giovedì 12 luglio 2012

The Way Back di Peter Weir


The Way Back è un altro di quei film che si girano tutti i festival in attesa di essere distribuiti, e quando finalmente trovano un distributore, due anni dopo in questo caso, arrivano soltanto in una manciata di sale. Un suicidio commerciale insomma.
Ridendo e scherzando Peter Weir non si vedeva nei cinema dai tempi di Master and Commander, nel lontano 2003. Dopo quasi 9 anni, si rifà vivo con un altro adattamento cinematografico di un libro su cui vale la pena spendere due parole.
The Long Walk esce nel 1956, è la biografia di Sławomir Rawicz un soldato polacco accusato di spionaggio e rinchiuso in un gulag siberiano nel 1940. Secondo il racconto di Rawicz, lui e altri 6 prigionieri, tra cui un misterioso americano soprannominato Mr. Smith, evasero dal campo di lavoro e iniziarono una lunga marcia attraverso la Siberia, il deserto del Gobi e la catena dell'Himalaya per arrivare in Tibet nel 1942. Una passeggiata di 6500 km nei luoghi più inospitali del pianeta, a piedi e senza provviste, per raggiungere l'unico paese non comunista e quindi la libertà. Una storia bellissima ma purtroppo falsa, eh si, perché nel 2006 la BBC raccolse una serie di documenti che contraddicono alcuni punti fondamentali del racconto di Rawicz, a quanto pare infatti il polacco venne graziato da un'amnistia nel 1942 e venne trasportato in Iran, dove firmò personalmente molti dei documenti menzionati sopra. Rawicz scompare nel 2004 e dell'altro uomo sopravvissuto alla fuga non esistono tracce, quindi nessuno ha mai potuto confermare o smentire. Ma, c'è un bel ma, nel maggio del 2009 salta fuori Witold Gliński un veterano della seconda guerra mondiale che dichiara di essere il vero protagonista della lunga marcia, secondo lui Rawicz è in qualche modo venuto a conoscenza della storia e se n'è impossessato. Ovviamente anche la versione di Gliński viene subito messa in discussione e anche in questo caso vengono individuate varie contraddizioni. Molti poi si chiedono come mai Gliński si sia fatto avanti così tardi e solo dopo la morte di Rawicz, e qui la storia si fa ancora una volta misteriosa: Gliński avrebbe mantenuto il segreto per proteggere uno dei suoi compagni di viaggio, un assassino che cambiò identità e si rifugiò in Inghilterra come lui. Qualcuno però ha tirato fuori un'ipotesi ancora più interessante: Rawicz era in realtà l'assassino sotto falso nome, arrivato in Inghilterra si impadronì della storia e minacciò Gliński per non farlo parlare.
Allora perché Weir decide di trarre un film da un romanzo basato su una menzogna ? Probabilmente perché è interessato solo alla storia, infatti cambia nome al protagonista e interviene quanto basta sulla sceneggiatura per allontanarsi il più possibile dalla fonte. Il titolo stesso, The Way Back, serve a prendere le distanze dalla storia di Rawicz e a darle un significato tutto nuovo.
Sulla trama ho già detto abbastanza e c'è poco da aggiungere, Weir si limita a immortalare questo esodo interminabile senza orpelli o scossoni, i protagonisti (tra cui Jim Sturgess, Ed Harris e Colin Farrell) non hanno tempo di lanciarsi in improbabili monologhi sull'orrore delle dittature e sull'importanza della libertà, sono troppo impegnati a spaccare legna e a scavare zolfo nel gelo della Siberia, per cui senza troppi preamboli colgono l'occasione buona e si lanciano in questa impresa folle. E non si tratta di una bella avventura o del solito viaggio da leggersi come metafora di una crescita interiore, è proprio una scarpinata di 4000 miglia dove il freddo uccide, i denti cadono, le labbra si spaccano e i piedi si riempiono di piaghe. Condizioni così ostili che diventa persino impossibile creare un legame con i propri compagni di viaggio, come ci ricorda il personaggio di Saoirse Ronan, sia perché ti mancano le forze, sia perché è sempre vivo il timore che chi ti sta a fianco potrebbe non superare la notte.
Un film difficile, 130 minuti di situazioni quasi sempre drammatiche o sgradevoli, eppure sono due ore che scorrono piuttosto in fretta, sarà per il fascino dell'impresa, o sarà perché non ci si stanca mai di quei paesaggi ostili quanto meravigliosi (non a caso il film è prodotto da National Geographic) inquadrati dalla splendida fotografia di Russell Boyd. Sempre più spesso infatti le piccole figure dei protagonisti si perdono nei campi lunghi delle fittissime foreste siberiane o nella desolante orizzontalità del deserto, le distanze si dilatano e gli uomini si fanno più deboli e insignificanti. Sembra quasi che lo stesso Weir voglia suggerirci ad ogni inquadratura che un viaggio del genere in quelle condizioni è impossibile da compiere, ma in fondo è così affascinante che vorremmo crederci, un pò come alla storia di Rawicz.

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