Nelle sale dal 24 gennaio.
Una decade e due anni orsono, due uomini hanno portato avanti un'idea semplice, concepita in libertà e dedicata all'idea che tutti gli uomini sono creati per vedere il miglior film possibile su Abraham Lincoln. Colta la citazione? Bene, particolare la storia dietro all'ultima fatica di Spielberg. Tutto è nato ben dodici anni fà quando in comunione con Tony Kushner (suo sceneggiatore anche per Munich) cercò di portare su schermo uno dei suoi più grandi eroi, il 16esimo presidente della storia degli Stati Uniti.
Per diverse ragioni il progetto è stato via via accontonato e solo pochi mesi fa ha visto la luce. Il caso vuole che il 2012 appena passato sia stato l'anno di Lincoln, al cinema e non. C'è chi l'ha fatto diventare uno spietato killer di zombie o di vampiri, e chi, come Obama (democratico, mentre l'onesto Abe era repubblicano), ha citato diversi suoi celebri discorsi per portarsi a casa la rielezione. Senza dimenticare il fortunato The conspirator di Robert Redford (2011) che trattava del processo seguente all'assassinio per mano di John Wilkies Booth.
Spielberg si affida quindi a Kushner che predilige la via del biopic non completo, tanto di moda ultimamente ed effettivamente la miglior maniera per trattare una figura storica. Usando come base -una parte- del librone Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln (del premio Pulitzer Doris Kearns) racconta dei quattro mesi tra la rielezione di Abe, i suoi vincenti tentativi di promulgare il 13esimo emendamento, quello sull'abolizione della schiavitù, la conclusione della guerra civile e la sua nefasta dipartita al Ford Theatre di Washington. Quattro mesi, i più importanti della vita e della carriera politica dell'ex avvocato del Illinois, che usò il suo grande potere, derivato anche dalla vittoria della guerra, per porre fine alla schiavitù, causa della divisione. La sua grande sfida non era solo quella di far passare un emendamento che rendeva uguali cittadini di diversa razza -diversa da quella bianca-, ma di farlo passare entro la fine del conflitto, ovvero prima che i sudisti tornassero nei loro seggi e bloccasero tutto.
L'inizio di Lincoln è il più traviante possibile. Ci ritroviamo di colpo nel bel mezzo di una battaglia. 1865, gennaio, la guerra civile americana è quasi giunta al termine, il sud è stremato e al nord basta conquistare poche singole roccaforti per chiudere la partita. Spielberg apre con un frammento di una battaglia. Il fango, lo scontro corpo a corpo fatto di coltelli e baionette che si conficcano nella carne. Lo schermo è totalmente coperto da una coreografia impregnata di morte e violenza.
Ma il regista di Salvate il soldato Ryan la chiude qua. Per lui la guerra finisce con quella scena, perchè il tipo di battaglia centrale nel film è di tipo verbale. Nella piena tradizione delle più acclamate e premiate serie americane -da West Wing a il nuovo Newsroom- Lincoln vive di parole, di attori, di dialoghi e di una sceneggiatura poderosa, più vicina a un libro di testo universitario che a un prodotto commerciale.
Eliminati -dalla scena- i soldati, prendono la parola i politici che dibattono inferociti seduti ad un tavolo coinvolgendo lo spettatore in un turbinio capace di far girare la testa. E' un vero uragano a cui si fa fatica stare dietro ma una volta passato quell'inizio complicato, il film prende slancio e appassiona sempre più -nei limiti di un soggetto politico.
Almeno dal mio punto di vista, è parecchio interessante vedere come funzionava il teatrino della politica a quell'epoca, come i repubblicani erano più progressisti e i democratici più retrogradi -mentre ora è l'esatto contrario, si vede che qualcuno si è evoluto e qualcun'altro no- o come Lincoln ottenne quei voti tanto importanti -corruppe pesantemente alcuni deputati, ma Spielberg non lo nega di certo, dopotutto il fine giustifica i mezzi e il fine questa volta era di una certa importanza- o ancora la divertente corsa dei segretari del presidente dal senato fino alla Casa Bianca (ah, la politica prima dei social network!). Un viaggio frastornante all'interno della politica degno del Tempesta su Washington di Otto Premingher.
Protagonista è chiaramente il presidente che tuttavia rimane su schermo per un terzo della durata del film. Tempo necessario per mostrare approfonditamente il politico e soprattutto l'uomo, il padre e il marito, attraverso i suoi discorsi ma anche i suoi interminabili aneddoti e racconti; metafore per spiegare qualcosa di più grande ma molto spesso evitate e demonizzate dai suoi collaboratori ("Oh no! Sta raccontando un altra storia! Non ne posso più, me ne vado!" grida il suo ministro della difesa). Viene fuori il ritratto di un uomo fuori da ogni epoca, testardo, abile e inflessibile.
A proposito di questa lunghissima recensione mi viene da citare un "suo" aforisma, "Avrei potuto scrivere dei sermoni piu' corti, ma, una volta iniziato, sono troppo pigro per fermarmi".
Quello che ti aspetti da un film su un grande statista americano, progressista, che ha parzialmente pulito quella terribile macchia con cui gli americani convivono tutt'oggi, e con Spielberg dietro la macchina da presa è che si riveli un fiume di retorica e di patriottismo grondante stelle e striscie, eppure il vecchio Steven si trattiene più che può, fino a un certo punto. Certo c'è la scenetta con i soldati multirazziali che si radunano attorno a lui -in posizione simil monumento che gli verrà poi dedicato- e che recitano a memoria il suo discorso di Gettysburgh, certo c'è l'immagine di Lincoln papà che mette a letto il figlio con le figurine degli schiavi e certo ce ne sono tante altre simili, ma mai oltre il limite. Poi, ma glielo si perdona, si lascia andare con quel finale, e con quella camminata dinoccolata di Abe verso il suo destino e tutti gli occhi dei suoi collaboratori umidi quanto preveggenti. Spielberg si lascia andare come un fiume in piena e benchè sia commovente è anche fin troppo prevedibile.
Non posso chiudere senza un breve discorso su attori e sugli Oscar prossimi. Sebbene Daniel Day Lewis sia uno degli attori più bravi della nostra generazione e seppure interpreti un Lincoln impressionante per caratura e somiglianza, non riesco in primis a essere così colpito dalla sua performance -50% lo fa il trucco ma è un discorso che si può fare a mille ruoli, quasi sempre vincenti agli Oscar- e in secondo luogo a non pensare al suo lavoro in Gangs of New York di Scorsese. Ruoli per molti versi diversi e per tanti altri molto simili. Inoltre, se visto in italiano, Favino realizza un vero massacro con quella vocina. Per favore, fate come me e guardatelo almeno una volta in lingua originale.
Si ditinguono poi un Tommy Lee Jones imparruccato, molto buffo ma non per questo non spaventoso, Sally Fields nella parte della lunatica Mary Tood Lincoln e il sempre lodevole David Strathairn. Senza dimenticare il trio capitanato da James Spader che offre l'unica componente leggera dell'intera pellicola.
E quindi Oscar. Lincoln è il classico prodotto da Oscar sia per contenuto che per forma, ma mi sento di escluderlo da possibili larghe vittorie (12 nomination), sia perchè gli preferisco diversi dei film in lizza e sia perchè penso che l'America potrebbe credere nel piccolo Beasts of the southern wild, nel poetico La vita di Pi o nel guerreggiante Zero Dark Thirty, tanto scomodo e tanto coraggioso, che l'Academy potrebbe premiarlo.
Infine spero in Phoenix e molto meno in D.D. Lewis.
In definitiva -finalmente- Lincoln è certamente un prodotto di ottima fattura, coinvolgente sia dal punto di vista del contenuto -e qui la sceneggiatura meriterebbe un Oscar- che da quello visivo. Tuttavia l'argomento non facile, una regia buona ma non trascendentale o originale, un gruppo di attori buoni e attenti a rispecchiare i propri reali personaggi ma non così buoni da emozionare più di tanto lo spettatore, rendono il film meritevole di una visione ma non oltre quella. Rimane comunque uno dei lavori -non diretti all'enterteinment- migliori di Spielberg.