martedì 2 aprile 2013

L'immondo profondo #12: Britannia imperat

Direttamente dal regno dei morti (mesi di silenzio), torna la rubrica dedicata al cinema de paura.
Non so se riuscirò a riproporvela con regolarità ma ho già in mente un paio di idee per il futuro. Oltre che per i soliti specialoni, stavo pensando di sfruttare questo spazio per parlarvi di volta in volta delle pellicole in cui mi imbatto mentre pesco a piene mani da quel fiume pieno di liquami e monnezza che è il cinema horror. Quindi largo a mini-recensioni doppie (come in questo caso), triple o addirittura quadruple!

Intanto beccatevi questa double feature dedicata a due degli horror più intriganti degli ultimi tempi, ovviamente mai arrivati in Italia.
L'articolo è disponibile anche su The Movie Shelter, un sito con cui noi Filmbuster(d)s collaboriamo spesso e volentieri.

Kill List di Ben Wheatley

Prendete nota perché Ben Wheatley è un nome da non perdere mai di vista. Dopo una serie di esperienze televisive come regista di sit-com inglesi, decide di scrivere, dirigere (in soli otto giorni) e produrre il suo primo lungometraggio, Down Terrace, un noir con elementi comici che non incassa una fava ma che rimedia qualche premio e porta il panciuto regista inglese all'attenzione di pubblico e critica. Dopodiché, di punto in bianco, passa all'horror con Kill List, e lo fa con la mano ferma di un artigiano che sembra non aver fatto altro in vita sua.
Merita un'occhiata anche il suo ultimo film, Sightseers, una commedia a tinte horror che ho avuto la possibilità di vedere l'anno scorso al Festival di Locarno. Wheatley era presente in sala con completo nero, camicia fuori dai pantaloni e scarponi da lavoro, e ha fatto una presentazione del film completamente folle. Se con Kill List mi ero innamorato, dopo quella serata ho capito che volevo sposarlo, ma passiamo al film:
Jay (Neil Maskell) è un ex-militare inglese, ha una bellissima moglie (MyAnna Buring, è proprio scritto così, lo giuro) un figlio e una casa enorme immersa nel verde con una vasca idromassaggio in giardino. Insomma si gode la vita e un meritato riposo dopo una missione a Kiev in cui è andato tutto storto, ma il riposo dura da troppo tempo e i soldi scarseggiano, così dopo l'ennesima terribile lite, sua moglie Shel invita a cena Gal (Michael Smiley) amico e commilitone di Jay. E qui sta l'inghippo: i due ex-soldati sono anche due killer professionisti, e per sistemare le finanze di Jay decidono di accettare un incarico più bizzarro del solito, una lista di vittime (la kill list del titolo, duh!) fornita da uno strano gruppo di individui in giacca e cravatta. Ma qualcosa non torna, gli obiettivi sono persone molto comuni, e, ogni volta, poco prima di essere uccisi a sangue freddo, si rivolgono a Jay e lo ringraziano.

Kill List è il classico film che trascende il suo genere, soprattutto se si pensa all'horror nella sua incarnazione hollywoodiana più recente. Piuttosto che sulla ricerca di spaventi e sobbalzi facili, punta tutto sulla costruzione certosina di un'atmosfera sempre claustrofobica e inquietante, persino nelle primissime scene ambientate tra le quattro mura di casa, quando ci mostra semplicemente la realtà dietro la facciata della tipica famiglia borghese (borghese ? Massì). Lo sguardo fermo e distaccato, l'assenza di musiche e la fotografia dai toni freddissimi rendono inquietanti e cariche di presagi anche delle banali liti domestiche, come se ci fosse costantemente qualcosa o qualcuno che osserva insieme a noi, una presenza che fortunatamente rimane sempre impalpabile e distante. Kill List infatti si prende i suoi tempi, e con un taglio quasi neorealista documenta una quotidianità che in realtà non ha assolutamente nulla di convenzionale, continuamente attraversata dalla violenza, quella verbale delle liti domestiche o quella più brutale e fisica delle anormali giornate lavorative di Jay e Gal.
In un certo senso è uno di quegli horror in cui “non succede nulla”, mentre il poco che succede viene intenzionalmente lasciato avvolto nel mistero, ma la forza del film sta tutta qui, nel lavorare per sottrazione, lasciando parlare solo la violenza delle attese strazianti e dei tempi dilatati fino al limite consentito, soppesando con cura suspense e tensione, per farle poi esplodere al momento giusto in uno dei finali più pazzeschi di sempre.
C'è una scena che nella sua semplicità riassume perfettamente la potenza del film: temendo di essere inseguiti, Jay e Gal si nascondono in una piccola galleria in cui ci si rigira appena, è tutto avvolto nell'oscurità e la luce delle loro torce serve a poco. Una traccia musicale appena accennata, il rumore del loro fiato corto, l'oscurità e un terribile silenzio...

Berberian Sound Studio di Peter Strickland 

Berberian Sound Studio cerca di fare con i suoni quello che Amer di Helene Cattet e Bruno Forzani aveva fatto con le immagini (Oh a proposito, recuperatelo perché è pazzesco): un allucinato omaggio al cinema horror italiano degli anni '70. Toby Jones interpreta Gilderoy, un ingegnere del suono inglese assunto da una produzione cinematografica italiana per curare il comparto sonoro di The Equestrian Vortex, un horror visionario e bello truculento. Ma non è un horror, è un “Santini Movie”, come spiega Fabio Santini, regista dall'ego smisurato che ricade un po' nello stereotipo italiano dell'artista paraculo e puttaniere. Insomma Gilderoy si butta anima e corpo nel suo lavoro sotto le insostenibili pressioni della produzione, finché inizia a perdere lentamente il contatto con la realtà e a farsi inghiottire letteralmente da questo film di cui conosciamo solo dialoghi ed effetti sonori. Dicevo all'inizio “cerca” perché secondo me proprio non ci riesce. Sicuramente è un esperimento interessante e un bel modo di entrare nel vivo della realizzazione di un film attraverso il montaggio sonoro, aspetto fondamentale ma molto spesso dato per scontato, soprattutto negli horror. E' divertentissimo poi assistere a questa strage di ortaggi sacrificati per ottenere gli effetti sonori più disparati. Ed è ancora più divertente vedere, o ascoltare, come il suono diventi il vero protagonista del film, il mezzo attraverso cui l'horror di Santini, che appunto non vediamo, e l'orrore in senso stretto vengono portati all'interno della storia. Purtroppo la conclusione sembra un po' tagliata con l'accetta e la piega visionaria è molto poco ispirata, semplicemente ad un certo punto il lavoro di Gilderoy, e quindi il cinema, iniziano ad invadere la sua realtà, e allo spettatore non resta altro che prenderne atto. Perlomeno si rimane con un ottimo Toby Jones e un bellissima messa in scena che restituisce tutto il fascino di quegli studi di registrazione bui e polverosi. Stupende e molto stranianti le scene mute in cui osserviamo da fuori i diversi doppiatori che urlano all'interno delle cabine insonorizzate, o uno dei deliri di Gilderoy in cui la sua voce diventa “doppiata” in italiano. Se non altro Strickland riesce trasformare la realizzazione dei suoni cinematografici in qualcosa di violento e terrificante, quasi più della violenza reale, e non mi pare poco.

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