sabato 9 novembre 2013

Prisoners di Denis Villeneuve

Nelle sale dal 7 novembre

Quando ci si accosta ad un film come Prisoners, lo si fa quasi sempre con quello scetticismo che si manifesta quando un bravo regista non-americano si lascia tentare da una produzione americana, anche perché i risultati sono sempre altalenanti. Questa volta tocca al canadese Denis Villeneuve, regista dello straziante La donna che canta (Incendies, 2010), che però trova nella sceneggiatura di Aaron Guzikowski (quello di Contraband, eh lo so...) un soggetto non troppo lontano dalle sue corde.
Keller Dover (Hugh Jackman) è l'archetipo cinematografico del padre di famiglia americano: autoritario, profondamente religioso ed ossessionato dalla paura, una paura ereditaria che lo spinge a creare un rifugio sicuro nel suo seminterrato e a riempirlo di scorte per affrontare qualsiasi tipo di calamità. E' stato educato per essere pronto a tutto, ma il pomeriggio del giorno del ringraziamento sua figlia e quella del suo vicino attraversano la strada davanti casa e spariscono nel nulla.

La matrice è quella del film di genere, un thriller dalla struttura piuttosto riconoscibile che ha molto in comune con pellicole come Gone Baby Gone e Il segreto dei suoi occhi. Dopo una rapida presentazione dei personaggi e del grigissimo paesaggio, la storia entra subito nel vivo dell'azione sviluppandosi su due piani paralleli: da un lato c'è Keller, il cittadino modello che per salvare sua figlia decide di farsi giustizia da solo, da un punto di vista narrativo la sua metà della storia si arresta subito, ma dramma e tensione si accumulano in un crescendo davvero esplosivo. Dall'altro lato invece c'è l'infallibile detective Loki (Jake Gyllenhaal), che nonostante le insopportabili pressioni esterne cerca di agire entro i confini della legalità. La sua indagine è costellata di indizi e probabili sospetti, un dedalo di false piste che, come per Keller, non lo portano da nessuna parte. Questa metà della storia, che poi funge un po' da scheletro, è quella più vicina alla struttura classica del thriller, un tira e molla di rivelazioni e svolte brusche che scandiscono l'ottimo ritmo del film e mantengono vivo l'interesse, anche per quegli spettatori più smaliziati che non faticheranno a mettere insieme gli indizi. Il merito è soprattutto di una sceneggiatura solida che si limita a rimescolare in modo intelligente gli elementi tipici del genere (e di vari generi), utilizzando il thriller come semplice pretesto per scandagliare ancora una volta il ventre molle dell'America. Prisoners è infatti una storia di individui bloccati, perennemente prigionieri della paura, divisi tra una fede che mette continuamente alla prova e una morale religiosa che impedisce di agire, o, più semplicemente, prigionieri di un aguzzino pronto a tutto pur di salvare sua figlia. E qui la mente torna inevitabilmente alla questione della tortura, perché in fondo Prisoners e i suoi personaggi non sono altro che una metafora piuttosto ovvia dell'America contemporanea, vittima della paura da più di dieci anni, colpita dove fa più male e messa completamente a nudo con tutte le sue più forti contraddizioni. Forse troppo ovvia, e infatti il film sfiora spesso il limite del didascalismo, soprattutto nel momento in cui il colpevole si rivela, ma nonostante questo funziona ed è molto ben inserita in un prodotto d'intrattenimento (se così si può definire) robusto e appassionante, che naviga speditissimo e tiene incollati allo schermo per la bellezza di 153 minuti.
Sorprendentemente buone le interpretazioni dei due attori protagonisti, anche se a spiccare è sicuramente Hugh Jackman (terza scelta dopo Christian Bale e Leonardo Di Caprio) che porta sullo schermo un personaggio tormentatissimo e molto credibile, aiutato dalla sua imponente presenza fisica. Notevole anche il resto del ricchissimo cast, che può vantare nomi come Melissa Leo, Maria Bello, Viola Davis, Terence Howard e Paul Dano, a cui la parte del viscidone riesce sempre benissimo.

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