foto di un nuovo malcapitato in ritardo coi pagamenti da andare a trovare. Per ogni cifra richiesta, gli interessi sono del mille per cento, in pratica, impossibile saldare il debito. Ma Gan-do non si fa problemi e soprattutto non ci rimette di certo di tasca sua. Se uno dei poveri artigiani locali non può pagare, viene reso invalido di modo che i soldi dell’assicurazione potranno ripagare il debito. Un giorno però si presenta a casa sua una donna, sostenendo di essere la madre che lo abbandonò appena nato. Kang-do non si fida e sottopone la donna a prove disgustose. Una volta ottenuta la fiducia, inizia per i due una nuova vita. Finalmente riuniti, passano le giornate come fossero tornati indietro nel tempo, all'infanzia del ragazzo e tornano a essere una vera famiglia. Kang-do conosce il perdono e la pietà appunto, davanti alle sue vittime. Questo idillio si rompe quando uno dei debitori storpiati rapisce la madre e minaccia di ucciderla. Il carnefice che si riscopre vittima.

Nel piccolo quartiere di Cheonggyecheon si vive in povertà, nella sporcizia, chiusi nelle officine che fungono anche da casa, con la città, Seoul, e i suoi grattacieli che stanno per sommergerlo, distruggerlo, mangiarselo vivo. Non c'è più spazio per i piccoli professionisti con la propria torneria o la modesta officina. Il capitalismo sta per inghiottirli e il suo unico mezzo e arma infallibile è il denaro, il vero protagonista del film. Li colpisce con i debiti, li elimina. E' una situazione senza via d'uscita. Persino un povero coniglio, simbolo di innocenza, una volta liberato, non riesce a salvarsi, a sfuggire al suo destino prestabilito.
Non c'è quindi salvezza per Kim, nel suo film più nero, più atroce. Non c'è salvezza per questa gente, perchè non esiste un altra realtà nel film, non la vediamo. I grattaceli e il benessere sono lontani, sono solo uno sfondo, irraggiungibile e intoccabile. 

A Cannes vinse l'amour, a Venezia vince la pietà.
La pietà del titolo -ispirata da quella di Michelangelo, scultura vista dal regista in diverse occasioni durante le sue visite in Vaticano- si dirama verso tre direzioni. Pietà per un uomo, uno strozzino, violento, senza morale, senza coscienza, ma vissuto senza una famiglia, senza una madre amorevole. Pietà verso una madre che ritorna dal figlio, pentita, addolorata. Pietà per la condizione umana, per i commercianti, che la invocano a gran voce, invano. Pietà insieme alla vendetta, l'altra faccia della medaglia, l'altra reazione. Perchè non tutto può essere perdonato, non tutto merita pietà.

 Non solo Kim Ki-duk è tornato ma è ritornato alle origini. Pietà è molto simile ai suoi primi lavori (The isle o Adress unknown, Bad guy) dove nel connubio violenza e poesia, la prima prende un leggero sopravvento. Come se fosse animato da un nuovo vigore, un nuovo furore, il regista è ringiovanito risponde così alle critiche di una immobilità creativa e stilistica, e di una certa ripetitività nelgi ultimi lavori. E' quini un film di rottura, anche di più di Arirang.
Pietà è un film meraviglioso per la gamma di sensazioni che riesce a far trapelare dalla pellicola. Lo shock della violenza nuda e cruda, la compassione per un povero neo-papà, capace di farsi amputare entrambe le mani pur di dare al figlio un futuro decente, il disgusto per la scena più forte del film, quello stupro-incesto tra madre e figlio, e l'amore e la gioia di rivedere una famiglia riunita, gli abbracci che si scambiano nel ritrovarsi insieme, di nuovo. Poesia e violenza, sempre presenti, come nei migliori Kim Ki-duk.

Fenomenale il duo presente su schermo. Lee Jung-jin è una maschera di violenza e fragilità. E' iraggionevole, furioso, impassibile davanti alle suppliche e al dolore dei poveri abitanti del suo quartiere ma una volta ritrovata la madre straripa tutta la sua insicurezza e fragilità. Jang Mi-sun anche lei fantastica, per mille ragioni che non possono essere rivelate qui, senza andare in spoiler. 

Mi rendo conto di aver fatto davvero fatica a scrivere di questo film meraviglioso -anche Ghezzi, forse a causa degli antidolorifici per la gamba rotta, riusciva solo a ripete un "è bellissimo, è bellissimo"- ma è anche questo Kim Ki-duk. Sensazioni, emozioni, difficile mettere su carta quello che riesce a trasmetterti con così tanta facilità, senza ricercare espedienti particolari o complicati. Va visto, va vissuto, con quel finale che ti lascia tanto dentro e allo stesso tanto vuoto. 
Se la cura Arirang funziona così bene, ci si dovrebbero sottoporre moltissimi registi. Bentornato Kim.

venerdì 14 settembre 2012

Ribelle - The Brave di Brenda Chapman e Mark Andrews


Nelle sale dal 5 settembre.

Scozia medievale, Re Fergus e Regina Elinor decidono di consolidare l'alleanza con i lord locali (MacGuffin, MacIntosh, Dingwall) mettendo in palio, come da tradizione, la mano della figlia Merida in un torneo di tiro con l'arco al quale parteciperanno i rampolli delle tre famiglie. Tuttavia Merida, da sempre restia a sottostare alle regole da brava principessina dettate dalla madre, decide di ribellarsi e, sfruttando la sua abilità con l'arma in questione, rivendica la propria indipendenza e fugge via di casa. Condotta dai fuochi fatui presso la casa di una strega, chiede alla megera un incantesimo che gli permetta di cambiare il proprio destino ma bisogna stare attenti a ciò che si desidera...
Ribelle – The Brave è lo sperato ritorno di Pixar al cinema di qualità dopo il tonfo qualitativo del poco ispirato (se non da motivi di matrice strettamente economica) Cars 2: se, dopo ben undici film che avevano ottenuto consensi pressoché unanimi, il successo di pubblico e critica dell'ennesima opera sembrava scontato, il secondo episodio della saga automobilistica aveva fatto storcere il naso ai più, spingendo alcuni a pensare che la magia si fosse spezzata e che fosse l'inizio di un calo qualitativo inesorabile. L'annuncio di voler realizzare altri seguiti dei brand più famosi non aveva aiutato in tal senso. Ecco, magari ho esagerato e la situazione non era esattamente così drastica, ma alzi la mano chi dopo il tonfo non ha nutrito perplessità sul futuro degli studios.
A onor del vero, sebbene Brave abbia incassato molto bene al botteghino, la critica statunitense non gli ha tributato il solito plebiscito di elogi e i detrattori hanno fatto leva sulla presunta derivazione di temi e background dalla produzione Disneyiana, tacciando la pellicola di poca originalità.
Senza dubbio, la lavorazione è stata travagliata, con l'allontanamento per divergenze creative di Brenda Chapman a lavori già avviati: nessuna misoginia, come qualcuno ha accusato, succede spesso nel cinema d'animazione, tuttavia per la Chapman si trattava di una storia di particolare importanza, intima, scritta pensando al rapporto conflittuale con sua madre. L'avvicendamento con un uomo dalla diversa sensibilità poteva causare un tragico deragliamento, invece, fortunatamente, Brave è un film, a parere di chi scrive, riuscitissimo, segno probabilmente della forza della sceneggiatura della Chapman.
Diciamolo subito: è un film Pixar minore.
Personalmente ritengo che nella produzione dello studio spicchino quattro opere su tutte: Gli Incredibili, Wall-E, Ratatouille e Up. Ribelle non ha la verve creativa, il gusto citazionistico e la storia di ampio respiro che caratterizzano questi “Fantastici 4” e che li elevano su tutti gli altri.
Tuttavia, da qui a definirlo “narrazione standardizzata stile Disney travestita da film Pixar” come qualcuno l'ha definito, ce ne passa di acqua sotto i ponti.
Il retaggio di una serie di pellicole così qualitativamente elevate è che molti danno per scontati elementi, stilemi e raffinatezze che scontate non sono affatto, e per accorgersene basta guardare un film d'animazione in computer graphic di altri studios. A mandare in frantumi la tesi che sia un film disneyano basta tenere in considerazione la rottura di alcune regole della fiaba cinematografica: Merida non è ne il primo ne l'ultimo (si spera) modello femminile dal carattere forte, ma l'emancipazione del personaggio passa per l'affermazione rigida e inflessibile delle proprie volontà e non, come succederebbe nel Disney medio, per il compromesso della realizzazione di un amore impossibile: si veda Aladdin, Rapunzel, La principessa il ranocchio e molti altri. Per non parlare poi del cattivo del film, la strega, che de facto cattivo non è, bensì si tratta di una sorta di maestra riluttante dai metodi un filino drastici. In ogni caso, bisogna tener conto del fatto che la ribellione porta allo scontro tra madre e figlia, e non è cosa da poco perché di solito la figura materna, o più in generale la donna, è quasi sempre messa in ombra nell'opera Disney se non quando declinata con toni negativi, si pensi alle innumerevoli matrigne.
Altro elemento che si da per scontato quando si parla di Pixar è la certosina cura per il dettaglio e la realizzazione tecnica all'avanguardia: basta mettere sull'altro piatto della bilancia un Kung fu Panda a caso per rendersi conto che la caratterizzazione dello scenario, la Cina, passa per qualche ideogramma qui o lì, un paio di fuochi d'artificio e pagode assortite. In Brave, a voler essere aulici, si sente quasi l'odore dei pini dopo la pioggia e ti sembra di toccare il tessuto del Kilt mentre le cornamuse suonano a festa, i rossi capelli di Merida si potrebbero quasi toccare, prenderne uno singolarmente o soppesare una ciocca tra le dita.
Meritano una menzione a parte i personaggi, per la caratterizzazione sia fisica che psicologica e per la recitazione, sempre puntuale e spesso efficace nel comunicare emozioni senza l'ausilio delle parole: in primis la Regina Elinor, madre fantastica nella sua inflessibile severità, condivide con Merida il ruolo di protagonista e forse gode di una maturazione altrettanto evidente. Unico elemento che stona sono i tre fratellini di Merida, una declinazione poco felice della comicità slapstick, più calzante a un film Dreamworks che Pixar.
In definitiva, Ribelle – The Brave è una storia intimista, personale e forse proprio per questo non nelle corde di molti, ma non bisogna farsi fuorviare dall'utilizzo di musiche o dal setting principesco/medievale, si tratta piuttosto di un ottimo film Pixar con tutti i crismi del caso. Se non avete troppa fiducia nei prossimi sequel annunciati dallo studio, fossi in voi mi terrei ben stretto questo progetto inedito anche visto e considerato che, a causa della tribolata lavorazione, sarebbe potuto essere un flop clamoroso.

giovedì 13 settembre 2012

Dalla "nostra" inviata speciale a Venezia

E anche per quest'anno, Venezia è finita. Ha vinto Kim Ki-duk, ci sono state polemiche, l'Italia è uscita con le ossa rotte. Il solito. Noi, se n'era parlato in una puntata speciale qualche settimana fa, una sorta di antipasto e presentazione. Avremmo voluto tanto esserci, vedere, fischiare, gioire, ma siccome siamo pigri e al verde, siamo rimasti a casa. Nessun problema però, perchè la "nostra" inviata speciale, Beatrice Fiorentino live from the Lido, ci confida adesso, le sue impressioni finali, a leoni in gabbia.

Non riesce mica semplice dare un giudizio sull’edizione appena conclusa della Mostra del Cinema di Venezia, che è stata, soprattutto, l’edizione “Barbera bis”. Al banco di prova una gestione che ha dato l’impressione generale di essere ancora un oggetto “in divenire”, poche le certezze e sbiaditi i punti di riferimento. Tralasciamo la logistica che comprendeva connessione internet a singhiozzo e porte dei bagni con le serrature rotte dal primo all’ultimo giorno (ma un fabbro che fa riparazioni urgenti, al Lido, non c’è?). Lasciamo da parte anche il Market che, lungi dall’essere il tanto auspicato fiore all’occhiello, a quanto si dice, lascia un po’ il tempo che trova. E parliamo di cinema. Mi tocca fare una doverosa premessa perché all’ora di stendere un bilancio complessivo, mi trovo nell’imbarazzo che deriva dall’aver dovuto necessariamente sacrificare più di una visione, perché si sa, quando si va a un festival per scrivere bisogna mettersi il cuore in pace, ma poi come si fa a sputar sentenze? Ok, ci provo, ma dovrò per forza restare sul visto (e cioè su un’impressione, ahimè, parziale della manifestazione). Allora, quando tutti ormai lamentavano un’edizione scadente, moscia, piatta, innegabilmente rabbuiata dal drastico calo di presenze che ha reso sì l’atmosfera un po’ dimessa, ma ha altresì consentito di non rimanere esclusi da nessuna proiezione, ecco finalmente arrivare quei “gran bei film” a tirarci sul il morale! E non si può certo dire che i titoli siano mancati… anche se potrebbe venire da dire: oh, bè, ma ci mancherebbe altro!
Ecco. Io sono felice, ho visto “The Master” (in 70 mm.) e per me tanto basta. Magnifico. Enorme. Inarrivabile (come Joaquin Phoenix, trasfigurato e claudicante come un Riccardo III). Ho visto Kim Ki-Duk tornare in forma dopo il buio che lo ha tenuto in ostaggio per anni, ho visto Bellocchio in super forma con un film che s’incastra alla perfezione nel suo personalissimo percorso di indagine. Ho visto il tripudio ultra-pop di Harmony Korine che con il suo “Spring Breakers” (wow!!) ha sedotto un po’ tutti. Diamine, finalmente una scossa! Forma che diventa contenuto, ironia, vento di novità. Basta questo per accaparrarsi un leone d’oro? In effetti, forse no…
Ancora gioia? Eh sì, lo ammetto, a me è piaciuto. So anche che siamo forse dieci in tutta Italia…ma nessuno mi tocchi Terrence Malick e la sua Meraviglia! Ssssh, silenzio, non si aggiunga altro e chi preferisce non vederlo, ne ha piena facoltà!
 Ho visto anche altri film piacevoli: “Après Mai” di Olivier Assayas, “Outrage Beyond” di Takeshi Kitano (che solo a vederlo ti mette allegria, benedetto sia per sempre Beat Takeshi, con quella faccia un po’ così), “Passion” del maestro della discontinuità Brian De Palma (ma a copiare Hitchcock qualcosa salta sempre fuori…); e altri film tanto tanto tanto piacevoli: “Wadjda”, “Disconnect”, non innovativi ma tra i più belli (e meno male che qualche sorpresa c’è!); delusioni kolossali: “Linhas de Wellington” di Valeria Sarmiento su un progetto lasciato incompiuto dal marito Raoul Ruiz; sostanzialmente inutili: “At Any Price”, “Cherchez Hortense”; e ciofeche inguardabili: “Una giornata speciale” di Francesca Comencini, il punto più basso (in concorso!?)… Stop. Abbiamo capito. Come ad ogni Festival c’è stato un po’ di tutto. E allora, dove sta il problema? Il problema c’è e non è banale: manca un’idea di cinema, manca una proposta intellegibile. Film da concorso stavano “fuori concorso”, film in concorso che, a esser generosi avrebbero potuto stare nell’abolito ghetto “Controcampo italiano”, film da Orizzonti “fuori concorso” e viceversa…. Insomma: che confusione! E arriviamo quindi ad un punto cruciale, alla punta di diamante della stagione Müller chiamata “Orizzonti”, corsia parallela dal nome evocativo che aveva ospitato i film di Shinya Tsukamoto, James Franco, Amiel Courtin-Wilson, Amira Naderi, Tusi Tamasese, e Ben Rivers… cos’è diventato oggi “Orizzonti”? Cito testualmente dal sito della Biennale: "Le nuove correnti del cinema mondiale”. Dev’esserci qualcosa che mi sfugge.

E scoop clamoroso, coprirà per noi anche il prossimo Festival di Roma. Evviva!

Beatrice lavora per il sito http://www.cineclandestino.it/it/, buttateci un occhio.

lunedì 10 settembre 2012

The Bourne Legacy di Tony Gilroy


Nelle sale dal 7 settembre.

Treadstone e Blackbriar. Due operazioni top secret della difesa del governo statunitense che Jason Bourne si diverte a rendere pubbliche durante l'ultimo film della trilogia con protagonista Matt Damon, The Bourne Ultimatum. A farne le spese non sono solo le alte sfere della CIA: Eric Byer (Edward Norton), supervisore delle operazioni clandestine dell'agenzia d'intelligence, scopre infatti su internet un video potenzialmente compromettente dove appaiono insieme i capi ricercatore di Treadstone e di Outcome, un altro programma top secret che prevede l'impiego di agenti dalle capacità intellettive e fisiche incrementate grazie all'assunzione di speciali pillole.
Al fine di non rivelare i risultati scientifici ottenuti da Outcome, Byer decide di eliminare il programma dalla radice, assassinando i ricercatori e gli agenti coinvolti, tra cui Aaron Cross (Jeremy Renner) che, sebbene sia a corto di pillole, non sembra avere alcuna intenzione di soccombere e, anzi, rintraccia uno degli scienziati del progetto, l'unico sopravvissuto, la dottoressa Marta Shearing (Rachel Weisz) al fine di trovare un metodo per rendere permanenti i miglioramenti indotti dal'abuso di farmaci.
Spin-off di una delle saghe action hollywoodiane più remunerative del recente passato, The Bourne Legacy deve fare i conti con un'eredità più pesante di quella meramente economica: si tratta infatti di pellicole che hanno riscosso un successo di pubblico e critica più unico che raro per film di genere; in special modo l'ultimo episodio, diretto da Paul Greengrass, ha totalizzato una percentuale di recensioni positive impressionante (94% su rottentomatoes.com) e ha fatto man bassa di premi oscar tecnici (montaggio, montaggio sonoro e missaggio sonoro) all'80esima cerimonia degli Academy Award.
Per quanto in sede di recensione ritengo debba esser prassi giudicare un film per quello che è, senza farsi condizionare da un paragone con eventuali prequel et similia, penso che durante la visione il confronto sia un meccanismo mentale inevitabile, quindi tanto vale togliersi subito il dente e buttar giù due righe al riguardo.
Come immagino sappiate, Paul Greengrass e Matt Damon hanno detto no a un sequel di The Bourne Ultimatum: consapevoli del fatto che una storia di Jason Bourne senza le due personalità di cui sopra non avrebbe avuto senso di esistere, i produttori Frank Marshall e Patrick Crowley hanno affidato a Tony Gilroy, sceneggiatore della saga originale, il compito di scrivere una sceneggiatura, per la prima volta non tratta da un romanzo di Robert Ludlum, su una storia ambientata nel mondo di Bourne e di dirigerla. Le differenze d'approccio appaiono evidenti, The Bourne Legacy è esattamente la reinterpretazione che ci si aspetterebbe dal regista di Micheal Clayton: innanzitutto ha probabilmente più linee di dialogo di tutti e tre i prequel messi insieme, ma non per questo il ritmo viene meno. Certo, è necessario che vi togliate dalla testa il giro in giostra firmato Greengrass, tutto inseguimenti telecamera a mano e vertiginose evoluzioni da freerunner; Gilroy, consapevole dell'errore che avrebbe commesso scimmiottando il collega, costruisce comunque un thriller teso e avvincente, ben scritto, che si svolge più nelle camere del potere che non sulla strada alle calcagna del ricercato.
In ogni caso, i tratti distintivi della saga non vengono mai meno: tante location varie e suggestive (notevole il “prologo” ad alta quota), diversi momenti di genuina suspence e un attore protagonista, contro le previsioni avverse, con il phisique du role e una notevolissima presenza scenica, credibile quando mena le mani a velocità supersonica quanto nel sottolineare, con una buona performance, la diversa prospettiva sull'invincibilità dei super-agenti offerta dal film.
L'idea della dipendenza da farmaci è infatti decisamente riuscita e legata a doppio filo con il leit motiv della pellicola, ma più in generale della saga, ovvero il controllo psicologico e tecnologico che di fatto violano ogni velleità di privacy.
Tutto ciò che non funziona sta nel quarto d'ora finale, per un paio di motivi: innanzitutto appare evidente che Gilroy non si trovi a suo agio a dirigere lunghe scene d'azione, specie quando gli vengono imposte, e si vede,  il montaggio è confusionario e spesso non si capisce cosa succeda su schermo; la sensazione è che questa sequenza di chiusura sia stata appiccicata in malo modo alla pellicola per fini più commerciali che altro. In secondo luogo, viene introdotto un elemento, un deus ex machina per i villain, che stona con il contesto e che, privo com'è di qualsivoglia caratterizzazione o di una costruzione della tensione ben definita, risulta quasi essere anticlimatico.
Fortunatamente ciò non inficia la qualità complessiva di un notevole film di genere, ingiustamente stroncato da buona parte della critica d'oltreoceano perché diverso dai suoi illustri predecessori.

Il bianco e il nero #13: La rappresentazione progressista della donna nei film noir.

Il seguente pezzo è una traduzione del saggio Film Noir's Progressive Portrayal of Women presente, insieme a molti altri, sul sito http://www.filmnoirstudies.com/. Essendo molto interessante ed essendo io un grande appassionato del genere noir, ho deciso di condividerlo qui, in modo da permettere anche a quelle persone che se la cavano magari non benissimo con l'inglese di goderne appieno. Spero sia di vostro gradimento.


La femme fatale per eccellenza del cinema noir usa la sua attrattiva sessuale e la spietata astuzia per manipolare gli uomini al fine di ottenere il potere, l'indipendenza, il denaro, o tutti e tre in una volta. Rifiuta i ruoli convenzionali di moglie devota a madre amorevole che la società tradizionale prescrive per le donne, e alla fine la sua trasgressione delle norme sociali conduce alla  propria distruzione e alla distruzione degli uomini che sono attratti da lei.
Il ritratto della femme fatale nei film noir sembrerebbe dunque sostenere l'ordine sociale esistente - e in particolare i suoi ruoli dovuti al sesso, rigidamente definiti - costruendo una donna potente, indipendente, solo per infine punirla.

Ma uno sguardo più attento ai film noir suggerisce un'interpretazione opposta. Anche quando dipingono le donne come pericolose e meritevoli della loro distruzione, mostrano comunque quanto sono confinate dai ruoli tradizionalmente a loro disposizione -quindi la loro lotta distruttiva per l'indipendenza è una risposta alle restrizioni che gli uomini impongono su di loro. Inoltre, questi film vedono il mondo intero - non solo le donne indipendenti - come pericoloso, corrotto, e irrazionale Non contengono alcuna prescrizione di come le donne debbano comportarsi e i pochi esempi di matrimoni felici, e le loro immagini di donne convenzionali sono spesso blandi, fino al punto di  assomigliare a una  parodia. E' l'immagine di questa forte, intrepida e indipendente femme fatale che rimane impressa nella nostra mente alla fine del film, forse perché - a differenza delle altre donne forti di altri film di Hollywood degli anni '30 e '40 - rimane fedele alla sua natura distruttiva e rifiuta di essere convertita o catturata, anche se questo significa che deve morire.

domenica 9 settembre 2012

Bella Addormentata di Marco Bellocchio

Nelle sale dal 6 settembre
In concorso alla 69esima Mostra del cinema di Venezia

Alle 19:35 del 9 febbraio 2009 Eluana Englaro è morta per arresto cardiaco in seguito alla sospensione dell'idratazione e dell'alimentazione artificiale che l'avevano tenuta in vita in stato vegetativo per 17 anni. Marco Bellocchio decide di raccontarci le 24 ore che precedono quell'evento attraverso gli sguardi e le storie di un gruppo di personaggi più o meno emotivamente coinvolti, in un dramma che si mantiene in bilico tra il corale e l'episodico.
L'episodio principale, che fa un po' da scheletro a tutto il film, è quello interpretato da Toni Servillo e Alba Rohrwacher, lui è un senatore del Popolo Della Libertà che si prepara a votare il disegno di legge sull'idratazione e l'alimentazione, lei è sua figlia, che con un gruppo di amiche parte per Udine per partecipare alla manifestazione contro la sospensione dell'alimentazione artificiale. Principale anche perché mette a confronto due personaggi che assumono posizioni antitetiche sulla questione, il padre, nonostante le indecisioni sul voto, sembra essere nettamente a favore dell'eutanasia, la figlia invece è contraria, sul loro giudizio e sul loro rapporto però pesa il recente decesso della moglie/madre, costretta in una situazione molto simile a quella di Eluana. A questo episodio si lega quello di Roberto (Michele Riondino) e del suo fratello ribelle (Fabrizio Falco, premiato a Venezia come miglior attore esordiente), anche loro a Udine per manifestare però a favore dell'eutanasia. C'è poi la storia del Dottor Pallido (Pier Giorgio Bellocchio, figlio del regista) che tenta in tutti i modi di aiutare la tossicodipendente Maya Sansa, e quella di Isabelle Huppert , ex-attrice teatrale che sprofonda nella fede e rinuncia alla carriera per assistere la figlia in stato vegetativo.
Una struttura corale per ricordarci poco elegantemente che la storia di Eluana è una storia italiana, anzi universale, che direttamente o indirettamente sfiora tutti, dal politico all'artista. Una scelta narrativa che, oltre a risultare tremendamente didascalica, rischia anche di sembrare poco coraggiosa, un modo per rifuggire un tema troppo spinoso, spalmato in una serie di sotto-trame invece di essere adeguatamente sviscerato in un blocco narrativo compatto.
A peggiorare le cose ci si mettono il copione, la sceneggiatura in generale e le interpretazioni di alcuni attori. Visto che ho già utilizzato l'aggettivo didascalico ne aggiungo un altro: caricaturale, perché in Bella addormentata tutto viene portato all'esasperazione, i personaggi annunciano il loro stato d'animo invece di lasciarlo trasparire dall'insieme dell'interpretazione, e i temi portanti vengono semplicemente piazzati sotto al naso dello spettatore senza un minimo di tatto. Così per esempio gli esponenti del PDL diventano delle autentiche macchiette, guardano i protestanti e dichiarano sghignazzando “Tanto non contano niente!” e poi si precipitano nelle stanze del potere a farsi fotografare in pose fasciste, o a raccontarsi l'un l'altro di come Berlusconi li ha salvati tutti dalla galera, perché evidentemente non se lo ricordano. Di certe cose bisogna parlarne è vero, ma bisogna parlarne nel modo giusto, altrimenti anche la tesi più convincente perde credibilità e diventa un'arma a doppio taglio.
Toni Servillo fa Toni Servillo, lo fa bene ma mi piacerebbe vederlo alle prese con qualcosa di diverso, e anche per questo aspetto E' stato il figlio, di Daniele Ciprì. Lo stesso vale per Alba Rohrwacher che però trovo sempre meno sopportabile nella parte dell'impacciata cronica. Ma mentre loro fanno il possibile per tenere a galla la barca, il resto del cast fa di tutto per affondarla; Isabelle Huppert esclusa, non se ne salva uno, dal terribile Brenno Placido, passando per Gianmarco Tognazzi e concludendo con Maya Sansa, attori convinti che il livello di drammaticità di una scena sia direttamente proporzionale al volume della voce.
Se Bella addormentata fosse stato incentrato su tutt'altro tema sarebbe stato semplicemente un film insignificante, ma visto che affronta un argomento così importante e delicato in modo così goffo, il peso dei difetti aumenta in modo esponenziale, non ci si può permettere di parlare di eutanasia con toni da un Posto al Sole.
Qualcuno ha detto che il film di Bellocchio possono capirlo solo gli italiani ed è per questo che a Venezia è stato boicottato, la prima parte è vera, solo noi italiani possiamo capire e riconoscere l'italietta rappresentata da pellicole come questa, ma non significa che debba piacerci.


sabato 8 settembre 2012

Dossier Harmony Korine: il narratore della generazione zero.

"I never cared so much about making perfect sense. I wanted to make perfect nonsense. I wanted to tell jokes, but I didn't give a f*ck about the punch line."


Werner Herzog lo ama così tanto da voler partecipare in un paio di suoi film, Gus van Sant ha prodotto la sua prima fatica, Bernardo Bertolucci lo ha elogiato più volte, Oliver Stone ha cercato di farsi scrivere una sceneggiatura, ma invano, Roger Ebert lo ha definito come l'unica vera cosa nuova e innovativa uscita da molti anni a questa parte, ha pure scritto una canzone insieme a Bjork. Ha vinto a Venezia, a Rotterdam, a Gijon. Quest'anno è stato invitato di nuovo al festival di Venezia con il suo Spring Breakers, destando le risate di alcuni e lo storcere di nasi di altri. Eppure al momento è la più grande sorpresa della mostra e la gente non ride più. Un curriculum niente male per un ex punkettone skater nullafacente di Manhattan. 
Korine con soli quattro film (aspettando quello nuovo) e un paio di sceneggiature si è affermato come uno dei più eversivi filmmaker del mondo. C'è chi parla di weirdo, trasho e chi parla di neorealismo americano, di cinema veritè. Uno stile riconoscibile che divide, o lo si ama o lo odia, impossibile rimanere nel mezzo, lo specchio del nuovo cinema contemporaneo.
Vediamo di scoprire un pò di più di questo enfant prodige (ormai 39enne) capace di far pippare cocaina alle star di Disney Channel.

-Comincia dal principio e quando hai finito, fermati.
Harmony Korine, vero nome e vero cognome, nasce nel 1973 a Bolinas in California, ma non è importante. Dopo poco lo ritroviamo a Nashville, Tennessee, dove rimane fino al suo nuovo trasferimento a New York. E' nella grande mela che nasce, di nuovo, il vero Harmony. Per dirla alla Principe di Bel Air, tra un giro in skate per i mille parchi della città e un film notturno in qualche cinema d'essai, Korine è cresciuto. Punkabbestia ma intellettuale, straccione ma colto, si iscrive ai corsi di cinema della NY University. E li molla dopo solo un mese. A instradarlo verso il cinema è il babbo, Sol, documentarista e i suoi veri insegnanti sono Godard, Cassavetes, Herzog, Fassbinder, tutti autori stranieri che può trovare solo in cinemini di quart'ordine a orari astrusi della notte. 
Certo rimane una passione, perchè la sua aspirazione, in quel momento, è diventare un ballerino di tip tap*, un pò il sogno di tutti. Il caso, la fortuna, la teoria del caos, vuole però che mentre è in giro a skate-are con i suoi amici a Washington Park, NYC, viene notato dal fotografo Larry Clark. Qualche foto, due chiacchiere, c'è feeling. Allora Harmony tira fuori una robetta che ha scritto in due settimane, un copione di qualche pagina, a conti fatti una sceneggiatura vera e propria. L'argomento è semplicissimo: inizia con un padre che porta il figlio a vedere una prostituta, il resto è cronistoria delle avventura quotidiane dei suoi amici nella megalopoli americana. Non è altro che Kids, secondo alcuni, IL film per eccellenza della MTV generation.

martedì 4 settembre 2012

Eva di Kike Maillo

In sala dal 31 agosto.
Non solo sono diventati i migliori in qualsiasi sport (basket, calcio, tennis, motociclismo, formula 1, ciclismo), ma da almeno un lustro, gli spagnoli dettano legge anche al cinema. Non importa il genere, hanno sfondato in ognuno di essi. Che sia il ritorno di un grande maestro come Almodovar, il che non stupisce, che sia quel gruppetto composto da Plaza-Balaguero-Bayona, o il talentuoso de la Iglesia, o che sia un giovane alle prime armi, come il 35enne Maillo, non ne sbagliano una. Non solo fanno un cinema di successo ma riescono anche a esportarlo senza troppe difficoltà. 
Qual'è il mix, gli ingredienti che hanno permesso questo periodo così florido? Difficile dire, balza però agli occhi una volontà di osare e di andare oltre i generi più classici (il dramma e la commedia) dovuto in gran parte a scrittori originali, ma soprattutto a produttori fiduciosi. Io credo che in Italia si possa e ci sia qualcuno in grado di scrivere un horror più che decente o un film di fantascienza affascinante. Il problema è che nessuno poi glieli produce (ma a sentire i produttori non è affatto così, ma vuoi mica che si autoaccusino, no?). Meglio puntare sulla classica commedia a episodi, magari un pò volgarotta, o al dramma urlato, o sussurrato, non c'è una via di mezzo, che tanto piacciono al pubblico. Già il pubblico, è un circolo vizioso. Non può vedere film "diversi" perchè non si fanno, non si fanno tali film, perchè è vero, poi nessuno va realmente a vederli. Insomma, vuoi vedere che anche gli spagnoli, come spettatori, sono meglio di noi?

Eva, il primo film iberico sui robots, si inserisce perfettamente in questo contesto e in questo periodo storico spagnolo. Si apre con una ripresa che è un bel pugno in faccia, indiretto, al cinema italiano. Ampio respiro, di taglio americano, grande. Parte col botto insomma, e da subito, altra caratteristica di alcuni di questi prodotti spagnoli, se non lo sapessimo da dove provengono, difficilmente azzeccheremmo la nazionalità. Altro grande pregio, quando si viene a fare i conti con l'esportazione. 
Dopo questo prologo-epilogo, che va tanto di moda, viene il resto del film. Seguiamo Alex Garel, appena tornato a casa, in una regione montana della Spagna, dopo qualche anno di assenza. Siamo nel 2041 e la robotica ha fatto passi da gigante. Lui e suo fratello sono degli specialisti nella creazioni di automi il più possibili fedeli al modello umano. Alex torna nella sua università dove gli viene commissionata la creazione di un robot libero, ovvero non rigido, spontaneo, naturale, con tutte le caratteristiche di noi uomini. E' un progetto illegale e quindi va tenuto il segreto. Siccome sarà un bambino dell'età di circa 10 anni, deve scegliere un modello reale a cui ispirarsi. Tutti quelli testati gli sembrano normali, noiosi, lui ne vuole uno particolare. Ed un giorno incontra Eva, una tipetta tutto pepe, che scoprirà poi, essere figlia del fratello e di una sua ex collega e fiamma, Lana. La sceglie e inizia a modificare le caratteristiche del robot libero in base alle sue risposte a test accurati, incontra però l'opposizione dei genitori. 

Il futuro e la tecnologia di Eva sembrano quelle ipotizzate dai film di fantascienza anni '80. Figure plasticose, modelli antichi convertiti in chiave hi-tech (si vede spesso una Saab vecchia con cursori da videogioco), androidi nati già vecchi. Un pò Ritorno al futuro 2 insomma, ma chiaramente non si può trovare in un film simile la CGI americana o quella da ultimo grido. E diciamocelo chiaramente, della CGI, anche se è fantascienza, importa poco in una pellicola così.
Importa di più l'ambiente e i sentimenti. Ed ecco che arrivano le prime piccole critiche. Prima di tutto, ci troviamo in una regione nevosa, isolata, algida. Sembra quasi che quando si trattano i temi come cloni e robot, sia impossibile ambientarli in posti caldi. Una sit-com su un robot irriverente che gestisce un bar in un isola tropicale, è il mio sogno, ma non arrivo a chiedere così tanto. Vorrei solo che si uscisse da questo stereotipo (ancora di più nel weekend dove esce pure Womb) e a tal proposito è molto interessante il finale, che non rivelo, perchè continua a perseguire questa idea.
Si, l'abbiamo capito, robot e cloni non provano emozioni come noi, sono freddi come l'ambiente in cui li troviamo (siamo tornati all'espressionismo anni 20-30), ma l'intento di questi film è quello di provare il contrario, che sono umani, capaci di amare, di sentire emozioni, affetto e anche l'ira. I protagonisti si affezzionano a loro e noi pure, almeno dovremmo. Eppure accade sempre che il risultato finale (ancora una volta Womb oppure Non lasciarmi) è l'opposto. Film freddi, scuri, apatici. E Eva non è da meno.

Un'altra critichina si può fare al coup de thèatre di tre quarti di film, quello classico. Non è neanche tale, perchè è chiaro fin dalla locandina, addirittura, quale sarà. Anche qui, non voglio dire sia un film che punta alla sorpresa -dovrebbe puntare ai sentimenti, ma come detto, fallisce- ma è talmente banale da risultare sgradevole. In primis perchè si vive il film con l'attesa di questa rivelazione, sempre li a pelo d'acqua, e in secundis perchè è gestita male, persino la rivelazione stessa. 
In definitiva è un film dai molti pregi estetici e tecnici, ma debolino dal punto di vista del resto. Va a infilarsi in quella sequela di pellicole di argomento simile, senza però aggiungere niente, se non un'ulteriore discussione sul "robot umano e perfetto VS le tre leggi della robotica di Asimov". Non è un brutto lavoro, ma era d'obbligo aspettarsi qualcosina di più, di pari passo alla cifra stilistica di questo novello regista (già premiato per giunta con un Goya e menzionato dalla critica a Venezia 68).
Note a parte per gli attori, Daniel Bruhl (Alex, e già visto in Goodbye Lenin o Bastardi senza gloria), uno dei giovani attori più bravi del momento, e qui non è da meno, e Marta Etura (Lana, vista neanche un mese fa nell'ottimo Bed Time), astro nascente e anch'essa elemento di questa nuova nouvelle vague, anzi Nueva Ola.
Frase cult: "Cosa vedi quando chiudi gli occhi?" quella che disattiva i robot, molto bella.

lunedì 3 settembre 2012

Il bianco e il nero #12: Lauren e Humphrey, come iniziò

[Slim bacia Steve] 
Steve: Perchè l'hai fatto? 
Slim: Mi chiedevo se mi sarebbe piaciuto. 
Steve: Qual'è il verdetto? 
Slim: Non lo so ancora. 
 [Si baciano ancora] 
Slim: E' ancora meglio quando contribuisci.
Il primo bacio al cinema, in Acque del sud, tra i due.


La ragazza era così carina che Earl Robinson, un noto compositore, a cui era stato chiesto di tenerla d'occhio durante il suo viaggio di quattro giorni in treno da New York a Los Angeles, si sentì costretto a scrivere a sua moglie, durante il tragitto, per rassicurarla che "non era niente di che".
L'uomo era stato chiamato a Hollywood dall'agente e produttore Charles K. Feldman (tra i suoi clienti, più di 300, John Wayne, Gary Cooper, Greta Garbo e Marilyn Monroe) per lavorare a un certo film. Feldman gli disse che avrebbe avuto compagnia, solo una ragazzina, che magari avrebbe poi assunto. Siccome era la prima volta che stava per conto suo, gli chiese se poteva appunto badare a lei.

Nei primi del 1943, lungo la piattaforma della Grand Central Station, quella che porta al  Twentieth Century Limited, stava per salire a bordo questa ragazza tutta gambe, lunga chioma, vestita molto semplicemente, un mazzolino di gardenie nella mano, e a fianco la mamma. Nessuno avrebbe riconosciuto in lei la bionda d'alta moda con gli occhi tenebrosi della copertina di Harper's Bazaar di marzo. 
Robinson, accompagnato dalla moglie fino al binario, non ci vide nulla in lei di attraente, ma forse proprio perchè non potè realmente guardarla bene. Sembrava più una scolaretta con la cotta per il cinema, e siccome l'opinione di Robinson verso questo tipo di ragazze era abbastanza bassa, la giudicò male. Dopotutto però trovò la 18enne Betty Bacal, futura Lauren Bacall, "onestamente amichevole" e assunse quel ruolo di "guardiano" con piacere e con il benestare della madre di lei, Natalie.

Betty iniziò a recitare qualche anno prima, alla high school. Nonostante il divorzio dei suoi genitori, lei era il fulcro di una larga famiglia di ebrei composta da innumerevoli zii e zie e una nonna, la prima a arrivare in America dalla Romania. E' proprio uno degli zii che le pagò la retta per il costoso collegio fuori città.
La famiglia crede nel duro lavoro e nelle scuole serali e che in questa nuova terra, se lo si desidera fortemente, nulla è impossibile. Tornata a New York dopo gli studi, Betty si barcamena per entrare nel difficile mondo del teatro, accettando i più disparati lavori. Modella, maschera, venditrice di programmi teatrali davanti a Sardi's, il ristorante prediletto dagli artisti newyorkesi. Impara molto presto che non serve essere timida e ritrosa e che essere giovani e belle è un dono da sfruttare per essere notate.

domenica 2 settembre 2012

Babycall di Pål Sletaune

Nelle sale dal 31 agosto.
E a proposito di sfide impossibili, anche questo Babycall non poteva comparire nelle sale cinematografiche in un momento meno favorevole, infatti che io sappia è abbastanza difficile trovarne traccia da qualche parte, e ahimé, perché lo seguivo da un po', sarei quasi tentato di dire menomale.
A sei anni di distanza da Naboer (2005) Pal Sletaune torna ad affrontare una storia che indaga il confine tra reale ed irreale: Anna (Noomi Rapace, premiata come miglior attrice al Festival di Roma del 2011) si è appena trasferita in un nuovo appartamento insieme a suo figlio Anders di otto anni, molto presto scopriamo che i due sono in fuga da un marito e padre violento, un uomo che in più di un'occasione si è avvicinato a provocare la morte del bambino. Chi subisce di più le conseguenze del trauma è però Anna, che diventa esageratamente iperprotettiva nei confronti del figlio, al punto da non permettergli di frequentare la scuola o di dormire in una camera separata dalla sua. I servizi sociali però le stanno con il fiato sul collo, se non cresce suo figlio in modo sano ed equilibrato il tribunale potrebbe decidere di sottrarglielo, e come se non bastasse il marito ha cambiato avvocato e sta cercando di ribaltare la decisione del tribunale. Anna allora fa il possibile per superare le sue ossessioni, prima permette ad Anders di frequentare la scuola e poi compra un baby monitor per controllarlo durante il sonno, ma l'apparecchio comincia a trasmettere le urla disperate di un altro bambino e Anna precipita di nuovo nelle vecchie ossessioni.
E' facile notare qualche analogia con il Repulsion di Roman Polanski, la figura femminile psicologicamente fragile, il maschio visto come minaccia e l'assedio nell'appartamento che diventa rifugio dalle fobie... analogie che però rimangono esclusivamente tematiche, perché Sletaune oltre all'aspetto psicologico tenta di svilupparne parallelamente anche uno soprannaturale, senza però riuscire a prendere una direzione precisa e ben definita, rimbalzando quindi tra suggestioni paranormali non pienamente sviluppate e situazioni tipiche del thriller psicologico, così tipiche da risultare fastidiosamente piatte e prevedibili.
Piattezza e prevedibilità si prestano altrettanto bene a descrivere l'impianto tecnico, che purtroppo non ci prova nemmeno a compensare la povertà generale di idee. Freddezza ed essenzialità, che molto spesso rappresentano il punto di forza di tante produzioni nordiche, qui servono solo a rendere tutto più anonimo e banale. Non si nota nessun tentativo di usare la regia per dare corpo alle tensioni, e l'idea di una confusione tra reale e irreale viene comunicata abbastanza didascalicamente attraverso le parole dei personaggi piuttosto che essere suggerita tramite le immagini. Persino il soprannaturale è portato in scena in modo piuttosto scarno, eppure, pur essendo un elemento secondario all'interno del film, è proprio quel paranormale a scatenare le situazioni più interessanti, come quando Anna durante uno dei suoi deliri si tuffa in un lago che in realtà non esiste ma si risveglia in ospedale completamente bagnata.
E a proposito di Anna veniamo a Noomi Rapace, che effettivamente è una delle poche cose che spiccano veramente, non tanto per il suo ruolo di madre possessiva ma per la sorprendente naturalezza con cui interpreta una donna arrivata ad un punto di rottura, la classica figura solitaria e inquietante che ti spinge a cambiare strada quando la incroci. Un po' come in Uomini che odiano le donne la sua femminilità viene quasi completamente azzerata (per vederla in atre vesti aspetto Passion, di Brian De Palma), capelli lunghi e spettinati, abbigliamento molto umile e soprattutto la sua gestualità, con quel modo di camminare molto trascinato e le spalle perennemente cascanti, insomma un'interpretazione degna di nota che purtroppo sembra andare sprecata in un film dignitoso quanto anonimo.